Pubblichiamo alcuni materiali di orientamento per le discussioni nei workshop della scuola estiva 2015.  Sono frutto di elaborazione collettiva: ovviamente, si limitano a indicare quali ci sembrano essere le domande più urgenti e rilevanti (il post è in aggiornamento, in arrivo altri materiali su formazione, scuola, università e su comunicazione, tv, tecnopolitica)

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Sindacalismo sociale: domande aperte.

L’offensiva portata avanti dal Governo Renzi è anzitutto un attacco senza precedenti al salario, al diritto di coalizione e al diritto di sciopero. Metter bene a fuoco i nodi fondamentali dell’attacco è utile per trovare la bussola dentro la fase politica e culturale che stanno attraversando i movimenti sociali in Italia. Il Jobs Act, ovvero la quinta riforma del mercato del lavoro realizzata in Italia negli ultimi quattro anni, ha fatto emergere gli obiettivi dell’offensiva neoliberale in corso in Europa. Nella crisi di rappresentanza delle grandi organizzazioni sindacali confederali, ormai inoffensive e trasformate in burocrazie di servizio, nuove ed indipendenti forme di sindacalismo sociale stanno producendo un cambio di paradigma dentro e oltre i movimenti sociali in Italia.

L’impossibilità di ricomporre la frammentazione sociale e del lavoro a partire da una categoria centrale ed egemone è la base condivisa da cui ha preso forma, con il primo Sciopero Sociale del 14 novembre 2014, una coalizione inedita tra studenti, precari, lavoratori autonomi, disoccupati. Questa assieme ad altre esperienze embrionali di sindacalismo e coalizioni sociali ci pare abbia aperto uno spazio di sperimentazione che punta alla ricostruzione di rapporti di forza dentro e fuori il luogo di lavoro, una ricerca politica improntata allo sviluppo di nuove forme organizzative con un’attitudine maggioritaria e trasversale socialmente in grado di ricomporre le soggettività frammentate dai processi di precarizzazione in Italia e in Europa.

È precisamente a partire dal problema della ricostruzione di forza negoziale e di potere nella crisi che vorremmo aprire la discussione. In particolare, occorre interrogare il modo in cui le proposte che hanno caratterizzato il discorso programmatico dei movimenti (welfare universale, salario minimo, reddito di base) vengano, da un lato, ridefinite nel nuovo contesto mutato dagli anni della crisi e, dall’altro, possano porsi come istanze di collegamento di un agire politico multilivello (locale, nazionale, europeo).

Proponiamo alcuni punti e domande aperte alla discussione.

Gli effetti delle politiche di austerità e le modificazioni delle norme di funzionamento del mercato del lavoro stanno radicalizzando la «crisi di misura del lavoro». Da un lato, questa crisi è dimostrata dall’incredibile diffusione del lavoro gratuito o sottopagato il quale fa venire meno la stessa idea che la retribuzione debba garantire livelli minimi di sussistenza, dall’altro l’altrettanta significativa diffusione di lavori inutili, che sembra abbiano l’unico senso di confermare la norma del lavoro salariato. Di fronte a questo scenario, in che modo le rivendicazioni salariali così come quella del reddito di base intervengono su questa crisi, ponendo la necessità di istituire, dal basso, nuove misure della cooperazione sociale?

Come la rivendicazione di salario e reddito di base contrasta, non solo con i dispositivi del workfare, ma si confronta con la crisi occupazionale e con la diffusione del lavoro autonomo di nuova generazione?

Abbiamo più volte sottolineato che assieme alle esperienze di nuova organizzazione del lavoro, il sindacalismo sociale si compone di prototipi di inedite forme di mutualismo, autogestione e nuova istituzionalità. In che modo queste esperienze, nel mentre registrano e reagiscono alla pesante compressione dei livelli di benessere, alludono ad una forma autonoma della riproduzione sociale?

In che modo esse alludono ad una «riconversione della spesa sociale» questa volta alternativa alla logica binaria del pubblico e del privato? Com’è possibile esercitare potere su questa riconversione e in quale direzione occorre spingere affinché esse puntino ad un rafforzamento e ad un’estensione della cooperazione sociale autonoma?

Quali istituti di lotta sono in grado di animare, e rendere efficaci, delle pretese programmatiche?

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Diritto alla città: chi decide e su che cosa?

La decisione è un meccanismo fondamentale nell’esercizio della gestione e amministrazione della società; un ambito che, evidentemente, è all’ordine del giorno per i difficili equilibri della convivenza, della produzione e riproduzione, della gestione dei servizi, della garanzia dei diritti. Questo a partire dalle metropoli fino ad arrivare a territori meno densamente abitati.

Tale processo è stato trasformato in concomitanza con la rottura del paradigma della rappresentanza politica, nella formula del dopoguerra, e l’affermazione della formula della delega, strutturata a partire dagli anni ’90. Questa trasformazione ha progressivamente sottratto potere decisionale da ambiti di discussione larghi, partecipati e massivi per verticalizzarlo in maniera mortifera o meglio ad immagine e somiglianza del comando capitalista.

