di ALBERTO DE NICOLA.

 

Siamo stati abituati, nel tempo, a pensare che le esperienze di conflitto abbiano origini – e producano effetti – che eccedono il territorio, sociale e geografico, nel quale si collocano. Questa idea ci ha spinto ogni volta a forzare le interpretazioni degli episodi di resistenza e di emersione dei movimenti, vedendo in essi espressioni puntuali di più ampi processi di propagazione, risonanza e traduzione. Il problema della «circolazione delle lotte» vanta, insomma, una lunga storia e tradizione. Senza andare troppo indietro nel tempo, così è stato interpretato politicamente il ciclo dei movimenti globali degli inizi degli anni Duemila, quello dei movimenti studenteschi contro il Bologna Process e il ciclo dei movimenti moltitudinari contro le politiche di austerità che, in particolare nell’Europa del Sud, ha toccato la propria massima intensità nell’anno 2011.
Occorre chiedersi quanto, oggi, il principio della «circolazione» possa essere applicato anche alle fratture istituzionali e alle esperienze di governo che si propongono di contrastare le politiche di austerità in Europa.
Sembrerebbe del resto, che proprio la minaccia di una riproduzione di queste rotture in altri paesi, sia attualmente una delle maggiori preoccupazioni per i poteri costituiti nel continente europeo. È questa la logica, smaccatamente politica, che spinge alla rigidità le trattative sul debito con il nuovo governo greco, non solo da parte dei cosiddetti paesi creditori, ma anche di quelli (come Spagna, Portogallo e Italia) che non avrebbero altro che da guadagnare da una flessibilizzazione dei parametri sul pagamento del debito.
Tuttavia il problema della «circolazione», posto a questo livello, introduce una serie di questioni assai delicate per quel che riguarda la strategia politica dei movimenti in Europa e in particolare nei paesi che si affacciano sulla sua sponda mediterranea. Districare questa complicata matassa è un compito troppo arduo. Mi limiterò, in queste brevi note, ad elencare alcune considerazioni sul caso italiano.

Oltre la logica della rappresentanza

C’è un fraintendimento di fondo che caratterizza il modo in cui, in Italia, viene recepita la vittoria elettorale di Syriza e l’affermazione del fenomeno politico di Podemos. Lasciando sullo sfondo le rilevanti differenze tra queste due esperienze, entrambe sono tradotte in Italia all’interno di quello stesso schema che ha segnato il dibattito sul rapporto tra movimenti e rappresentanza negli ultimi 15 anni.
Oltre a ricordare che questa lunga storia italiana è stata segnata da evidenti fallimenti, il nostro problema è quello di sottolineare come quello schema si riferisse ad una logica del tutto differente da quella che sta caratterizzando i processi politici attuali.
All’inizio degli anni Duemila, il problema è stato quello di inserire l’azione dei movimenti sociali all’interno degli assetti della rappresentanza, interpretando il processo di frammentazione istituzionale che stava caratterizzando le strutture dello Stato. Questo stesso processo (di cui in quella fase venivano esaltati i caratteri di orizzontalità ed eterogeneità) è stato percorso da alcune esperienze di movimento nella direzione di una sua radicalizzazione. Il problema è stato quello di accelerare questi processi, assumendone fino in fondo i caratteri peculiari e spingendo il più possibile nella direzione di una moltiplicazione nella produzione normativa e di una contestazione del monopolio della rappresentanza.
Accanto ad un utilizzo spregiudicato e pragmatico degli istituti della rappresentanza, questi tentativi hanno spesso finito per accettarne il funzionamento individuando nella produzione di opinione pubblica (riferita ad una non meglio specificata «società civile») il terreno proprio della contesa con i poteri costituiti e di connessione con i partiti politici e, dall’altro lato, di frammentare le stesse istanze prodotte dai conflitti in una miriade di «domande sociali» organizzate per sottocategorie, utili alla traduzione nel marketing della rappresentanza politica.
Due sono, essenzialmente, gli elementi che ci spingono a pensare l’impossibilità di ripercorrere quella strada.
Da un lato, al posto di un processo di frammentazione orizzontale (e di una corrispondente immagine della governance) noi siamo messi di fronte ad una dinamica di ricomposizione verticale dei poteri. Occorre da subito specificare che questa ricomposizione, non solo non ricostituisce alcuna nuova (o vecchia) unità ma, al contrario, proprio dal suo carattere parziale e precario emerge e si esalta il suo contenuto di ordine e comando. La crisi economica e istituzionale europea spinge questa dinamica fino all’estremo. Dall’altro lato, ogni volta che i movimenti contro l’austerità hanno percorso le strade delle metropoli europee occupando lo spazio urbano e politico, lo hanno fatto rivendicando una «presenza» irriducibile ai meccanismi della delega.
In questo senso il centro della questione smette di essere quello di tradurre le istanze politiche dei movimenti nell’arena della rappresentanza e diventa quello di rendere possibile ed efficace l’esercizio di un potere che si è già cominciato ad organizzare.

