di ALESSANDRA GRIBALDO, GIOVANNA ZAPPERI1.

È sintomatico che la recente discussione sulla libertà delle donne si sia focalizzata sull’immagine femminile che ancora una volta emerge come un nodo tanto cruciale quanto irrisolto per il femminismo italiano. Il punto qui non è quello di valutare l’appropriatezza di una fotografia in bikini in campagna elettorale, quanto di analizzare il nesso tra la libertà, il corpo e l’immagine. In questa discussione si è infatti data per scontata una sorta di coincidenza tra il soggetto, il suo corpo e la sua immagine. Volendo riassumere, se da una parte si rivendica la libertà del gesto, e la totale autodeterminazione nel disporre del proprio corpo, dall’altra si mette in evidenza il fatto che il corpo è preso in una rete di significati dai quali è difficile districarsi, e che rendono l’esercizio della libertà più complicato di quanto possa apparire. Nonostante questa differenza sostanziale, il punto è sempre il corpo: per quanto complessi e convincenti, i ragionamenti e le argomentazioni tendono immancabilmente a sovrapporre la materialità del corpo con la dimensione virtuale dell’immagine.

A guardarla bene, la foto postata su facebook da cui è scaturito il dibattito colpisce soprattutto per la sua banalità: è una fotografia tanto insignificante quanto sintomatica, che si confonde nella moltitudine di immagini a bassa risoluzione, amatoriali, inquadrate male e spesso sfocate che circolano in rete, invadendo i nostri schermi. La posa e la situazione sono dei tropi mediali in cui l’intimità dell’album di famiglia entra in collisione con un immaginario erotico amatoriale.

È un’immagine più vicina al registro dello spam che a quello della propaganda politica o della performance di genere. Parafrasando Hito Steyerel2, si potrebbe affermare che appartiene al “sottoproletariato” della società delle apparenze, è una di quelle immagini che valgono poco, perché trasformano la contemplazione in distrazione, la qualità in accessibilità. Sono fotografie che possono essere caricate, scaricate, condivise, rieditate, e che servono al massimo ad illustrare le colonnine laterali delle pagine web dei quotidiani nazionali. Il fatto che veicolino un immaginario così potentemente sessista è il sintomo di un problema strutturale che riguarda la produzione stessa della differenza sessuale.

La fotografia in questione dunque può difficilmente essere letta come un semplice atto di libertà. L’intenzione che ha animato la decisione di postarla su facebook è senz’altro ironica, ma ironia e libertà non necessariamente coincidono. Allo stesso tempo, il suo carattere osceno (nel senso di fuori-scena) è tutt’altro che scontato. La sua iconografia si nutre di un immaginario erotico, tuttavia il gesto di renderla pubblica nel quadro della campagna elettorale mette in gioco l’ambivalenza tra lo stereotipo e l’ironia in un modo che si rivela un tranello: una trappola in cui sembra essersi incagliata la discussione sulla libertà delle donne.

Forse proprio in quanto sfrutta qualità che sono proprie all’immagine, il gesto di Paola Bacchiddu si è rivelato funzionale ai peggiori luoghi comuni sessisti e antifemministi, come mostra il suo recente intervento sull’Huffington Post. A fronte delle accuse di inattualità e di moralismo, può essere utile interrogare l’ambivalenza tra l’immagine stereotipata e l’appropriazione ironica in quanto costitutiva del nesso tra visualità e produzione del femminile nel neoliberismo, che prevede la libertà soltanto nelle forme della scelta e del totale possesso di sé.

Porre la questione della libertà femminile significa infatti fare i conti con questa ambivalenza e mettere in discussione la contrapposizione tra la rivendicazione dell’autonomia assoluta di ogni gesto e l’idea di un soggetto femminile completamente sovradeterminato dalle logiche che governano la visibilità dei corpi sessuati. È proprio attraverso un superamento di questa contrapposizione e dei suoi effetti paralizzanti che si possono aprire spazi di autonomia dentro ai quali agire la propria libertà.

Se la libertà non è una sostanza che si può possedere o meno, intenderla nei termini di un gesto trasformativo in cui sfidare le condizioni del proprio assoggettamento significa interrogarsi sui modi in cui abitiamo e siamo abitate  dalle immagini. In questo senso, la libertà potrebbe essere pensata nei termini un’interruzione rispetto ad una concatenazione di eventi già previsti che permetta di agire lo spazio che si apre tra soggettività e rappresentazione, tra desiderio e immagine.

 

 

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  1. Grazie a Paola Rudan e a Sconnessioni precarie per avere sollecitato queste riflessioni. 

  2. Hito Steyerel, “In defense of the poor image”, e-flux journal, n. 10, 11/2009 http://www.e-flux.com/journal/in-defense-of-the-poor-image/