di ALBERTO DE NICOLA, BIAGIO QUATTROCCHI.

 

Appunti per una discussione a venire, a partire dalla giornata seminariale dell’11 settembre nella Scuola estiva di Euronomade.

 

Da più parti si discute sul fenomeno di sostanziale cronicizzazione della crisi capitalistica in Europa. Intendiamo riprendere questo tema nelle nostre giornate della scuola estiva, per tornare a discutere sulla nozione di crisi e sull’ipotesi che questa congiuntura, più che essere interpretata come una fase ciclica che apre ad un nuova stagione di espansione, sembra contenere invece tutti gli elementi di una “nuova forma di regolazione” di lungo periodo del sistema capitalistico. Sorprende che alcuni economisti del mainstream marginalista, anche negli ambienti da cui più direttamente sono provenute le ricette di politica economica centrate sulla austerità di bilancio e la liberalizzazione dei fattori nel mercato del lavoro, sia nata la preoccupazione sul futuro dello sviluppo capitalistico. Lawrence Summers alla conferenza annuale del Fmi nel 2013 suggerisce l’ipotesi che l’economia statunitense in modo particolare, si stia avviando lungo un sentiero di “stagnazione secolare”, aggiungendo che questa potrebbe essere la «questione [principale] del nostro tempo» . Ciò che questi economisti, insieme a tutte le altre teste d’uovo dell’establishment europeo non potranno mai vedere, è che alla base dell’ipotesi realistica della “stagnazione secolare” opera una radicale trasformazione del rapporto sociale capitalistico, maturata lungo il ciclo neoliberale. Christian Marazzi è tornato recentemente più volte su questo argomento. Al centro della sua analisi la crisi della relazione salariale, espressa nei termini della contrazione del monte salari e la de-salarizzazione di moltissime attività produttive di valore per il capitale – a cui si aggiunge, ancora più recentemente, l’esplosione del cosiddetto free work, indagato in Italia a partire da un primo lavoro sul tema dell’”economia politica della promessa” . La rottura degli spazi di mediazione salariale, la precarizzazione intensiva del lavoro, la cattura e la trasformazione in chiave manageriale delle organizzazioni sindacali tradizionali , insieme all’intensificazione dei dispositivi economico-politici di captazione del valore secondo una “logica estrattiva”, ha fatto si che il capitale «si è privato della possibilità stessa non tanto di creare liquidità, ma di integrarla nel circuito economico. Il denaro viene creato per monetizzare i salari; nel momento in cui i salari non ci sono più nella forma della contrattazione e dell’ubicazione della classe operaia, si aprono le porte a una integrazione della liquidità che va da tutte le parti, che crea rendite e reddito non nella forma di leva del consumo ma come ricchezza improduttiva, molto concentrata nelle classi alte […]» . Si tratta di una ipotesi, che fa leva su un altro elemento non trascurabile. Ed ossia, che a partire dalla crisi dei subprime, quel fenomeno di privatizzazione della domanda effettiva, così rilevante nei paesi anglosassoni, fondato su una dinamica di indebitamento di massa, si è incanalato su un sentiero diverso. La domanda di consumo a debito non riesce più a svolgere quella funzione di moltiplicatore della crescita e delle relazioni di scambio internazionale che aveva caratterizzato la fase antecedente alla crisi. Tutto ciò avviene in un contesto in cui, però, il capitale finanziario, continua a svolgere il suo ruolo di comando nella logica di accumulazione capitalistica. Tornando alla privazione nichilista da parte del capitale della relazione sociale conflittuale, questa ipotesi non ci porta a convergere verso nessuna tesi economicistica del “crollismo” del capitale. Lo abbiamo capito da tempo: il capitale in quanto relazione sociale resta in grado di riprodursi, anche deprimendo violentemente i regimi di sussistenza – che restano vincoli storicamente determinati e non una soglia naturale al di sotto della quale il salario non può scendere. Ciò che rende possibile questa riproduzione «a mezzo di povertà» del sistema capitalistico, è l’intensificazione dei dispositivi autoritari di comando politico e l’accelerazione dei processi di accumulazione originaria in ambiti ancora non pienamente sperimentati.

metropoli

In una intervista rilasciata da Varoufakis , l’economista sostiene che le istituzioni europee hanno operato, sin dall’inizio della crisi, con lo scopo principale di stabilizzare e mettere in sicurezza il sistema finanziario internazionale (banche private e altri operatori finanziari). Questo risultato è stato solo momentaneamente e parzialmente raggiunto a scapito, però, dell’apertura di una nuova fase di instabilità politica dentro la zona euro, come conseguenza di una accelerazione del processo di ri-nazionalizzazione dello spazio europeo che covava sotto la cenere da lungo tempo, e nel contempo, approfondendo i disastri umanitari e l’involuzione democratica prodotti dalla crisi e dalle ricette di politica economica. Per analizzare i processi di ri-nazionalizzazione dello spazio europeo, è utile concentrasi sui cambiamenti del “circuito della moneta” in Europa dentro la crisi, anche come effetto dell’introduzione (a partire dal 2010) dei dispositivi istituzionali per stabilizzare il quadro finanziario europeo. Quello a cui si è assistito – a fronte di un aumento dello stock dei debiti (pubblici e privati), per effetto delle politiche di austerity – è stata una sostanziale ristrutturazione della composizione dei creditori e una relativa ri-nazionalizzazione delle relazioni di credito. Se ci si concentra sulla situazione greca (ma il discorso può essere esteso a molti altri paesi, in particolare della area euro mediterranea), per esempio, ciò che emerge è una trasposizione del rischio dagli investitori istituzionali internazionali (banche e altri operatori finanziari) agli Stati (e alle banche centrali nazionali) dell’Eurozona. Questa tendenza è stata poi amplificata con la più recente politica di quantitative easing (QE) inaugurata dalla Bce ad inizio 2015, che su un altro versante, ha continuato a produrre una dinamica di distribuzione a favore dei rentiers contro i salariati. Dentro questo quadro prende corpo il processo di “verticalizzazione” della governance europea.
La povertà come crisi latente della cooperazione sociale