Il rapporto tra orizzontalità e verticalità come problema aperto

Abbiamo già detto che la verticalizzazione della governance neoliberale non rifonda alcuna «unità», in altri termini è bene ricordare che questo processo, nonostante la sua incredibile violenza, approfondisce, più che smentire, la crisi della sovranità statuale. Questa affermazione è tanto più vera quanto più ci poniamo il problema di una ricomposizione verticale delle lotte. È noto quanto il problema del governo e i conseguenti esperimenti politici nel sud Europa siano originati dall’incredibile ciclo di movimento contro le politiche di austerità che ha toccato il proprio apice nel 2011. All’espansione dei movimenti moltitudinari ha fatto seguito una straordinaria moltiplicazione di fronti di lotta che hanno insistito nella resistenza alle politiche di austerità producendo una proliferazione di quelle che, solo sommariamente, possiamo descrivere come esperienze di sindacalismo sociale, esperimenti di nuovo mutualismo e forme di autogestione delle strutture del Welfare. La questione del governo e dell’esercizio del potere nasce nel momento in cui queste lotte, estese e radicate, si scontrano con il blocco delle forme di negoziazione. Se è bene tenere a mente la sequenzialità con cui si è sviluppato questo processo in paesi come la Grecia e la Spagna, è al contempo utile maneggiarla con estrema cautela. Una lettura lineare di questa dinamica, infatti, spinge taluni a ritenere che la necessità di una verticalizzazione dell’azione dei movimenti possa essere pensata nella forma del passaggio o dell’avvicendamento tra fasi e logiche separate e differenti: prima l’estensione sociale e orizzontale delle lotte, poi il ricorso al politico come superamento dei limiti intrinseci (l’incapacità di esprimere decisione) e estrinseci (il blocco della negoziazione sociale) tipici dei movimenti sociali. Non fa mai male ricordare, come fece qualche anno fa Deleuze, che la politica delle due tappe (prima la spontaneità – poi l’organizzazione) è sempre stata disastrosa per i movimenti rivoluzionari.
In questo caso, il «disastro» è ulteriormente confermato dal fatto che il passaggio al politico (intendendo con questo lo spazio di azione del governo statale) è segnato da limiti non meno consistenti di quelli che solitamente si attribuiscono ai movimenti. L’impossibilità (confermata dalla trattativa del governo greco con le istituzioni europee) di stabilire un rapporto di forza vincente con le élite finanziarie globali rimanendo confinati nel perimetro nazionale, pone immediatamente il problema di accumulare forza contrattuale in uno spazio allargato che non può che coincidere, almeno, con quello europeo. Inoltre, le trasformazioni che negli ultimi decenni hanno riguardato la forma dello Stato erodono in profondità la possibilità che la «presa del governo» sia sufficiente per trasformare radicalmente, al proprio interno, i rapporti sociali. La discontinuità istituzionale è in altri termini inefficace se non si appoggia al consolidamento e allo sviluppo di una fitta e autonoma rete di esperienze di nuova istituzionalità, alla disseminazione cioè di «altri» poteri, capaci di sviluppare programma politico e decisione.

Coalizioni!

