di JUDITH REVEL.*

 

Alcuni dicono che un evento sia quella cosa che, compiendosi, eccede paradossalmente le determinazioni storiche da cui è prodotto. Se questo è vero, oggi la Francia si trova davanti a un evento vero e proprio. Una serie di fatti (le stragi del 7 e del 9 gennaio), riconducibili a una radicalizzazione estrema dell’Islam che, seppur assolutamente minoritaria rispetto a quel pezzo importante del paese che rappresentano i cinque milioni di Francesi musulmani, chiede urgentemente di essere analizzata. Ma anche e soprattutto una manifestazione di quattro milioni di Francesi che nessuno si aspettava – né quantitativamente né qualitativamente. La questione aperta è ovviamente quella della consistenza di tale soggetto politico, ammesso che ne sia uno.

Incommensurabilità dell’evento, si diceva. Oggi, si aprono vari scenari per la gestione di un’eccedenza che va in qualche modo tradotta in termini direttamente politici, qualora non fosse immediatamente riassorbita. In questi giorni, ciò che tutti si sono accordati a voler respingere è stato, non a caso, la recupération (la strumentalizzazione); e l’immagine strana del “G50” improvvisato e comicamente schierato a mo’ di manifestazione dei potenti  -gioia dell’ossimoro… -, ha concretamente incarnato quella realtà. Sarkozy, sgomitando per essere in prima fila, Netanyahu, non invitato e auto-impostosi al centro con tanto di scorta armata, e tanti altri personaggi osceni la cui lista è ampiamente girata in rete, ne sono stati il simbolo tremendo.

Ma traduzione politica non significa necessariamente récupération.

Tre sembrano per il momento essere a questo punto gli scenarii che si aprono. Il primo, il più tragico – specialmente prediletto sia dai pessimisti di mestiere che dagli amanti del “peggio è, meglio è” – consiste nel ricordare banalmente che alle ultime elezioni europee il Front National di Marine Le Pen sfiorava il 25% (in alcune regioni, come nel sud-est o nell’est del paese, addirittura il 40%), e che dopo le giornate che abbiamo appena vissuto, è molto probabile un’impennata elettorale dell’estremismo di destra. La Le Pen approfitterà per estendere il suo fondo di commercio (l’impossibilità per l’Islam di integrarsi nella democrazia, la pericolosità dell’immigrazione in generale, il ritorno alla difesa dell’identità e dell’integrità territoriale nazionali, ecc.) ad una nuova tematica, che in realtà aveva già provato a cavalcare, ma che la sua alleanza recente con l’estrema destra 26084_photocattolica sull’affare del “matrimonio per tutti” aveva sospeso: la rivendicazione di una laicità definita come cancellazione totale del religioso nello spazio politico e sociale. E ovviamente, più di ogni altra religione, la cancellazione dell’Islam. Statisticamente, lo scenario non ha niente d’inverosimile: in Germania, la banalizzazione del razzismo anti-musulmano di cui si nutre un movimento come Pegida contribuisce a rendere più sottile la differenza tra islamofobia pure e semplice e difesa del diritto assoluto a produrre satira e critica politica di qualunque istituzione, anche religiosa. Si ritrovano quindi a manifestare in nome di una laicità resa strumento razzista e nazionalista persone che niente dovrebbe accomunare.

In Francia, questo poteva – e può ancora – avvenire. Ma la prima sorpresa che l’11 gennaio ci ha fatto è che non è successo. Le voci le più “laicarde”, come dicono i Francesi, sono state letteralmente annegate dal fiume in piena delle voci che invece chiedevano “fraternité” e convivenza. Si va definendo un’altra laicità possibile – e un’altra Repubblica possibile -, quella della compresenza e della solidarietà delle differenze, della loro valorizzazione, della loro pari dignità. Una fraternité delle differenze in quanto tali.

