di GIROLAMO DE MICHELE.1

Confesso di aver seguito con un certo distacco, e anche un po’ di fastidio, il nascere del “Nuovo Realismo”, del cui testo fondante molte cose non mi convincevano, e continuano a non convincermi. Del resto, non essendo mai stato “post-modern”, non mi convinceva neanche l’eventuale difesa del bersaglio polemico. E, se devo dirla tutta, l’ambiente “Italian Theory” – tradotto come mangio: l’Italietta accademica che ha il suo quarto d’ora di notorietà modaiola, ora che il vestitino “French Theory” s’è sdrucito a furia di strofinature, nei McDonald culturali americani – mi faceva venire in mente il Poeta di Pavana: “di solito ho da far cose più serie, costruire su macerie, o mantenermi vivo”.
Nel giro di una settimana, due testi mi hanno fatto cambiare idea non sull’agone accademico, ma sull’utilità di intervenirvi. Il primo è la piccola Arca nella quale, su minima&moralia, sono stati imbarcati testi che potrebbero venire buoni après le déluge, e che testimoniano come una parte importante della narrazione contemporanea non sia riconducibile all’antitesi Realismo-Postmoderno; il secondo è l’intervento di Umberto Eco Ci sono delle cose che non si possono dire, sull’ultimo alfabeta2 [qui].

Quasi quattro anni fa, partecipando alla discussione sul romanzo italiano contemporanea aperta da Wu Ming 1 col suo saggio sul New Italian Epic, avevo sostenuto le ragioni della categoria del “neorealismo” usata da Gilles Deleuze a proposito del cinema: avevo scritto [qui] – e non ho cambiato idea – che «il neorealismo ha a che fare con una nuova forma di realtà dispersiva, ellittica, errabonda, che opera per blocchi, con legami deliberatamente deboli ed eventi fluttuanti: «il reale non è più rappresentato o riprodotto, ma “mostrato”. Invece di mostrare un reale già decifrato, il neorealismo mostrava un reale ancora da decifrare, ambiguo; è il motivo per cui il piano-sequenza tende a rappresentare il montaggio di rappresentazioni”». Quel dibattito non aveva lo scopo di indicare la via alle future narrazioni, ma di comprendere, senza creare alcun canone, cosa stesse accadendo in una parte delle narrazioni esistenti: e, senza la pretesa di affermare che c’è un David Foster Wallace o un Don DeLillo italiani, mi sembra di poter dire che nell’ambito della narrativa, grande o meno, un congruo numero di narratori si lasciano alle spalle l’alternativa tra realismo e postmoderno. Come faceva Diogene alle lezioni di Zenone sull’impossibilità del movimento, i narratori si alzano e cominciano a camminare (e poco importa se l’aneddoto è fittizio). Questo pone un problema ai filosofi: per l’esattezza, sullo statuto del “reale” – ma ci torno tra un po’.

Del testo di Eco condivido, a parte la chiarezza, buona parte dell’argomentazione di fondo: un “Realismo Negativo” che, conclude Eco, «non ci garantisce che noi possiamo domani possedere la verità, ovvero sapere definitivamente what is the case, ma ci incoraggia a cercare ciò che in qualche modo sta davanti a noi; e la nostra consolazione di fronte a ciò che altrimenti ci parrebbe per sempre inafferrabile consiste nel fatto che noi possiamo sempre dire, anche ora, che alcune delle nostre idee sono sbagliate perché certamente ciò che avevamo asserito non era il caso». Ad esempio, che «infinite sono le interpretazioni possibili del Finnegans Wake ma neppure il più selvaggio tra i decostruzionisti può dire che esso racconta la storia di una contessa russa che si uccide gettandosi sotto il treno», un’affermazione in apparenza banale, ma che pone molti problemi (a prescindere dalla fiducia di Eco nella buona fede, o nell’assennatezza, dei decostruzionisti). Perché quanto detto dal semiologo alessandrino è vero a condizione che qualcuno vada a controllare se il testo joyceano non sia la storia di una contessa innamorata: purtroppo, in un mondo nel quale i fatti sembrano essere scomparsi, i lanciatori di contesse sotto il treno proliferano. E se questi ermeneuti senza limiti sono accademicamente, giornalisticamente, editorialmente, televisivamente potenti, tanto peggio per Joyce e Tolstoij: la confutazione puntuale della loro interpretazione delirante gli scivola addosso come sul teflon. In tutta franchezza, darne la colpa a Nietzsche mi sembra fuori luogo. Ma anche addossare tuta la responsabilità a un oggetto aleatorio come il “postmoderno” mi sembra, se non un’esagerazione, un alibi che non regge.

