di ROBERTA POMPILI.

Bisogna essere ciechi o pazzi per non capire il doppio movimento che sta dietro i rapporti di forza del capitale: liberismo sfrenato (correlato di multiculturalismo e diversity managment) da una parte e/o fondamentalismo identitario nazionale, religioso, sessuale (violenza correlata) dall’altra. Bisogna essere ciechi o pazzi a non capire che dietro la vicenda di Charlie è il secondo movimento che ha prevalso e che NOI – un noi indispensabilmente altro-eterogeneo-meticcio che osserviamo nel suo potenzialmente virtuale divenire – avendo fatto poco o nulla per smascherarlo/disattivarlo abbiamo permesso che le emozioni, i sentimenti di sdegno provati verso una strage fascista fossero egemonizzati dal primo movimento (il due è tornato uno). Una quantità  di osservazioni sull’eurocentrismo, innegabile, di cui abbiamo con nobili disertazioni bollato un gruppo di vignettisti di una vecchia sinistra scombussolata e anarcoide, atea e blasfema (ma guai ad attaccare con disegnini blasfemi Allah nel tempo del multiculturalismo, lo dice anche il Papa chi offende la madre – ovvero la religione – deve aspettarsi il Santo Cazzotto). Queste nobili disertazioni ci hanno fatto prendere distanza emotiva dall’accaduto e perdere tempo importante regalando la possibilità di un lineare balzo mediatico – più che prevedibile – ad una classe politica e di potere sempre più in crisi rispetto alla propria immagine da gestire nel bel mezzo di impopolari politiche di austerity. E così che Je suis Charlie – ormai campo di lotta semantico – è stato egemonizzato dalle stesse forze politiche che hanno armato ideologicamente e/o militarmente l’estremismo islamico, (così come sostengono dietro le quinte, sebbene non in forma sistemica e lineare, gli altri fondamentalismi). Ecco qui che il due è tornato uno: le leggi di emergenza che oggi Alfano giustifica contro L’Isis, contro chi davvero sono rivolte?

Eppure le persone scese in piazza a Parigi e altrove in Francia e in Europa non chiedevano di certo leggi speciali, le parole d’ordine erano libertà, uguaglianza e fraternità.  Ora conosciamo bene i limiti di questa cornice nel contesto francese e non solo (chi non ricorda – un esempio tra gli altri – la repressione dei giacobini neri di Haiti?), ma altrove qualcuno – leggi Marco Bascetta – ha sottolineato molto bene potenza, limiti e ambivalenza di quelle stesse parole-chiave dentro l’ordine sociale contemporaneo (parole d’ordine piuttosto che da ripudiare da fare deflagare dentro le contraddizioni del capitale); mentre qualcun altro – leggi Sandro Mezzadra – ha indicato il fattore emotivo (vincere la paura stando insieme come potenza del comune) come determinante per quelle massicce manifestazioni di piazza. Quello che dobbiamo domandarci è: nell’epoca del capitalismo cognitivo e della vita messa a valore, quanto può pesare una potenza emozionale così grande dentro l’instabile scacchiere economico-politico europeo? Sappiamo che la messa al lavoro delle emozioni è centrali nel lavoro contemporaneo – lo abbiamo analizzato tante volte, il femminismo ne ha fatto una potente lente di analisi – ma le emozioni sono centrali anche per la costruzioni di appartenenze politiche, religiose, etc…

L’antropologia si è soffermata da tempo ad analizzare la realtà dell’emozione in quanto un costrutto sociale, culturale, politico e storico (Abu-Lughod, Lutz) e gli effetti dei discorsi emozionali sulle pratiche di vita quotidiana e le relazioni sociali. Le emozioni hanno a che fare con pratiche culturali e sociali che ci mettono in relazione con le cose e con le persone e plasmando i confini tra noi e gli altri. Appadurai, ad esempio, critica le appartenenze primordiali come residui pre-moderni, indicando la costruzione di sentimenti “primordiali” dentro il progetto del moderno stato nazione; lo stesso risentimento per le forze e le istituzioni del mercato viene oggi mobilitato per lo più da élite transnazionali (vedi le organizzazioni di Al Qaeda e Isis) attraverso l’attivazione delle differenze culturali in chiave primordialista. Preciado si è recentemente soffermata a descrivere questa produzione di nuova soggettività  politica (jihadista) attraverso la produzione di sentimenti di terrore e di panico messi in moto dalle tecniche audiovisive, che pongono la teatralizzazione della morte al centro di un «nuovo regime visivo farmaco-pornografico».

La vicenda di Charlie a mio parere ci consegna una lezione: dentro questi precisi rapporti di potere per costruire una forza “altra” occorre lavorare non solo per decostruire le cornici in cui si trova compresso il comune e dove le sue emozioni vengono ricatturare e canalizzate, ma anche e soprattutto dare potenza a quegli affetti in grado di far emergere una nuova e contrapposta soggettività. Occorre per questo, ancora una volta parafrasando Calvino, fare spazio ricostruendo i fili, le genealogie, le passioni di un’altra Europa. Sarà  l’Europa antifascista quell’affetto, tra gli altri, che darà  forza ad uno spazio transnazionale in divenire, un noi meticcio e altro, che si oppone alle nuove destre/fondamentalismi e che combatte l’austerity del capitale.

Nel bel mezzo di loschi scenari di guerra, ma anche all’alba di una grande e rinnovata consapevolezza della posta in gioco nel rapporto crisi/economia/democrazia – dalla vittoria di Tzipras in Grecia alla marcia di Podemos in Spagna – si riapre la partita della lotta di classe in Europa.

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