di FANT PRECARIO.

1 – Premessa:

Genova sotto il fango non è una novità.
Fango materiale come nelle alluvioni, fango morale come nelle parole di Baget Bozzo, dell’indimenticato D’Alessandro (utopistico sindaco craxiano di Portofino che faceva fremere il Secolo XIX), del caritatevole Rinaldo Magnani. Ricordate! Genova non è la medaglia d’oro della Resistenza, è la patria adottiva del questore → Molinari e del Colonnello → Riccio.
Tornando al fango della scorsa settimana, la novità risiede tutta nella risonanza che i media hanno dato all’evento. Meglio nell’utilizzo strumentale e allo stesso tempo emblematico dei dati che nello spiegarsi dei giorni pervenivano dalla Superba.
Ed è su questo che si accentrerà l’indagine, non certo sui danni, i morti, la devastazione e il saccheggio (questa volta veri, non come ai tempi del G8, avete fatto caso che dal 2001 devastazione e saccheggio vanno sempre pronunciati insieme come lennonmacartney o delezguattarì), elementi comuni per ogni società retta da un sistema becerocapitalista (effettivamente supercazzola con scapellamento a ente pubblico).

2 – Premessa:

Genova non esiste, è miraggio, nebbiolina fradicia e unticcia, del centro storico più grande e macaioso del mondo (come ai tempi di Stendhal, per non parlare di Montesquieu «mare senza pesci, donne senza bellezza, ecc. ecc…»).
Solo case sfatte, dimostrative più che della passata (ove mai esistita) grandezza ( quattro villazzi di bottegai arricchiti dall’usura in Via Garibaldi, alla faccia di quanto ha detto a bordo di scooter e con tanto di casco peppegrillo) delle condizioni di estremo disagio in cui vive(va) il “popolo” negli anni precedenti la rivoluzione industriale (altezza degli appartamenti di poco più di un metro, muri sghembi, sfruttamento del suolo tanto intensivo che i piani quinquennali di Kruscev sono ridicoli, ma lo sapete che a Genova il governo – 500 anni prima della CEE – regolava la quantità di polvere di marmo da mettere nell’impasto del pane per rendere l’aspetto della poltiglia informe un po’ meno ributtante, anticipazione precapitalistica, ma pur sempre finanziaria, del vino al metanolo).
E poi palazzoni sulle colline dai nomi suggestivi “CIGE”, “LAVATRICI”, BISCIONE”, attraverso il quali la socialdemocrazia (?) DCPCI espresse al meglio il proprio orrido paternalismo dando al popolo case popolari (per l’appunto), onde rimarcare che la casa, magari, te la do anche, ma non devi mai dimenticare, neppure per un attimo, di essere un pezzente.
Genova trafitta dalla puzza di orinatoio e dagli escrementi di cane; dove anche gli amministratori delle fondazioni bancarie sono eletti dal Vescovo, dove gli ospedali sono della curia. Genova per nessuno, quindi, lontana da quelle (odiose e scivolosissime) creuze che solo De Andrè (o forse anche peppegrillo) poteva amare (vacci tu nella casa/cascina con i sacchetti della Coop per 3 chilometri di mulattiera viscida e corrosa, che le Valli Bergamasche sono la parabolica di Monza).

3 – Premessa:

Genova, ovvero della finanza, quella puzzona degli Ansaldo, delle banche private, della (poi) Banca d’Italia. Della segregazione del pensiero all’interno degli scagni, ove si svisa dai manezzi pe majå na figgia a quelli per blandire Re e Padroni sino agli emigrati coattivi in Dubai.
Qui il capitalismo finanziario si è dato prima che altrove, per l’estinzione dello stato e delle sue “partecipazioni” e per la necessità di valorizzare il mattone oltre la “misura” rendendo la vita legata alla proprietà fondiaria (anche minima) e rattrappita nel tugurio del marocchino (o nei mille del marchese imprenditore).

4 – I tiggì:

a – ode alla bottega:
La grandezza assoluta di TG SKY è nalla rilevanza data nei propri servizi ai “commercianti”.
L’ode al bottegaio si eleva sinuosa e potente, apodittica e non per questo meno oltraggiosamente violenta.
Invero, si piange la bottega sommersa più che l’imprenditore.
Le cose danneggiate e portate all’ammasso in piazzale Kennedy (magari fossero stati i Black Block) assumono evidenze umane; la proprietà diventa sentimento buttato lì alla Baglioni, si piange – novelli Fazio – sulla credenza rotta, sul triciclo leso, come fossero Alpini sull’Adamello, abbandonati allo sfascio da un diabolico quanto poco credibile Cadorna metafisico, che si materializza nel bieco Comune “arancione”.
Non una parola sul territorio martoriato da 60 anni di edificazione insensata, da una legislazione – anche statale – che premiava (e premia) la speculazione più atroce, maggiormente laddove la penuria di spazio – a meno di non costruire quartieri di Genova ad Ovada, come ci insegnò il cavaliere con Milano 2 – ha imposto di sopraelevare, barattare cubature, realizzare posti auto anche dove era impensabile.
Non una parola sulle infinite code che rendono la circolazione da pontex (in “minuscolo” perché ci stanno i poveri) a Nervi (in “maiuscolo” perché ci stanno i ricchi) un serpente dolente e lentissimo di ex operai, figli di operai, nipoti di operai, soprattutto vedove di operai che trascinano la loro esistenza su auto-immobili da una Coop all’altra su strade improbabili.
Non una parola sulle soluzioni prospettate al problema, altre strade, altre auto, altri sbancamenti… altro denaro pubblico elargito a privati cialtroni e bancasostenuti.
Non una parola su chi è in cassa integrazione dal 1980, sui prepensionati, sui licenziati che a cinquant’anni possono solo andare a riparare brunzini in nero (e poi allora dalli al lavoratore in nero che ruba i sussidi), su chi è costretto a fare il bottegaio perché non ci sono concorsi, perché nessuno assume, perché un subappalto non lo si nega a nessuno.
Solo pianti per la socializzazione della sfiga, il rattrappimento dell’ingegno dell’operaio professionale attraverso la costituzione di srl “a un euro”.
Il commercio, (mi)memore dei tempi di Smirne e Giaffa, elevato a criterio di stima dell’operatore in sé e disistima dell’essere umano che pur incredibilmente pulsa ancora in quei poveracci costretti a stare tutto il giorno in un magazzino sotto il livello del mare (e soprattutto sotto il livello di una vita decente) a dire, sono tre etti e trenta grammi, lascio?
La potenza commerciale dedotta a paradossale sopravvalutazione di una vita misera ma “onesta”, unica consolazione che il capitale genovese 3.0 (ma anche quelli 1.0. e 2.0 non erano diversi) lascia a coloro che non sono figli (a) di un riccastro; (b) di un assessore.
La scalata sociale a Genova avviene attraverso la genuflessione al clero e/o al politico di turno, diversamente puoi prenderti la licenza di commercio e morire d’inedia, di alluvione, di fame… qui la scelta è effettivamente amplissima.

b – Le vedevi,
torme transumanti di giornalisti arrancare con le scarpe infangate (circostanza da darsi per ovvia nei pressi di un’alluvione e invece contrabbandata come passaporto verso il Pulitzer) tra scantinati martoriati con padroncini sconfitti e morosi ab origine.
Saltellavano tra una vita distrutta e l’altra come partigiani della verità, cronisti di guerra tra le macerie di Stalingrado, che schivano il buon senso (e talvolta l’italiano) anziché le pallottole del Reich.
Da poche parole carpite, deviate, sminuite o accentuante per fornire il risultato desiderato, emerge il “nuovo movimento operaio”, moltitudine di vite consacrate alla valorizzazione di un’esistenza reietta come nuovo cardine del capitale.
La tuta blu si è dissolta nel bianco di un grembiule, la lotta di classe ridotta a doglianza per il mancato riconoscimento del nulla (produttivo, purtroppo) di una cittadinanza che ogni qualche anno si trova a tirare la leva della slot machine che chiamano elezioni (e allora fioccano i riconoscimenti, le lapidi ai partigiani, le strette di mano, le promesse di tutto…).
Le singolarità gementi e piangenti sono veramente meticce, odiano lo stato, la gabella contrabbandata per necessità di salvare lo stato sociale, il lavoro inutile (semmai il lavoro è stato utile?).