Cosa dobbiamo intendere per “postmoderno”? Lo stesso Eco fa notare che questa parola ha diverse accezioni (è un “termine-ombrello”, avrebbe forse detto altrove). Dal punto di vista dei generi letterari, il postmodernismo è qualcosa di abbastanza chiaro e riconoscibile, con una sua ragione di essere, una sua qualità (penso ai racconti di Barth, ad esempio) e un suo proprio canone. Che David Foster Wallace ha messo in crisi portando la letteratura un po’ più in là, facendole fare un ulteriore tratto di strada: ma non mi sembra che di questo si stia parlando. Il postmoderno messo in questione da Ferraris sarebbe allora il supposto fondamento filosofico del genere letterario “post-modern” (che peraltro non ha avuto alcun bisogno di fondarsi su qualcos’altro): tipo, quella roba teorizzata da Lyotard – la fine delle grandi narrazioni e del concetto trascendentale di verità – e portata all’estremo da Rorty. L’estremizzazione, insomma, di quel “non ci sono fatti, ci sono solo interpretazioni” sul quale Nietzsche avrebbe dovuto farsi pagare il copyright, e che è stato moltiplicato come le Marilyn di Andy Warhol. E qui mi verrebbe voglia di dire – e infatti lo dico – che il successo di un pensatore come Rorty non è frutto del rigore della sua argomentazione, ma del bisogno che l’ambiente culturale italiano aveva di un pensatore  tutto sommato ovvio e banale, sia nell’argomentare che nel contenuto, in un certo momento: fossimo stati meno provinciali ed esterofili, ce li saremmo inventati in casa, i suoi quindici minuti di notorietà. La dico tutta sul postmoderno come categoria in grado di comprendere e definire una fase storica: non mi ha mai convinto, e non mi sembra che funzioni. A fronte delle episteme di Foucault – rinascimentale, classica, moderna (alle quali i corsi al Collège de France aggiungono quella antica), gli argomenti di Lyotard mi sembrano al più variazioni sul tema del moderno: una diversa modalità con cui l’uomo si comprende come soggetto e come oggetto, con cui fa i conti col fatto di non padroneggiare la vita, il valore e il linguaggio. Non è una questione di puntiglio filosofico: la tarda modernità identificata da Foucault, non per caso, come l’”epoca dei governati” pone enormi problemi politici – il passaggio dalla società disciplinare alla società del controllo, la governance, lo statuto ellittico delle relazioni di potere e le strategie di resistenza al biopotere. E il Foucault dei corsi ci costringe a smetterla con quella facile categorizzazione della vittimizzazione del soggetto nelle strategie di assoggettamento, e fare i conti con i processi di desoggettivizzazione. Sono problemi aperti non da oggi, ma dalla metà degli anni Ottanta, quegli anni Ottanta dai quali ancora non siamo usciti, che il pensiero italiano (e per un certo periodo anche parte delle narrazioni) hanno agevolmente scavalcato inseguendo le mode più varie. In quegli anni, che tutt’ora è pericoloso mettere in discussione – vai a toccare non dico Striscia la notizia, ma Drive In e Colpo grosso e sono guai! –, quei dark and stupid times (per dirla con David Foster Wallace) nei quali, come in un romanzo di Brett Eston Ellis, la griffe esibita serviva a nascondere il vuoto di chi, nulla avendo da dire, lo diceva con l’abito firmato. Erano anni in cui andavano per la maggiore i pensieri deboli e le categorie della modernità, del politico e dell’impolitico, la seria apocalisse viennese e gli angeli necessari, la decostruzione del pensiero critico e la ricostruzione delle carriere, gli squisiti teologi all’amatriciana e le mistiche col bollino blu, la nientificazione del niente e la camolatura dell’essere, il deriddismo di Fuori Orario e i deriddiani fuori orario. Non sapendo trovare l’ago, si praticava la fenomenologia del pagliaio, e i libri erano per lo più bibliografie commentate. Cosa accomunava questa biblioteca, degna di quella lasciata da don Ferrante in eredità ai muriccioli dei Navigli? L’idea che – lo si dicesse alla Heidegger come oblio dell’essere, alla Lacan (senza la critica dell’ideologia di Althusser) come Grande Altro, alla Derrida come differimento esoterico – il Reale è qualcosa con cui non si fanno i conti, se non in termini di mera amministrazione: che era poi l’idea del Pensiero Negativo di Cacciari. Che, insomma, l’oggettivizzazione di fatto del Reale come seconda natura finiva col sostituire non dico la critica del reale, o l’idea che il mondo, oltre che compreso, va poi cambiato, ma l’idea stessa che il reale non è un dato, e neanche un presupposto, ma una costruzione. Un’idea che sembra scomparsa con la morte, in un breve lasso di tempo, di Guattari e Deleuze (e qui, tanto per metterci il carico da undici, ci abbiamo messo del nostro anche “noi” deleuziani: o quantomeno, quelli che invece di chiedersi come produrre del nuovo – di pensare come Deleuze – hanno trasformato il pensiero di Deleuze in un monotono rap nel quale i concetti diventano autoreferenziali, e il ritornello diventa raparello, retorica della deriva, del crinale, dell’attesa, dell’impotenza, e via declinando).
Detto in altri termini: se quel taccuino fosse scivolato giù dalla tasca di Nietzsche e si fosse perso in Engadina, i nostri filosofi avrebbero pescato un’altra citazione dalla scatola di Baci Perugina.