Certo, non si tratta solo del Front National – e qui, arriviamo al secondo scenario. Il problema del riferimento ambiguo alla laicità attraversa tanto più la destra sarkoziana e la sinistra socialista quanto più l’una e l’altra sono in questo momento elettoralmente deboli. Sarkozy ha già iniziato la rincorsa verso destra, mettendo sul piatto uno “scontro di civiltà” e una difesa dell’Occidente pensati per spalancare la porta all’elettorato di estrema destra. A sinistra, la piega liberale dell’attuale governo e a maggior ragione la sua disastrosa politica estera potevano far temere il peggio – eppure Manuel Valls, di cui tutti aspettavano una reazione da “sceriffo”, ha per il momento respinto la possibilità di un Patriot Act alla francese. Quello che chiaramente emerge è che su quel terreno si determinerà nei prossimi due anni una lotta interna al partito socialista. Esistono persone – ce lo eravamo scordati – che, talune per cinismo, altre per convinzione, hanno perfettamente capito quanto una trasformazione dell’indignazione di tutti in una politica per tutti, in un nuovo progetto sociale, potrebbe costituire per il governo Hollande una seconda chance.

Arriviamo al terzo scenario. Quattro milioni? Veramente uno solo ci basterebbe per chiedere l’apertura di un nuovo progetto di costituzione politica all’altezza dell’11 gennaio.  Una costituzione del comune inteso come comune delle differenze, nella quale la fraternité fosse condizione di possibilità dell’uguaglianza e della libertà. Domenica scorsa, è quello che nelle piazze di Francia tendeva i corpi e brulicava nei cervelli: tante persone che volevano stare insieme. Se si riuscisse a tradurre quella voglia nei termini di una politica nuova, allora sì, Charlie potrebbe realmente diventare un nome comune.

E’ chiaro che, in questo scenario, le banlieues, da problema, devono imperativamente diventare parte della soluzione. Se non decidiamo di reinvestire tutti gli spazi (urbani e sociali) che sono stati abbandonati dallo smantellamento del Welfare, vale a dire immediatamente consegnati all’estremismo (politico, nel caso del Front National, ormai depositario del voto delle “vite minuscole”, quello del lumpenproletariato bianco cittadino come quello degli abitanti delle zone rurali disastrate dalla crisi; ma anche religioso, nel caso delle banlieues naufragate a forte popolazione musulmana, laddove la disoccupazione è esplosa e lo Stato si è letteralmente ritirato), avremo Marine Le Pen al 45% alle prossime elezioni.

Se invece trasformiamo l’11 gennaio e facciamo dell’indignazione – aggiungendovi la parola d’ordine politica della fraternité – un motore delle lotte; se, su scala europea, rivendichiamo come elemento della cittadinanza incondizionata e, contro il ritorno delle frontiere, delle identità e delle culture nazionali, il comune come composizione delle differenze; se esigiamo infine tutto ciò che deve costituire un vero e proprio Welfare del comune, cioè la garanzia per ognuno di una vita socialmente e politicamente qualificata, la dignità, il diritto alla felicità – allora, forse, una banda di anarchici, erotomani, miscredenti, surrealisti, blasfematori – come, da Rabelais in poi la cultura francese ha saputo avere nella sua tradizione -, non sarà morta invano.

Qualcuno dirà: quei quattro milioni esprimono il ceto medio francese, la sua whiteness, la sua normalità sociale. No: le piazze, domenica, non mostravano quello spettacolo. Proviamo dunque a scommettere su una nuova composizione sociale, proviamo ad accettare la sfida della novità. In quella novità, com’è stato sottolineato giustamente, le ambiguità sono enormi, e può darsi che non funzionerà. Ma se non proviamo a cavalcare l’onda dell’11 gennaio, se non chiediamo un 11 gennaio europeo, una nuova fraternité del comune, ci rimarrà solo il piccolo e tremendo piacere di aver avuto ragione contro la speranza, e di aver saputo impartire belle lezioncine di pseudo-purezza politica a chi, quella politica, provava a inventarla all’altezza della vita.

 

*articolo uscito il 16/01/15 su il manifesto.

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