di SIMONA DE SIMONI.

 

La formula “il diritto alla città”, coniata da Henri Lefebvre alla fine degli anni Sessanta, ha conosciuto nei decenni successivi sino ad oggi numerose riscritture e détournements, sia da parte dei movimenti sociali che delle istituzioni.1 Lo stesso Lefebvre, nel corso di un’intervista del 1983 si riferisce all’influsso esercitato dal suo pensiero nello sviluppo delle questioni urbane ricorrendo all’immagine di un corpo alla deriva che, trascinato da correnti incontrollabili, imbocca direzioni inattese: «forse ho avuto un’influenza indiretta», dichiara, ma «cela a dérivé».2 Formula di non facile traduzione in quanto l’espressione italiana «andare alla deriva» possiede un’intrinseca connotazione negativa che non appartiene necessariamente all’originale francese. Dériver, verbo che richiama gli scritti dell’Internazionale Situazionista, infatti, indica piuttosto un girovagare privo di senso, l’intrapresa di strade molteplici, la sperimentazione. Più che di una deriva, allora, sarebbe utile fare riferimento a derive (o derivazioni) multiple.

L’intento di queste note, tuttavia, non è fornire una mappa delle “derive” del diritto alla città, quanto, piuttosto, tornare alla sua prima formulazione, tanto per esplicitarne la genesi contestuale quanto per sondarne la stratificazione concettuale. Talvolta, infatti, la ricezione dei testi di Lefebvre (nel caso specifico Le droit à la ville) risente di un approccio pregiudiziale – sempre più messo in discussione da una sorta di «terza ondata» di interpreti3 – che ne preclude un’assimilazione meno rituale e più approfondita.

Genesi contestuale, si è detto. Generalmente, si afferma che Le droit à la ville ha come orizzonte d’analisi la città di Parigi e la sua straordinaria storia politica (Harvey in primis, ma la formula è di rito). Se questo è vero in termini assai generali, tuttavia, lo scenario a partire dal quale nella riflessione di Lefebvre si produce uno scarto e un passo in avanti rispetto alle problematiche già rilevate dall’autore tra gli anni Cinquanta e Sessanta mediante l’analisi critica delle Villes Nouvelles è più ristretto e definito. Si tratta, ovvero, della banlieue di Nanterre dove Lefebvre arriva a insegnare nel 1964. Come egli stesso afferma nel corso di una lunga intervista, infatti, l’Università del suburbio nanterrois, frequentata in gran numero da giovani borghesi provenienti dal XII arrondissement di Parigi, sorgeva, allora, nel mezzo di un deserto metropolitano precariamente occupato da un vasto insediamento informale di lavoratori e lavoratrici migranti sopraggiunti dal recentissimo passato coloniale della Republique.4

dirittoallacitta3Il contesto generativo della problematica del diritto alla città, dunque, rimanda ad una realtà ibrida complessa (sia in termini oggettivi che soggettivi) che prelude al disgregamento della metropoli fordista e di cui l’accostamento tra il nuovo campus e la bidonville fornisce un’immagine pregnante. L’importanza epistemologica assegnata da Lefebvre a tale contesto è ben testimoniata dal monito che egli rivolgeva ai suoi studenti di Nanterre, aspiranti sociologi urbani, invitandoli a immaginare, nel tragitto quotidiano tra la stazione di Saint-Lazare a Parigi al complesso universitario della banlieue, una fermata intermedia e inesistente alla cosiddetta “Folie”: una delle più grandi bidonvilles della cintura parigina, popolata negli anni Sessanta da circa diecimila abitanti, tutti di origine migrante.5

Per avere un’idea dell’intensità del cambiamento urbano e sociale condensato nell’esperienza degli abitanti della Folie vale la pena citare brevemente una testimonianza significativa: la storia di Ahmed che, giunto a Nanterre nel 1963, racconta il proprio senso di spaesamento traducendo in termini soggettivi la vertigine di una trasformazione spaziale epocale. Al suo arrivo a Nanterre, perso nel labirinto di oltre 1.800 baracche senza acqua corrente e luce elettrica, Ahmed si rivolge ad un uomo in cerca di ragguaglio: «è questa la Francia?», domanda; «si, ma qui non si chiama la Francia, si chiama La Folie», gli viene risposto.6