Ma, già che ci siamo, cosa dice davvero Nietzsche in quell’aforisma dietro al quale “sen giva” la coda di paglia dei filosofi nostrani?
«Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: “ci sono soltanto fatti”‘, direi: no, proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto “in sé”; è forse un’assurdità volere qualcosa del genere. “Tutto è soggettivo”, dite voi; ma già questa è un’interpretazione, il “soggetto” non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto con l’immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. È infine ancora necessario mettere l’interprete dietro l’interpretazione? Già questa è invenzione, ipotesi. In quanto alla parola “conoscenza” abbia senso il mondo è conoscibile; ma esso è interpretabile in modi diversi, non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi. “Prospettivismo”. Sono i nostri bisogni, che interpretano il mondo: i nostri istinti e i loro pro e contro. Ogni istinto è una specie di sete di dominio, ognuno ha la sua prospettiva, che esso vorrebbe imporre come norma a tutti gli altri istinti» (Nietzsche, Frammenti postumi 1885-1887, in Opere complete, vol. 8.1, Adelphi, Milano 1975, fr. 7 [60], pp. 299-300).

Il prospettivismo di Nietzsche è una modalità del nichilismo che non intende il nulla del senso come indifferenza morale, ma come il terreno di un conflitto tra forze; da cui diverse forme di fini e valori: passività e rinuncia alla vita; reattività e risentimento; generosità e coraggio nell’accettare ogni istante come se dovesse ritornare infinite volte. In questa prospettiva (cito il mio amico Stefano Bonaga) «è possibile trovare una risposta al falso dilemma, al dilemma truccato fra Relativismo e Assolutismo, fra equipollenza delle culture differenti e superiorità di un complesso di valori assoluti». L’assiologia non è negata, ma costruita a posteriori: il prospettivismo pone in questione le pratiche e i giochi che permettono al soggetto di accedere alla verità. Il movimento No TAV della Val di Susa, il movimento Occupy, le piazze degli Indignados, i movimenti del rifiuto del debito come risposta alla crisi del capitale, piazza Tahir al Cairo: sono altrettanti esempi di conflitto delle interpretazioni che partono dal rifiuto della narrazione dominante – dalla sua denuncia come costruzione, come dispositivo, come gioco di verità del potere, al quale viene contrapposta una contro-narrazione che pretende di dar vita a un mondo diverso, fondato su una diversa potenza, su differenti bisogni – la materiale concretezza della vita contro l’astrazione quantitativa del PIL, per dire.
Il problema non è, quindi, quello di contrapporre due diverse modalità di descrizione del reale: ma quella di contrapporre dallo stato di cose esistente la costruzione di un diverso stato di cose, e di immettere in questa costruzione la potenza necessaria per imporlo. Gramsci e Benjamin usavano parlare di cultura in termini di conflitto, battaglia, casematte, posizioni da difendere: perché sapevano che non è nelle accademie o nei convegni (men che meno dalle pagine di facebook), ma è nelle strade, col culo in terra, che lo stato di cose esistente si fa, si critica e, nel caso, si distrugge.

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  1. Questo articolo è stato pubblicato su minima&moralia il 19 marzo 2012 col titolo: “New Realism vs Postmodern – Oltre l’accademia: le strade”