RECENSIONE di BENEDETTO VECCHI.*

La proposta è semplice, ma difficile a farsi. Aprire un cantiere marxiano che sgomberi il campo da equivoci e fraintendimenti. Per prima cosa non va quindi costruito sulle macerie rappresentate dal fallimento di una esperienza storica, quella del socialismo reale. Allo stesso tempo, va scongiurato il rischio della nostalgia, riproponendo una delle tante tradizioni marxiste eterodosse che hanno caratterizzato il Novecento. È questa la prima indicazione di metodo che Sandro Mezzadra propone nel saggio Nei cantieri marxiani (manifestolibri, pp. 158. Euro16). Indicazione preziosa, perché ricorda che l’opera marxiana non è un corpus unitario e omogeneo e che la sua ricezione è sempre declinata al plurale.
Per tutto il Novecento, Marx è stato infatti letto, saccheggiato e piegato alla contingenza politica. È stato cioè uno strumento modificato da chi pensava di sviluppare quel movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti. Sia però chiaro che le aporie, le contraddizioni, i vicoli ciechi che tale uso «strumentale» non si superano tornando a una supposta fonte originaria e cristallina. D’altronde, la formazione stessa dell’opera marxiana è stato un cantiere, che ha visto acquisizioni teoriche e rimesse in discussione. Non che Marx fosse un filosofo e un critico dell’economia politica incline a facili ripensamenti. Il suo rigore, però, lo conduceva spesso a ritornare su quanto già acquisito laddove emergevano fragilità e incongruenze.

L’impossibile autenticità
Il progetto a cui Marx ha dedicato gran parte della sua vita è stato infatti più volte specificato e modificato proprio alla luce di quanto emergeva nel suo laboratorio teorico. Fare i conti con Marx è dunque fare i conti con un’opera aperta e con i tanti marxismi novecenteschi. Non è infatti un caso che Sandro Mezzadra affermi che dai marxismi possono essere tratte indicazioni per chi voglia continuare a usare Marx come chiave di lettura del presente, in quella critica dell’economia politica che ha visto nel capitalismo un punto di svolta nella storia umana, ma non la fine della Storia. E che fa dell’anticapitalismo non una consolatoria maschera identitaria, bensì un’indicazione politica per superare il regime del lavoro salariato.
Dunque, non un ritorno a un immacolato inizio, né un’abiura di quanto il Novecento consegna come una pesante eredità, dopo l’implosione del socialismo reale. Anche qui occorre chiarezza. Mezzadra non nasconde la sua «adesione» a una delle tradizioni eretiche del marxismo, l’operaismo italiano. E considera il Sessantotto uno spartiacque nei movimenti sociali e politici che tendono alla liberazione dal regime del lavoro salariato. È quindi poco interessato alle derive autoritarie del movimento comunista internazionale. C’è infatti poco «marxismo sovietico» in queste pagine, anche se emerge la convinzione che anche quella è una tradizione teorica che non può essere liquidata con una scrollata di spalle. Quel che emerge dalle pagine del libro è semmai un’opera di contestualizzazione, che individua con pacatezza punti di forza e limiti delle tante tradizioni marxiste esistenti, invitando quindi a farne tesoro, senza per questo rinunciare a costituire una cassetta degli attrezzi adeguata al presente.
La storia è però una bestia difficile da domare e può diventare materia incandescente. Per evitare di scottarsi serve un’opera di «posizionamento», esplicitando il punto di vista e metterlo a verifica. L’operaismo italiano è quindi il punto di partenza, anche se Mezzadra nutre molti, e condivisibili, dubbi sul fatto che non basti dire che occorra calare Marx a Detroit o in una qualche regione speciale della Cina per dare solidità al suo cantiere marxiano. Ne è sufficiente mettere a verifica Lenin non a Londra, bensì nella Silicon Valley per sbrogliare la matassa. Il lavoro teorico da fare è più complicato, meno lineare di quanto sembri. E non è un caso che in questo libro facciamo la comparsa scuole di pensiero come i cultural studies o i subaltern studies. O anche autori del «marxismo occidentale»; o il Marcuse che negli ultimi anni della sua vita ha rivolto lo sguardo a quelle trasformazioni del processo produttivo e abbia cominciato a dubitare profondamente della convinzione che la classe operaia fosse ormai pienamente integrata nel regime capitalistico.