La temporalità della crisi ci consegna oggi un’immagine nuova di quel processo di impoverimento che avevamo descritto in passato nei termini di un impoverimento del ceto medio e della formazione di una “plebe intellettuale”, per dirla con Luc Boltanski . Siamo, ora, dinanzi ad una “crisi di misura” del lavoro che non riguarda solo la matrice delle diseguaglianze. Essa è anche l’effetto della rottura del patto salariale. Più che la crisi della forma-salario come canale privilegiato per accedere alla cittadinanza sociale, qui è in discussione lo sfondamento stesso del principio di “sussistenza” contenuto nella stessa definizione di salario, secondo la tradizione dell’economia classica e della critica di Marx. La stessa crisi di misura può inoltre esser osservata su un altro versante: la generalizzazione del paradigma dell’attivazione – contenuta per esempio nell’imposizione del workfare – sta conducendo ad un’incredibile proliferazione di “lavori inutili” e altamente improduttivi. Questi mostrano quanto la costrizione monetaria al lavoro, esacerbata dalla crescente miseria delle condizioni materiali, ribadisca del lavoro la sua “misura” meramente politica, quella cioè della sottomissione dell’attività libera. Oggetto del governo della forza lavoro è dunque la “pura attività” sganciata da qualsiasi riferimento certo alla remunerazione (laddove quest’ultima diviene elemento congiunturale, aleatorio e infinitamente procastinato) e al proprio contenuto.

 

Il sindacalismo sociale e il laboratorio delle rotture istituzionali

Le lotte sociali in Grecia e gli esperimenti istituzionali che ne sono conseguiti (nascita di contropoteri diffusi, istituzioni mutualistiche e governo Tsipras) hanno di fatto alimentato questa torsione autoritaria, che si è presentata sulla scena come “pura contro-reazione politica” all’avanzamento di questo esperimento contagioso sul piano europeo. E’ un segnale per la Spagna: gli esperimenti di Podemos e le lotte di sindacalismo sociale come quelle della PAH. Dinanzi a questa contro-reazione delle istituzioni europee, oggi sembrano divaricarsi due opzioni. Una prima insiste, sulle rotture istituzionali della UE e della moneta unica, portandosi dietro un vecchio armamentario e un orizzonte teorico neo-sovranista, di ritorno allo spazio nazionale, comprese le monete locali, come terreno privilegiato per la ripresa dei rapporti di forza. Come se questo terreno non fosse già occupato dalle destre radicali, comprese lo stesso ordoliberismo tedesco che recupera la dimensione nazionale, nei termini in cui lo abbiamo accennato. Altri, tra cui inscriviamo anche la ricerca del collettivo Euronomade, hanno sempre pensato alle rotture istituzionali europee come ad un processo articolato, di lungo periodo, che può essere solo il frutto di esperienze di “verticalizzazione politica” che dovranno moltiplicandosi, sostenute dalle pratiche costituenti, di invenzione istituzionale e dalle lotte nei luoghi del lavoro del sindacalismo sociale. E’ dentro questo quadro che vogliamo provare ad affinare la riflessione sul sindacalismo sociale, gli spazi delle coalizioni, compresi gli esperimenti di “rotture istituzionali” politica. Si tratta di comprendere in che modo possono procedere in Europa le esperienze di sindacalismo sociale, su cui abbiamo iniziato a riflettere già a partire dalla precedente esperienza della suola estiva (Passignano 2014)

E’ necessario spingere in avanti il terreno di ricerca sulle pratiche di invenzione istituzionali, ponendosi nel contempo la domanda, su come è possibile usare politicamente alcuni ambiti di riforma che potranno svilupparsi negli esperimenti di verticalizzazione politica?
Al contempo è necessario porsi il problema, soprattutto dopo la vicenda greca, della disarticolazione del potere tedesco sulla moneta unica, come terreno di ricerca fondamentale per i movimenti sociali in questa fase e senza che questo tema comporti uno slittamento del discorso politico sui piani classici di ritorno alle monete nazionali.
Si tratta in termini impliciti della necessità di immaginare un sistema monetario per il Comune (su base sovra-nazionale). Capace, cioè, di porsi il problema di come debba consolidarsi l’autonoma della cooperazione sociale. In che modo, cioè, un nuovo sistema monetario potrebbe essere in grado di sostenere una spesa pubblica capace di assicurare diritti assoluti di cittadinanza, come interi campi della sussistenza e della riproduzione sociale indipendenti da qualsiasi razionalità di mercato.

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