Un nome improprio, dunque, che, agli occhi di Lefebvre, diviene l’emblema della trasformazione: terra di mezzo in cui una nuova spazialità politica ed economica prende forma. Superficie ibrida in cui la città si estende e si disgrega al tempo stesso a cui l’autore assegna uno statuto epistemologico: il margine diviene una prospettiva, una lente, un posizionamento complessivo nel campo della teoria. La gradazione semantica che, in tal modo, Lefebvre conferisce alla periferia traluce limpida in un testo autobiografico del 1975.

Per me, le periferie, non sono soltanto persone che vivono lontano dal centro, che si tratti di un centro del pensiero o dell’azione. Le periferie sono talvolta molto vicine al centro; o, addirittura, forniscono l’approccio per arrivarvi. Lo spazio sociale non si definisce come lo spazio geografico attraverso distanze misurabili. Nella stessa Parigi, tutti coloro che sono definiti periferici non sono lontani dal centro, che si tratti di operai stranieri o di contestatori all’interno di organi ufficiali.7

La periferia, dunque, non è frutto di un semplice dislocamento – un’estensione della metropoli – ma, piuttosto, uno spazio diffuso in cui la prossemica dei luoghi diventa politica: la distanza dal centro, infatti, non si misura in metri e chilometri e nemmeno in porzioni di tempo. Una consapevolezza che sarebbe divenuta coscienza comune. A proposito di Parigi, ad esempio, nel linguaggio corrente, si dice che vi siano due tipi di banlieues, quella fredda e quella calda: lo spazio, dunque, se mai, lo si ripartisce in zone climatiche. A ben vedere, non si tratta di una semplice metafora che rievoca il linguaggio delle passioni per definire il carattere placido o irrequieto dei luoghi, ma di una presa d’atto – forse inconsapevole, certamente dall’effetto paradossale – del fallimento di un modello di urbanizzazione funzionalista improntato alla climatizzazione temperata e artificiale dello spazio che in Francia ha costituito il canone dello sviluppo fordista della città.

Che si tratti degli sbalzi climatici dell’area parigina che oggi separano la banlieu nord-est (calda) da quella sud-ovest (fredda) come fossero continenti in continuo movimento su una materia fluida o dei primi travasi dal centro al margine e viceversa di cui Lefebvre fa esperienza con il suo arrivo all’Università di Nanterre, la periferia è concepita come il luogo di un’esperienza sociale inedita che getta una luce particolare sullo spazio metropolitano ridefinendone, così, le condizioni di conoscibilità. Quando, infatti, nella prefazione a Le droit à la ville, si afferma che «le questioni relative alla città ed alla realtà urbana non sono completamente conosciute e riconosciute» in quanto, «non hanno ancora acquistato dal punto di vista politico» la stessa rilevanza che gli viene assegnata dall’ideologia e dalla pratica di governo, si vuole anche dire, indirettamente, che tale punto di vista deve essere assunto e costruito al medesimo tempo a partire – secondo un’impostazione stabile della filosofia lefebvriana – dall’articolazione del vissuto con il concetto.