Banalità del postmoderno
Anche in questo caso è presente un prezioso esercizio del dubbio. Non è che sostituendo Mario Tronti con Gayatri Chakravorty Spivak si riesca a fare molta strada. Nei postcolonial studies sono infatti presenti contraddizioni e limiti sui quali non chiudere gli occhi. E tuttavia presentano elementi importanti per svelare l’arcano della produzione del soggetto. Attenzione: in questo saggio non c’è nessuna concessione alle banalità postmoderne sulla produzione di senso e di soggettività. Il soggetto, e la sua produzione, che emerge in queste pagine ha una sua materialità. E ha a che fare proprio con rapporti sociali di produzione, che non possono essere relegati in una visione che fa discendere meccanicamente la formazione delle identità e delle soggettività politiche dal funzionamento dell’economia o, più sofisticamente, da una qualche catena di montaggio o impresa a rete. Il soggetto a cui tende Mezzadra è immerso in una fitta rete di relazioni sociali, dove il lavoro continua a svolgere una funzione performativa nel loro stare in società, anche quando è marchiato dalla precarietà. O quando è assente. Allo stesso tempo, è un soggetto non neutro. Infatti, l’autore invita a misurare il proprio punto di vista con la differenza sessuale o con la «razza». È dunque un soggetto poliedrico, multiforme. Questo non significa che non siano operanti nella sua produzione «determinazioni» dominanti rispetto ad altre.

L’irriducibile molteplice
Il capitale ha di fronte a sé uomini e donne che oppongono resistenza a una loro costituzione eterodiretta e funzionale ai processi di valorizzazione economica. È questo il limite che i rapporti sociali di produzione dominanti devono sempre forzare. Detto in altri termini, per il capitale il molteplice deve essere rimosso, ridotto a standard e, allo stesso tempo, valorizzato proprio come molteplice, deve cioè agire come una marxiana «astrazione reale». Significativo è a questo proposito l’uso della nozione di lavoro vivo, in quanto categoria propedeutica, sia da punto di vista del capitale che dei suoi antagonisti, al funzionamento della macchina produttiva della soggettività.
Il cantiere marxiano proposto da Mezzadra ha queste fondamenta. Come svilupparlo non può essere compito di un solo autore. Sandro Mezzadra rilegge l’opera marxiana mettendo in evidenza i fertili smottamenti teorici presenti in tutti gli scritti di Marx, da quelli giovanili a quelli della «maturità». Il concetto di lavoro produttivo, la teoria del valore, la tendenza del capitale a costituire un mercato mondiale vengono così riletti alla opaca luce del presente (una vera chicca è il capitolo dal titolo «Marx ad Algeri», dove viene ricordata la permanenza di Marx nella città algerina per introdurre il tema del mercato mondiale e del soggetto della trasformazione). In questo ripercorrere l’opera marxiana, Mezzadra usa creativamente Michel Foucault e autori poco frequentati in Italia (Stuart Hall è sempre sullo sfondo), il marxismo inquieto atlantico (David Harvey e Göran Therborn) e quello altrettanto eterodosso di Toni Negri, Michael Hardt, Paolo Virno, Maurizio Ricciardi e Adelino Zanini. Senza che però il volume risulti appesantito da questi, tanti e eterogenei riferimenti. Quel che è certo è che la lettura di questi «cantieri marxiani» costituisce una scommessa teorica e dunque politica da raccogliere. Senza appunto nostalgia per i bei tempi andati, né abiure di quei tempi andati. Ma come una entusiasmante avventura teorica e dunque politica che vale la pena vivere. In fondo, non c’è niente altro da perdere che le catene del presente sfruttamento.

* Da IL MANIFESTO del 27 Giugno 2014

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