È bene sottolineare che la logica delle tappe appena citata, ovvero l’interpretazione in senso lineare del passaggio al «momento politico», è nociva anche quando si presume che, in assenza di movimenti che equiparino per portata quelli che abbiamo visto in altri paesi europei, sia scorretto porsi anche solo il problema. La questione riguarda, ancora una volta, su quali basi è possibile interpretare la «circolazione delle rotture istituzionali» anche in altri contesti. In altre parole, come all’estensione e proliferazione di nuove esperienze di organizzazione sociale corrisponda un piano capace di conferire forza, durata e immaginazione programmatica.
Questo problema, in Italia, benché in modi assai differenti, è passato recentemente attraverso l’uso del termine «coalizione». Nonostante sia oggi difficile presentarne un’interpretazione univoca, rimane il fatto che dalla prima formulazione di Sergio Bologna alla coalizione dei laboratori che hanno dato vita il 14 novembre all’esperimento dello Sciopero Sociale, alla coalizione dei lavoratori autonomi «27 febbraio», fino ad arrivare alla recente proposta della Fiom, questo insieme di formulazioni conservano, forse, un’intuizione comune: l’assenza di movimenti di massa unita alla crisi strutturale del sindacato tradizionale pongono in Italia il problema di ricostruire un nuovo agire organizzativo che sappia ad un tempo mettere in collegamento la fitta rete di esperienze di autorganizzazione sociale di cui è caratteristico il nostro paese, ed immaginarne di nuove, corrispondenti alla nuova composizione del lavoro.
Che questi esperimenti promettenti non siano, per se stessi, sufficienti a risolvere il rapporto tra orizzontalità e verticalità nel modo in cui lo abbiamo presentato, è fuori dubbio. Cosi come, però, è fuori dubbio che è solo passando per questa via che in Italia, la questione può essere correttamente posta. Detto in altro modo: il problema tra estensione sociale delle forme organizzative del sociale e capacità di esprimere decisione e forza nel tempo, interroga lo statuto stesso delle soggettività e i modi della loro produzione. In questo senso, o le coalizioni si presentano fin dal principio in contraddizione con la logica della confederalità sindacale, del corporativismo delle categorie e delle identità delle componenti di movimento, ovvero con le modalità con cui ogni volta le lotte sociali sono rimaste incastrate nella vecchia dialettica della rappresentanza, oppure esse rimarranno nulla più che un’occasione sprecata.

L’intersecazione delle coalizioni sociali

Rimangono tuttavia sul tavolo altri significativi problemi. Il più importante riguarda la necessità che queste differenti coalizioni, nella loro autonomia e pluralità, possano trovare il modo di intersecarsi. Occorre dunque comprendere fin da ora su quali direttrici questo collegamento possa darsi e che rapporto questo intrattiene con la composizione sociale che intende intercettare. Due sembrano essere i rischi maggiori a cui è esposta questa necessità. Da un lato, quello di sciogliere la molteplicità della composizione sociale attorno ad una figura monolitica del lavoro, la quale, in ultima istanza, finirebbe con l’essere identificata con l’immagine su cui si sono formate le organizzazioni sindacali tradizionali e con le forme giuridiche che l’hanno codificata. L’altro rischio, è che sia questa volta lo stesso riferimento alla composizione di classe a sciogliersi in concezioni indistinte e metafisiche come quelle di «società civile» o di «popolo sovrano». Sulla prima formula già le esperienze dei Social Forum hanno mostrato il fallimento di questa ipotesi. Sulla seconda, questa porta sempre con sé, magari dalle nostre parti nell’identificazione con la Costituzione Repubblicana, il riferimento allo Stato nazionale come elemento universalizzante incapace, ovviamente, di aprire a quelle connessioni europee che sono in questo contesto vitali.
Probabilmente il problema dell’intersecazione delle coalizioni sociali deve essere oggi riproposto a partire dal lascito delle esperienze di movimento di massa che, in Italia, avevano presentato nel modo più evidente il rapporto problematico tra orizzontalità e verticalità senza tuttavia esser capaci di svilupparlo: il movimento studentesco dell’Onda e quello dell’acqua. Se il grillismo ha rappresentato dalle nostre parti una «soluzione» perversa di questo rapporto, è perché si è nutrito proprio della crisi di questi due movimenti e della loro incapacità di proseguire.
Così come il movimento dell’Onda aveva presentato il precariato intellettuale, nella sua forma massificata e impoverita, come una soggettività capace di collegare segmenti sociali eterogenei, di tradurre la molteplicità del lavoro contemporaneo in un «divenire classe» di nuovo tipo, il movimento dell’acqua aveva mostrato la possibilità che il «comune» fosse assunto come un criterio di articolazione delle spinte istituenti della società. È guardando indietro a queste due esperienze interrotte, ai processi di soggettivazione e alle istanze costituenti a cui hanno alluso, che le coalizioni sociali possono, forse, trovare il loro orizzonte.

 

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