Le droit à la ville, dunque, prende le mosse dalla crisi della metropoli fordista con l’intento dichiarato di «aprire il pensiero e l’azione verso certe possibilità mostrando l’orizzonte e la strada».8 La scelta del verbo aprire fa propria, nel riferimento alla problematica urbana, una sfumatura concreta di tutto interesse. Se riferita allo spazio, alla città e al suolo su cui essa si erige, infatti, l’azione dell’apertura ne richiama alla mente altre come scavare, sterrare, abbattere, costruire, sgomberare e così via, lasciando affiorare un dubbio che sarà formulato con con maggiore trasparenza in La production de l’espace secondo cui, forse, «soltanto i bulldozers e le bottiglie molotov potrebbero cambiare lo spazio esistente».9

firenzeSi dischiude uno scenario bellicoso e la prospettiva nanterroise si riconferma privilegiata: se, infatti, nel contesto generale del “maggio Sessantotto” (qui espressione metonimica), la «questione urbana» diviene patrimonio politico collettivo, è nelle banlieue che essa si accompagna alla comparsa sulla scena politica di una soggettività nuova. «Français-immigré tous unis!», lo slogan che accompagna proprio la manifestazione contro lo sgombero della bidonville di Nanterre, è la sigla di un’alleanza inedita tra un nuovo soggetto giovanile e il proletariato migrante che ha per oggetto esplicito la città, i tempi e i modi di vita, il rifiuto di una riproduzione sociale segmentata e diversificata (striata), ma interamente assorbita all’interno del ciclo produttivo. Il diritto alla città come istanza politica, dunque, fa la sua comparsa nell’orizzonte delle lotte sociali degli anni Sessanta e Settanta insieme ad una soggettività ibrida di cui nomina tanto le esigenze eterogenee quanto l’enigmatica consistenza.10

Da questo punto di vista, il riferimento ad un proletariato tradizionalmente inteso come attore principale interpellato dal “diritto alla città” non è divenuto astratto (nel tempo e ai nostri occhi), ma lo era già alla fine degli anni Sessanta e, almeno secondo Lefebvre (a cui, stranamente, si continua ad attribuire questa specie di approccio nostalgico ortodosso), lo era già a partire dalla Comune di Parigi del 1871.11 «Come e perché la Comune non è stata vista come “rivoluzione urbana”, ma come rivoluzione del proletariato industriale?», ci si chiede in La revolution urbaine – testo di pochi anni successivo a Le droit à la ville e ad esso legato da una linea teorica ben riconoscibile che comprende anche diversi interventi sulla rivista Espaces et sociétés, cofondata da Lefebvre e Anatole Kopp nel 1970.12

Il presunto riferimento monolitico di Lefebvre ad una classe operaia tradizionalmente e dogmaticamente concepita va problematizzato.13 Ad una lettura contestuale, infatti, la categoria del diritto alla città funziona come un dispositivo di raccordo epistemico-politico tra una nuova esperienza urbana (quella della periferia già post-fordista: la banlieue del lavoro migrante, del futuro cognitariato, di una logistica dei flussi che ridefiniscono il concetto stesso di centralità) e la necessità di formulare ipotesi teoriche e strategiche adeguate – una formula di raccordo, dunque, tra il vissuto, la teoria e la politica. Come scrive Lefebvre: «il diritto alla città si annuncia come appello, come esigenza».14

L’esperienza a cui Lefebvre fa riferimento è quella di una paradossale «integrazione disintegrante», come viene definita, di cui la metropoli diviene veicolo.15 Inclusione differenziale urbana – si potrebbe dire variando una formula di altro conio – che, nella Parigi di fine anni Sessanta, diviene visibile attraverso segmentazioni plurime del corpo metropolitano che scompongono la società in una moltiplicazione di parti antagonistiche. In questo quadro, il riferimento alla “classe operaia” risulta pressoché nominale: l’esperienza sociale della «integrazione disintegrante» a cui si fa riferimento, infatti, è già l’esperienza di un soggetto di classe trasformato. Prova ne sia il fatto che la descrizione fenomenologica di quella classe operaia che sola «può divenire l’agente portatore o supporto sociale» del diritto alla città introduce una discrasia rispetto ad una sua raffigurazione dogmatica in quanto, ben lontana dal rievocare l’unità di un’esperienza proletaria storicamente connotata (quella della fabbrica), si frammenta in una molteplicità di esistenze. I giovani, la gioventù, gli studenti, gli intellettuali, le armate dei lavoratori, i provinciali, i colonizzati e i semicolonizzati di ogni genere, tutti coloro che subiscono una quotidianità programmata – sono queste le figure letteralmente evocate da Lefebvre per rendere conto di una «forza sociale capace di investirsi essa stessa nell’urbano».16