Genova_alluvione_1970c – peppegrillo a Borgo Incrociati:
Bellissima l’uscita di Gad lottacontinua Lerner che evocando Antonio (…e Doria è uomo d’onore ) ne afferma la fama di nicchiapopoli e la lentezza nello scardinare il processo amministrativo per fare eseguire lavori dei quali, peraltro, nessuno sa e nessuno parla.
Supremo l’assist a renziflaccido quanto all’abrogazione della sospensiva.
Dal divino della lotta-continua Seventies a un principe della lotta (a parole) contemporaneo.
Probabilmente reso effervescente da anni alla corte di pippobaudo (mica quei cretini dell’FLM ai cancelli di Mirafiori) promette di sconfiggere la peste rossa.
A parte che a Genova di rosso ci sono solo le ganasce dei (pochi) bimbi quando fa freddo, la solita broda di offese ai communisti (e qui il prode riccioluto è in ottima compagnia, renziflaccido e silviocoitacchi ringraziano) appare stavolta priva di alcun senso e costrutto, salvo quanto meglio sub 4).
Il problema peppe è che la peste rossa è come Pinocchio e tu sei il grillo parlante.
Nell’attesa che tu sia calpestato dagli stessi che ora ti acclamano (è capitato a Benito, e almeno lui aveva fatto le magistrali) ti rammento che la peste rossa ha sconfitto nel giro di circa 60 anni i prefetti dei Savoia, i fascisti sui monti e in città, Tambroni e le sue cosche con la croce sul fucile… fatti un giro per Sampierdarena, Bolzaneto, Rivarolo, leggi i nomi sulle marmette delle vie, imparali a memoria, poi prendi una pietra e come la cavalleria di Annibale affogati nel Polcevera in piena.

5 – La giustizia amministrativa:

Quando si parla di appalti pubblici il gioco si fa duro, cosicché – come precisava Red-Gad e di cui sopra – un sindaco lento nell’erogazione di denaro pubblico è da sopprimere (quando un sindaco senza appalti incontra un imprenditore con appalti è un sindaco morto).
La questione ce l’hanno venduta così:
(i) c’era il grano e tanto (renziflaccido ha massima disponibilità di cash, che poi siano denari della CCDDPP, ovvero destinati alle scuole ovvero alla sanità, poco importa the show must go on diceva il surricordato questore Molinari),
(ii) le gare svolte con tempismo e regolarità (ah, ah),
(iii) i lavori ai blocchi di partenza… poi
(iv) qualche partecipante scontento (la rovina per mancanza di lavoro, magari conseguente ad un’aggiudicazione scorretta è degradata a lagnanza di zingaro elemosinante, e qui affiora la prima grande verità: nulla è, neppure l’impresa pure must dell’odierna costituzione materiale, se non funge da leva, effetto moltiplicatore di denaro che non esiste; no appalto no party) ricorre alla giustizia amministrativa (non è che sia una scelta, è questione di giurisdizione) e allora
(v) i giudici sono costretti ad esaminare “le carte”. Magari la contestazione ha un fumus (il più delle volte c’è anche l’arrosto) e allora l’aggiudicazione è sospesa, e comunque i lavori non partono.

Di chi è la colpa? Della sospensiva! – Così i professionisti dell’impresa-politica arringano i diseredati.
La sospensiva in diritto amministrativo è il nuovo nemico di classe, come l’art. 18 (neppure si cita più de che) nell’ormai obsoleto diritto del lavoro.
Il nobile fine dell’istituto (evitare il pregiudizio del ricorrente per il tempo necessario a pervenire alla decisione nel merito) è declassato a collo di bottiglia del prodigioso spiegarsi dell’appalto pubblico: denaro a fiumi per imprese il più delle volte con ridicolo capitale sociale, senza dipendenti, senza attrezzatura (queste sono pronte a fornirle i subappaltatori, categoria meritoria e cui si delegano le bancarotte e le morosità) ma innestate sul corpo vivo del denaro pubblico.
Cani latranti e bavosi si aggirano intorno al cadavere dello stato (più o meno sociale) per spartirsi i marci resti che poi sono le nostre vite.
La soppressione della sospensiva è parola d’ordine tra le prime rintracciabili nel libretto rosso (di vergogna?) di renziflaccido, come la soppressione della responsabilità dell’appaltatore verso il committente in caso di subappalto.
Il cerchio è chiuso: gli appalti (novelli giucascasella, ed è il maestro Baudo che torna alla ribalta) verranno affidati solo quando e a chi lo dico io, senza neppure più appiglio alla tutela giudiziaria. Poi tramite trafile di subappalti il denaro resterà a chi lo dico io mentre il subappaltatore, sia addentro sia estraneo al turbillon, sarà libero di (meglio, costretto a) fare montagne di debiti che non intaccheranno il capitale (inesistente)  dell’appaltatore.
Si lascia all’INPS ripagare (poco e male) i dipendenti, alle banche l’affidamento sforato e impagato, alla collettività (così la chiamano quelli che hanno studiato) i costi dei lavori mai ultimati.

Alla città un mare di fango.

Conclusivamente, con il denaro dei risparmiatori (CCDDPP) si fanno partire gli appalti che poi non portano a nulla, il denaro sparisce e i debiti sono ripianati (ma così per dire) dal denaro dei risparmiatori.

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Cosa resta di Genova dopo l’alluvione? Nulla. Sarebbe bello chiedersi cosa c’era prima.

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