di ALBERTO DE NICOLA, BIAGIO QUATTROCCHI, CRISTIAN SICA.

 

Crisi dopo crisi è stata completamente trasformata la struttura normativa e istituzionale che regola il mercato del lavoro; confermando, se ce ne fosse ancora bisogno, che soprattutto nelle fasi di ristrutturazione capitalistica, il potere normativo agisce talvolta in funzione anticipatrice rispetto ai cambiamenti materiali. Se facciamo data dal ’93 fino ad arrivare all’oggi, senza ovviamente trascurare le  fasi interne al lungo ciclo neoliberale in Italia e in Europa, sembra essere giunti in una nuova fase del comando sulla forza lavoro. E’ soprattutto agli aspetti regolativi e istituzionali, prima ancora che alla sostanza di quelli materiali, che intendiamo soffermarci. E se stiamo a questo livello dell’indagine, una nuova tendenza sembra segnare le coordinate di uno standard nella governance della forza lavoro in Europa. In Italia, il governo Renzi accompagna le riforme sul mercato del lavoro, dal Jobs Act agli interventi che riguardano in modo particolare il welfare, facendo ampiamente uso della retorica consumata della fine delle tutele fordiste. Poi aggiunge: se il sindacato tradizionale non vuole svolgere una funzione conservatrice, deve riconoscere la conclusione di quella storia. Noi sappiamo, certamente non da adesso, che la posta in gioco è un’altra; a finire, più che l’era antica del ruolo del sindacato fordista (che è finita oramai da un pezzo!), è quella sorta di «compromesso post-fordista», che aveva attribuito alle organizzazioni sindacali tradizionali, anche per loro volere, una specifica funzione all’interno della governance neoliberale del lavoro.

Questa fase, che a partire dagli anni Novanta ha inaugurato il «compromesso post-fordista», si è strutturata, sul piano regolativo e su quello parallelo della costruzione del discorso dominante, su due pilastri fondamentali. Da un lato, l’apertura della cosiddetta  «concertazione sindacale», con l’accordo di luglio del ’93; dall’altra parte, l’uso crescente della retorica del «dualismo» del mercato del lavoro, che ha contrapposto antagonisticamente gli insider contro gli outsider. Quello che oramai conosciamo ampiamente è che il sindacato tradizionale, ancora nel pieno della crisi economica europea del ’92 (particolarmente sentita in Italia), aveva accettato esplicitamente di aprire una fase di moderazione salariale, favorendo un cambiamento radicale della forma di governo delle relazioni industriali; registrando e “cristallizzando” proprio quella compressione della capacità negoziale del lavoro che originava da trasformazioni di più lungo periodo. Si trattava, dal loro punto di vista, di abbandonare definitivamente la via conflittuale per ottenere una nuova legittimità nella funzione di governo dell’economia. Qualcuno dei loro dirigenti aveva creduto persino in questo modo di poter co-determinare le scelte di politica economica a livello nazionale. Senza mai neppure accorgersene fino in fondo, che quello a cui stavano attivamente partecipando era in sostanza il passaggio di mano alla forma specifica della governance europea, che coincideva proprio in quegli anni con la costruzione del governo monetario dell’Europa. La costruzione di questo nuovo registro della regolazione contrattuale, comprendeva al suo interno l’illusione di queste organizzazioni di poter controllare anche la crescita del peso relativo della forza lavoro che loro amavano etichettare come “atipica”. In realtà è sempre stato evidente che il ricorso alle teorie del «dualismo»  avrebbe dovuto svolgere la funzione politica di livellare verso il basso i livelli salariali, le tutele giuridiche, indebolendo soprattutto la capacità organizzativa del lavoro.