L’esperienza urbana, dunque, diviene sostrato comune di vita e la periferia una sorta di ipostasi soggettiva che reclama forme e modalità inedite di socializzazione e fruizione della ricchezza (la città come valore d’uso e opera significa questo): una soggettività politica nuova, inseparabile dal processo di ristrutturazione dello spazio che, mentre vede la metropoli trasformarsi, registra la scomposizione del mondo coloniale. A questo proposito, bisogna fare attenzione a non soccombere all’illusione della stabilità semantica delle parole: il rapporto che Lefebvre mobilita tra la periferia e il diritto alla città, radicato nell’esperienza specifica della banlieue di Nanterre nella seconda metà degli anni Sessanta, non è quello presupposto dai successivi detournements istituzionali. Per Lefebvre, infatti, la periferia è un cantiere in divenire collegato ai nuovi flussi migratori, interni ed esterni, e a una trasformazione politica di scala tendenzialmente globale e non uno spazio predato dalla consistenza meramente amministrativa.17 Come è stato osservato, infatti, la sua riflessione «riguarda costitutivamente la dinamica strutturale della società urbana e dello spazio in un’era di incremento migratorio e di cittadinanza indeterminata».18

traffico sulla sopraelevataLa dialettica tra il centro e la periferia, inerente alla costituzione tendenziale della società urbana secondo l’analisi lefebvriana, va dunque proiettata su uno scenario di trasformazione complessiva dell’architettura spazio-politica del capitalismo. Al tal proposito conviene ricordare che Lefebvre trae la principale ispirazione metodologica per definire la transizione da un “assemblaggio” economico, politico, culturale e sociale complesso ad un altro – ciò che pensa mediante la sequenza rurale-industriale-urbano – dalla cosiddetta Introduzione del 1857 di Marx.19

Ispirato al principio marxiano secondo cui «in tutte le forme di società è una produzione determinata che assegna rango e influenza a tutte le altre, come del resto anche i suoi rapporti assegnano rango e influenza a tutti gli altri»,20 Lefebvre, infatti, considera il rapporto centro-periferia come una declinazione specifica dei rapporti sociali di produzione e come forza produttiva in sé.

Mentre il centro diviene, sempre più, un aggregato complesso e deteritorializzato di funzioni di comando globale (non è fuori luogo intravedere nel testo lefebvriano un’anticipazione del concetto di global city), la periferia, anch’essa lontana dal costituire una semplice dislocazione morfologica, incorpora il laboratorio sociale a partire dal quale definire un programma politico di democrazia radicale urbana di cui il diritto alla città diviene pratica istituente.21

In questo scenario, la “classe operaia” non è altro che il nome improprio con cui si definisce una forza sociale emergente e mostruosa (nel senso di non catalogabile, proprio come le entità mostruose che Foucault individua nella tassonomia di Borges).

«Lo “spettro” della città», come Lefebvre definisce la banlieue parigina in un’intervista del 1985 facendo risuonare nelle proprie parole una celebre formula marxiana, allude, dunque, ad una soggettività politica potenziale (o, se vogliamo, alla potenzialità politica di una soggettività consustanziale al fenomeno di urbanizzazione: prodotta, riprodotta e resa produttiva nella metropoli e per suo tramite). Ironia della sorte, pochi anni dopo la dichiarazione lefebvriana, lo spettro delle periferie avrebbe trovato un’incorporazione vigorosa e si sarebbe manifestato a diverse latitudini e longitudini: Vaulx-en-Velin 1990, Bristol e Los Angeles 1992 – per restare a tre esempi divenuti pressoché canonici.22

Sono gli anni Novanta e il riot urbano si impone sulla scena politica accompagnando, così, la transizione dal roll-back neoliberalism al roll-out neoliberalism che, non a caso, coincide anche con l’avvio di nuove economie urbane su scala globale.