Del resto questo processo coincide con l’imposizione di modelli di sfruttamento economico e sottrazione delle risorse collettive a disposizione delle comunità, costruendo momenti di eccezione  perenne. Del resto, e non a caso, le riforme istituzionali, i continui tagli e i vincoli di bilancio imposti ai comuni non fanno che immobilizzare i cosiddetti enti di prossimità, istituzioni politiche ipotizzate e vissute come accessibili, per spostare sempre più in alto i luoghi e gli ambiti della decisione, portandola a livelli inaccessibili, rappresentati negli ultimi anni dalla governance europea.

Non a caso i movimenti territoriali e in difesa dei beni comuni si ritrovano sinergicamente e intuitivamente a condividere discussioni e ragionamenti in cui si ritrovano meccanismi e modelli riproducibili in ambiti assolutamente distanti, come può essere un piccolo comune, una costa di mare, una montagna o i servizi di una grande metropoli. In tal senso, occorre superare la statica dicotomia tra urbano e non urbano, e indagare invece i processi di urbanizzazione che investono gli spazi cittadini così come gli ambiti territoriali. L’urbanizzazione, attraverso una logica essenzialmente estrattiva, è vettore che investe sia le città che i territori, rendendo del tutto sfumati i confini che separano accumulazione per sfruttamento e accumulazione per spoliazione. Come osservano Federico Rahola e Massimiliano Gureschi: ‘Il problema resta però ancorato a una polarizzazione e a un confine, quello tra urbano e non-urbano, che continua a riprodursi meccanicamente quasi fosse scontato, riflettendosi in un’accentuata separazione di logiche di valorizzazione e accumulazione, tra dispossession e sfruttamento, produzione di surplus e suo assorbimento, che oggi appaiono invece inevitabilmente sovrapposte.’

I meccanismi di espropriazione e creazione di profitto sono sovrapponibili ma, soprattutto, c’è il livello della decisione su gli ambiti collettivi, e quindi di interesse per l’intera comunità, che coincidono perfettamente. Pensare alla devastazione di un territorio e quindi della sua prospettiva nel futuro e di quotidianità coincide con la sottrazione di un servizio e la sua messa sul mercato. Questo perché, al di la della contrapposizione che genera la produzione di profitto privato a scapito della ricchezza collettiva, pone immediatamente l’esclusione dalla decisione e quindi dalla possibilità di incidere sul proprio futuro. Si chiude con la democrazia formale per aprire ambiti decisionale dal sapore autoritario; chiaramente non quelli con il fez sulla testa, ma con il silenzio irreale dei conti bancari.

A partire da queste intuizioni molto spesso i movimenti e le realtà che animano da anni quelle battaglie si interrogano e si bloccano nella difficoltà di trovare una formula organizzativa ma, probabilmente, ancor prima sulla difficoltà di mettere in condivisione un ragionamento su quale sia la possibile alternativa a questo modello decisionale, a quale snodo alternativo tra verticale e orizzontale e, di conseguenza, a quale modello alternativo fare appello per superare una forma esclusivamente di resistenza.

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Come occupare le reti sociali: anonimi e virali

Mattina – “Pars destruens” –  Narrazione e autocritica delle esperienze partecipanti al workshop sul tema della comunicazione politica e sociale

– Analisi delle sperimentazioni comunicative già prodotte da parte di gruppi e singoli partecipanti al laboratorio

– Messa a critica complessiva delle mancanze e degli errori individuabili nelle modalità comunicative degli ambienti di movimento in Italia

– Analisi dei meccanismi comunicativi efficaci per la viralizzazione dei contenuti all’interno delle reti sociali, ciò in funzione della costruzione di un metodo in grado di utilizzare gli stessi nell’ambito della comunicazione politica

Pomeriggio – “Pars costruens” – Elaborazione di strategie comunicative su temi al centro del dibattito attuale

– Discussione attorno ai meccanismi comunicativi in grado di incidere sul livello cittadino/metropolitano, tenendo conto degli elementi di identificazione operanti nelle differenti specificità territoriali, ai fini di contendere l’egemonia nella costruzione di senso.

– Discussione attorno ai meccanismi comunicativi in grado di incidere a livello nazionale/europeo, mettendo al centro del dibattito temi centrali nell’odierna opinione pubblica quali i fenomeni migratori. Il tentativo è quello di esplicitare i legami tra “le migrazioni” ed altri fenomeni, con particolare riferimento alla condizione giovanile, al mondo della formazione e quello del lavoro;

Quali elementi delle odierne forme di vita evocano più efficacemente meccanismi di identificazione intorno alla figura del “migrante”? In che modo si possono dunque produrre delle maschere che siano in grado di incidere sulla percezione del fenomeno migratorio e cambiarne il segno?

vedi anche:

 Exploit (Pisa), Su le maschere!

 

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