E’ questa intera intelaiatura della governance post-fordista ad essere entrata definitivamente in crisi. Adesso è il governo a dire, con l’arroganza del suo Presidente del Consiglio, che il tempo della concertazione è finito e con esso gli spazi della contrattazione sociale. Sono le organizzazioni sindacali tradizionali (e soprattutto la Cgil) a non saper più riconoscere neppure l’evidente fallimento di una lunga stagione durata venti anni. Dall’altro lato, sul piano europeo, anche la retorica del «dualismo» sembra consumarsi. Essa ha svolto il ruolo che doveva svolgere e ossia quello di contribuire a generalizzare la precarietà. L’Employment Outlook dell’Ocse del 2014 sembra fare da termometro del nuovo standard delle politiche del lavoro a livello internazionale, quando invita esplicitamente i governi a fare ricorso ai “contratti unici”, svuotati oramai di ogni tutela, allo scopo di unificare sotto il loro comando il pluri-verso del lavoro precario.  Sia chiaro uno standard non è una “regola aurea”. Questa nuova tendenza mostra già da subito i segnali di una differenziazione interna allo spazio europeo, assecondando le ragioni della nuova geografia dell’accumulazione capitalistica che lentamente vanno costituendosi dentro e fuori l’Europa.

E’ nel vivo di questo cambiamento della forma di regolazione del mercato del lavoro, appena abbozzato, che nasce l’intuizione del social strike. La sfida, certamente difficile, è quella di provare a piegare a nostro favore lo spazio aperto da questa crisi.

Dall’orgoglio precario allo sciopero sociale

Il movimento degli “invisibili” negli anni 90’ e il decennio caratterizzato dal May Day Process hanno contribuito in maniera fondamentale a presentare la condizione precaria come dato generalizzato, strutturale ed esistenziale. Tuttavia, questa irruzione si è confrontata con una struttura del mercato del lavoro che si andava effettivamente «dualizzando». Il problema per i movimenti, è stato in questo periodo quello di far emergere dall’invisibilità questa parte di forza lavoro confinata nello stretto perimetro dell’eccezionalità, decostruendo le retoriche che presentavano la precarietà come niente più che un interregno temporaneo. Del resto, come abbiamo già detto, la precarizzazione ai margini del mercato del lavoro, è stata la base dello scambio politico del «compromesso post-fordista» e la matrice dello scontro dei nuovi movimenti nei confronti dei sindacati confederali. Il ciclo di lotte dei movimenti contro la precarietà nel primo decennio degli anni Duemila si è dunque caratterizzato come “espressione di orgoglio della soggettività precaria” per citare Guy Standing.

Le molteplici narrazioni soggettive, conseguenza diretta delle dinamiche di frammentazione e individualizzazione dei rapporti di lavoro, hanno trovato un terreno comune in cui sperimentare pratiche di riconoscimento, cooperazione e innovativi esperimenti di autorappresentazione. Questo patrimonio è divenuto una “cassetta degli attrezzi” utile nell’era della precarietà diffusa. Negli ultimi anni però la crisi ha accelerato i processi di precarizzazione, impoverendo strati sempre più ampi di popolazione, producendo un livellamento verso il basso dei diritti ed una compressione della crescita salariale anche per i cosiddetti “lavoratori garantiti”, vittime di licenziamenti collettivi, crisi industriali e delocalizzazioni produttive. I confini mobili della precarietà, della disoccupazione e della povertà coinvolgono in maniera diversificata tutti, assottigliando distanze, rendendo sotto-occupazione, sotto-salari, working poor, lavoro volontario e servile le caratteristiche generali del mercato del lavoro contemporaneo. Questi fenomeni si riscontrano nel lavoro dipendente, parasubordinato, autonomo oltre che nell’enorme bacino (in crescita) del lavoro sommerso e informale, utilizzato come camera di compensazione funzionale alle difficoltà della miriade di piccole e medie aziende.

L’esaurimento del sistema di regolazione fondato sul dualismo, però, non significa affatto una omogeneizzazione della forza lavoro. Questa ricomposizione del comando sulla forza lavoro si dà al prezzo di una radicale moltiplicazione delle forme di sfruttamento. Questa tendenza sfugge al contempo alla presa delle tipologie e delle categorie del lavoro rappresentate dalle centrali sindacali. In questo senso, il processo dello Sciopero Sociale propone di procedere attraverso la forma della «coalizione» assumendo, come irrimediabile, l’impossibilità di ricomporre la frammentazione del lavoro a partire da una categoria centrale. Ciò che descrive la maggiore distanza tra la proposta del Social Strike rispetto alle iniziative sindacali classiche è, più che una semplice distanza politica, il fatto di riferirsi alla molteplicità del lavoro contemporaneo, socialmente e politicamente irriducibile a qualsiasi rappresentazione unitaria. Nonostante sia stata una mossa per distruggere le conquiste dei decenni passati, l’idea che il «Lavoro» non potesse che descriversi al plurale, è stata una consapevolezza molto più della destra che della sinistra. La proposta di «Statuto dei Lavori» dell’allora Ministro Sacconi, ne è una dimostrazione.