Da allora, la turbolenza degli spazi metropolitani non si è più arrestata, intensificandosi negli ultimi anni di crisi. Se il diritto alla città possa costituire un dispositivo per tradurre tale turbolenza in pratica politica organizzata e istituente non può essere stabilito a priori sebbene esso rappresenti «un seduttivo grido di battaglia» passibile di traduzioni continue ed eterogenee.  23 Tuttavia, se modulato al di fuori di una prospettiva radicalmente contestataria, intenzionalmente postcoloniale e programmaticamente trasversale (nel senso che al termine conferisce Yuval-Davis) tale quale quella “aperta” dallo stesso Lefebvre, difficilmente lo slogan del diritto alla città può sottrarsi alla presa di retoriche meramente partecipative non sganciabili dai processi di valorizzazione inerenti alle economie urbane del capitalismo contemporaneo.

 

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  1. Per una panoramica complessiva, si veda: M. Mayer, The “Right to the City” in urban social movements, in N. Brenner, P. Marcuse, M. Mayer, Cities for People, Not for Profit: Critical Urban Theory and the Right to the City, Routledge, London 2012, pp. 63-85. 

  2. G. Burgel, «Henri Lefebvre répond à Villes en parallèle», Revue Villes en parallèle, 7, 1983, pp. 51-63. 

  3. Più o meno dagli anni Duemila, si assiste ad una vera e propria Lefebvre’s renaissance che vede impegnati/e diversi/e studiosi e studiose su una piattaforma comune di ricerca. A titolo esemplificativo, si veda:  K. Goonewardena, S. Kipfer, R. Milgrom, C. Schmid (a cura di), Space, Difference, Everyday Life: Reading Henri Lefebvre, Routledge, London 2007. 

  4. Henri Lefebvre ou le fil du siècle. Intervista a cura di R. Sangla, J. De Bonis, trasmessa da Canal 3, 27 giugno 1988. Consultabile presso Institut national de l’audiovisuel, Paris. 

  5. La crescita della bidonville nella prima cintura parigina è un fenomeno esteso legato agli enormi flussi migratori dell’epoca soprattutto dal Marocco, dall’Algeria, dalla Tunisia e dal Portogallo. Sul caso di Nanterre, si veda: A. Saya, Un Nanterre algérien, terre de bidonvilles, Autrment, Paris 1995. 

  6. Cfr. M. Hervo, M. A. Charras, Bidonvilles, l’enlisement, Maspero, Paris 1971. 

  7. H. Lefebvre, Le temp des méprises, Stock, Paris 1975, p. 59. 

  8. H. Lefebvre, Il diritto alla città, Marsilo, Padova 1970 (ed. originale, 1968), p. 19. 

  9. H. Lefebvre, La produzione dello spazio, Moizzi, Milano 1976 (ed. originale, 1974), p. 75. 

  10. Per una ricognizione che dia la dimensione e la capillarità delle lotte a matrice e sfondo urbano nella Francia degli anni Sessanta e Settanta si veda l’inchiesta monumentale: M. Castells, E. Cherki, F. Godard, D. Mehl, Crise du logement et mouvement sociaux urbains. Enquête sur la région parisienne, Mouton, Paris – La Haye 1978. Per una mappatura della tematica post-coloniale nel pensiero di Lefebvre che, come si fa qui, sottolinea l’importanza degli scritti a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, si veda: S. Kipfer, K. Goonewardena, «Urban Marxism and Post-colonial Question: Henri Lefebvre and “Colonisation”», Historical Materialism, 21/2, 2013, pp. 76-116. 

  11.  Cfr. H. Lefebvre, La proclamation de la commune. 26 mars 1871, Gallimard, Paris 1965.  Il testo, al centro della polemica con i Situazionisti, fornisce una sorta di traccia genealogica del diritto alla città di tutto interesse: l’esperienza della Comune inaugura una «esperienza geografica della vita umana» (bella formula di Kristine Ross) che fa della città non tanto un oggetto specifico della politica, ma l’ambito di un’esperienza del reale che diventa interamente politica. 

  12. In particolare, si veda: H. Lefebvre, «La ville et l’urbain», Espace et société, 2, 1971, pp. 3-7. 

  13. In queste note – forse già troppo lunghe per la loro destinazione – non è possibile attraversare un corpus testuale più ampio. Si tenga presente, tuttavia, almeno questo passaggio: «Il nuovo proletariato? La “nuova classe operaia”? Essa non si incontra nelle industrie di punta ad alto sviluppo tecnico, ma nelle Habitation à loyer modéré (HLM), nelle cité, nelle città e nei quartieri nuovi. […] La gioventù operaia vi nasce con un odio, cieco o lucido, contro la pressione delle autorità, contro il “reale” esistente nella sua integralità. […] Questi giovani cercano, e forse inaugurano, un nuovo modo di vivere. […] Essi possiedono una maniera sorprendente di “volere”, di rivendicare contestando, di contestare rivendicando. Coloro che li hanno visti nelle manifestazioni sono rimasti sorpresi dal loro stile: disinvolti nella violenza, partono alla conquista della città e della vita con un’audacia sublime, spesso sotto il segno di bandiere nere». Il riferimento alle “bandiere nere”, altrimenti piuttosto criptico, richiama forse un’espressione corrente alla fine degli anni Sessanta utilizzata per indicare il fenomeno della delinquenza giovanile all’interno delle Cites e dei Grands Ensembles. Qualcosa, insomma, di difficilmente riconducibile ad una rappresentazione tradizionale e dogmatica della classe operaia. Il passo citato si trova in: H. Lefebvre, L’irruption de Nanterre au sommet, Syllepse, Paris 1998 (prima ed. 1968), p. 91. 

  14. H. Lefebvre, Il diritto alla città, cit., p. 134. 

  15. Ivi, p. 118. 

  16. Ivi, p. 132. 

  17. Questo aspetto è stato ben ribadito da Ètienne Balibar negli anni Novanta nel contesto di una discussione critica della «Loi d’orientation pour la ville» che costituisce una delle principali traduzioni istituzionali dell’istanza del diritto alla città nel contesto francese. Si veda: «Loi d’orientation pour la ville: séminaire chercheurs décideurs», in Recherches 20, Ministère de l’équipement, des transports e du logement, 1991. 

  18. L. Gilbert, M. Dikeç, Right to the city. Politics of citizenship, in K. Goonewardena, S. Kipfer, R. Milgrom, C. Schmid (a cura di), Space, Difference, Everyday Life, cit., pp. 250-263, p. 252. 

  19. Per quanto riguarda ciò che Lefebvre definisce come una «lettura tematica» di Marx e Engels, ovvero una lettura finalizzata a mostrare il legame intrinseco tra l’emergere tra le righe di una problematica urbana e la definizione del metodo del materialismo storico, si veda: H. Lefebvre, La pensée marxiste et la ville, casterman, Paris 1972. 

  20. K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, manifestolibri, Roma 2012, p. 56. 

  21. Da questo punto di vista, la lettura parallela del testo di Lefebvre sulla Comune del 1871 fornisce elementi integrativi e di chiarificazione importanti. Si veda, dunque: H. Lefebvre, La proclamation de la commune. 26 mars 1871, Gallimard, Paris 1965. Da questo testo, inoltre, è possibile desumere una fenomenologia dell’insurrezione urbana che rinforza la prospettiva qui assunta sulla problematica del soggetto sollevata dalla questione del diritto alla città. 

  22. Per un esame comparativo dei tre fenomeni, si veda: L. Wacquant, Parias urbains. Ghetto, banliueues, état, La Découverte, Paris 2006. 

  23. H. Merrifield, The Politics of the Encounter: urban theory and protest under planetary urbanization, University of Georgia Press, Athens 2013, p. 24.