In questo senso, a partire dallo Strike Meeting di settembre,  la necessità è stata quella di dare vita ad uno “spazio pubblico espansivo”, non appropriabile da nessuna soggettività particolare, nel quale sperimentare inedite forme di coalizione tra studenti, precari, precarizzati, disoccupati, cassintegrati e lavoratori autonomi. La veloce ed inaspettata diffusione dei laboratori dello sciopero sociale in decine di aree metropolitane e provinciali sono il segnale della presa di questa modalità.

Lo sciopero sociale come limite dell’organizzazione di movimento

La proposta di uno sciopero sociale è, in un certo senso, una proposta paradossale. Paradossale per la sua evidente e implicita impossibilità: le soggettività e le forme di lavoro che si punta a mobilitare sono per una buona parte irriducibili alle forme dello sciopero. Inoltre, esse sono sostanzialmente fuori dalle forme organizzative dei movimenti. Nonostante la cooperazione di alcuni settori del sindacalismo di base e di alcune esperienze innovative come quelle della logistica, una parte consistente della forza lavoro rimane di fatto impossibilitata a praticare l’astensione dal lavoro. Tuttavia, la proposta di una giornata di lotta di questo tipo ha il valore di iniziare un lavoro di organizzazione di nuovo tipo, con la diffusione di nuove strutture, mettendo in primo piano i limiti che hanno minato, e minano ancora oggi, la possibilità di pensare nuove forme di organizzazione sindacale, ovvero di consolidare una base di potere negoziale per una nuova composizione sociale.

Abbiamo l’impressione di doverci confrontare con una dinamica nella quale ciò che viene chiamato lavoro informale, ovvero l’impiego coatto, invisibile, non regolamentato e spesso non remunerato, è diventato il modello di quello formale. Più che esserne l’ombra, o l’eccezione, il lavoro informale è divenuto oggi la tendenza tacita di tutto il lavoro. Questa tendenza rende l’organizzazione sindacale tradizionale del tutto incapace di stabilire rapporti di forza efficaci. Il problema è innanzitutto quello di far emergere la crescente invisibilità dell’attività lavorativa o di una buona parte delle sue componenti. L’elaborazione di un «tariffario» delle prestazioni di lavoro non riconosciute elaborato in questi giorni, così come la raccolta di esperienze di controcondotte non convezionali, sono esempi di questo lavoro di definizione in corso.

Quella giornata, oltre alle forme classiche dell’astensione dal lavoro, dovrà mettere insieme le intelligenze dei precari, i saperi, le intuizioni, le forme di sottrazione e di sabotaggio per colpire le aziende. Il 14 novembre si daranno pratiche di sciopero molecolari e diversificate nell’arco di 24 ore, articolate con picchetti, manifestazioni, blocco dei flussi produttivi, azioni di comunicazione sociale. Lo sciopero sociale dovrà costruire legame e cooperazione tra precarizzati uniti dalla comune condizione di precarietà e separati nelle tantissime imprese dai livelli contrattuali e salariali differenti.

Inoltre, lo diciamo senza per questo voler assumere toni eccessivamente enfatici, ma la costruzione collettiva di un media sociale attraverso la valorizzazione delle intelligenze dei precari sembra avere tutte le condizioni, e in parte già lo sta facendo, per produrre forme di sindacalizzazione sociale diffusa. L’espressione del “punto di vista dei precari e dei precarizzati” attraverso le narrazioni biografiche, le declaration come analisi comuni di individuazione dei punti di attacco, il riconoscimento di pratiche aperte, riproducibili e sincronizzate attraverso l’“uso precario dello sciopero” sono le caratteristiche fondamentali del processo di attivazione. Le sperimentazioni bio-sindacali degli ultimi anni hanno portato ad un livello di consapevolezza oltre i terreni già percorsi della esclusive vertenze individuali. Gli strikers si autorappresentano, sviluppano complicità, inventano pratiche riproducibili per rompere il ricatto in cui sono costretti quotidianamente.

È possibile pensare che questa dinamica possa estendersi oltre i confini nazionali. L’aumentato grado di interdipendenza dei mercati del lavoro nello spazio continentale e il consolidamento del comando finanziario, mettono in luce l’insufficienza di ipotesi organizzative confinate all’interno del perimetro dello Stato nazione. Questa necessità sembra oggi essere una consapevolezza condivisa dai movimenti europei. Non è un caso che, a partire dalla proposta italiana, altri gruppi in Francia, Inghilterra, Portogallo, Grecia, Germania, ecc. abbiano avviato percorsi su questi stessi temi. Dopo anni di trasformazione delle politiche contro la disoccupazione e per l’attivazione, vediamo nascere in diversi paesi europei campagne in opposizione ai dispositivi del workfare, nonché esperimenti embrionali di organizzazione della forza lavoro migrante interna all’Ue. Che ciò non abbia nel breve tempo la possibilità di tradursi in un’iniziativa di lotta efficace al livello transnazionale, non vuol dire che questi prototipi non comincino a presentare tematiche trasversali e linguaggi comuni. Questo nuovo terreno di accumulazione organizzativa può costituire una base interessante per ripensare la natura degli spazi di movimento in Europa proprio nel momento in cui le vecchie reti stanno attraversando un periodo di crisi.

Reddito di base e salario minimo europeo

In questi giorni, la costruzione di un «programma» di lotta ha assunto, dopo un certo periodo di assenza negli spazi di movimento, un incredibile livello di diffusione e definizione. Centrale, in questo senso, è stato il problema di cosa sia diventato oggi un salario. Questo dibattito avviene nel momento in cui, in altre parti d’Europa e non solo, la lotta per l’aumento dei minimi salariali sta diventando uno dei tratti più trasversali delle esperienze di nuovo sindacalismo. La destrutturazione della forma-salario, la dispersione delle sue componenti, nonché il fatto che la sua determinazione quantitativa sia diventata sempre più dipendente da condizioni esterne al luogo di lavoro e relative alla mobilità dei soggetti nel mercato, comporta la necessità di pensare che la relazione tra minimi salariali e reddito incondizionato, sia oggi l’unica base su cui ridefinire un rapporto di potere efficace con la controparte. Al posto della vecchia alternativa, le rivendicazioni sul salario e quelle per il reddito possono stabilire una nuova alleanza. Questa alleanza è rafforzata oggi dalla tendenza allo sfondamento dei limiti che fino ad ora si erano pensati come insuperabili per una qualsiasi retribuzione, ovvero che essa avrebbe dovuto provvedere almeno ai livelli minimi della sussistenza e della riproduzione della forza lavoro. Ma non solo. Essa ci spinge anche a pensare alle forme organizzative ritenute marginali nella storia del movimento operaio, come quelle di natura mutualistica e territoriale, le esperienze di autogestione dei servizi, come una base di connessione fondamentale. Non è un caso che la proliferazione territoriale dei laboratori per lo sciopero sociale, si sia spesso appoggiata su strutture di questo tipo. Il problema è che fino ad ora, queste forme organizzative che hanno nel tempo puntato alla rottura della solitudine e alla produzione di nuova socialità, in alcuni casi all’autorganizzazione della riproduzione sociale, non si sono pensate come embrionali «camere del lavoro metropolitano». Le potenzialità di questo processo organizzativo sono per il futuro in buona misura legate alla necessità di questa re-invenzione. Dopo il 14 novembre, i laboratori dovranno discutere se darsi una forma di relazione continuativa. Potremo solo in quel caso, parlare dell’avvio di una nuova fase di sperimentazione politica.

Per adesso non manca altro che augurare buon Sciopero Sociale a tutt*!

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