di TIZIANA TERRANOVA.

Introduzione tavola rotonda 12.9.2015

(Raul Sanchez-Cedillo; Roberta Pompili; Benedetto Vecchi; Alessandro Gagliardo (Malastrada))

Durante la giornata dedicata ai temi sulla comunicazione della scuola estiva 2015 di euronomade è stato un ‘nuovo’ focus sulla televisione,  che si è espresso anche nella centralità di due interventi ‘esterni’ alla rete uninomade quali quelli di Juan Carlos Monederos (fino a poco tempo fa un esponente centrale di Podemos, il partito radicale spagnolo che ha fatto della comunicazione politica televisiva una componente fondamentale della sua strategia elettorale) e Carlo Freccero (ex direttore di Italia 1, Rai 2, Rai 4 e attuale membro della commissione vigilanza della RAI, una figura importante del panorama televisivo italiano, che ha attraversato negli anni in modo geniale, innovativo e dissacrante).

Come Uninomade prima, Euronomade ha sempre preferito parlare di ‘reti’ piuttosto che comunicazione o anche meno di ‘televisione’, di cui praticamente non ci si è quasi mai occupati. Di questo Carlo Freccero aveva accusato la sinistra nel suo intervento scritto per e pubblicato sul sito nei giorni precedenti alla scuola estiva di settembre 2015 (https://www.euronomade.info/?p=4981). La sinistra non si occupa di comunicazione o televisione, ci ha rimproverato, mentre la destra se ne è sempre occupata in maniera anche prioritaria riuscendo in pochi decenni in una notevole operazione di ribaltazione di senso comune (per esempio sdoganando i fascisti e demonizzando il comunimso). Purtuttavia, Freccero non considera la grande attenzione che da anni la sinistra (italiana e no) ha accordato alla rete, un campo di studi che l’esperienza delle università nomadi in Italia ha più volte focalizzato. Non ci sentiamo dunque di forzare il discorso quando durante la giornata dedicata alla comunicazione, si è scelto di vedere, come ci sembra sempre più evidente, la televisione come una rete tra le reti – sebbene una rete, come insistono Podemos e Freccero, fra le altre, riconfigurata in una cultura convergente.

La rete è una figura più affine alla tradizione operaista e postoperaista per i suoi richiami da un lato al mondo della produzione e della tecnologia dove si presta bene a una rilettura del general intellect marxiano, ma anche come figura di una organizzazione adatta ad una composizione politica del lavoro vivo sempre più moltitudinaria e precaria. Lo sciopero sociale di quest’ultimo anno si è dunque costituito come rete e si è organizzato nella rete Internet anche attraverso una vivace e competente campagna di comunicazione sui social media (http://scioperosociale.it/). La centralità del topos della rete nel definire i cambiamenti del sistema produttivo ha tuttavia dominato il livello dell’analisi. Questo è dovuto senz’altro allo straordinario ruolo giocato dalle teletecnologie informatiche nel riorganizzare la forma della produzione, e dunque anche dello sfruttamento, aprendo anche delle domande importanti sulla riorganizzazione della resistenza del lavoro – ma anche sulla quasi irriconoscibilità delle nuove forme di lavoro vivo nel capitalismo contemporaneo.

Come figura delle produzione dunque la rete ha almeno tre modi di operare, inestricabilmente collegati nella riconfigurazione della macchina del capitale, a cui corrispondono tre forme della ‘macchina interna’ per eccellenza della rete in quanto tecnologia di produzione (cioè l’algoritmo)

In primo luogo, la rete ci dà il nuovo modus operandi della catena di montaggio. La rete organizza il lavoro nella sua globalità ponendo i singoli ‘luoghi di lavoro’ (fabbriche, strade e uffici) come nodi di un sistema più globale. Gli algoritmi, i protocolli e le piattaforme battono il nuovo tempo di lavoro, definito da Franco Berardi come ‘ciber-tempo’ – una velocità schiacciante per gli umani. La rete traduce i tempi veloci delle scelte di consumo informatizzate nei tempi della produzione1. Ci ha dato i ritmi impossibili delle nuove fabbriche come la Foxconn (che produce i dispositivi della Apple fra gli altri) o aziende come Amazon in cui la produttività del singolo lavoratore nel settore è definita come la sua capacità di lavorare ai tempi dei click digitali di acquisto è arrivata al parossismo2. La velocità algoritmica che si dispiega attraverso le varie piattaforme e protocolli che governano la rete è la modalità di estensione massima di quello che il lessico marxiano chiama ‘plusvalore assoluto’. Ha esteso la giornata lavorativa e i ritmi della produzione a livelli incompatibili con la sopravvivenza stessa della vita umana. I suicidi tra i lavoratori di Foxconn e di France Telecom, fra gli altri, ci parlano di una incompatibilità tra i tempi del lavoro umano e quelli dell’algoritmo (post)industriale. E’ una ‘accelerazione maligna’ quella di cui parliamo a questo livello. Il lavoro morto cristallizzato nelle macchine uccide il lavoro vivo incarnato nei corpi, lo fa ammalare e lo spinge all’auto-immolazione. Le aziende in cui l’algoritmo industriale è stato implementato sono caratterizzate da altissimi turnover, nella misura in cui le capacità lavorative del singolo sono esaurite velocemente dal ritmo della macchina, il cui limite è la dispersione meccanica del lavoro nelle forme del crowdsourcing implementato da piattaforme quali Amazon Turk o Task Rabbit.

Al limite il lavoro è frammentato in micro-compiti pagati in micro-somme da lavoratori che non solo non risiedono nello stesso luogo ma non sanno nemmeno dove siano gli ‘altri’. Non a caso, come ha documentato Trebor Scholz, si tratta in preponderanza di un lavoro fatto da donne che spesso portano avanti allo stesso tempo il tradizionale lavoro di cura tra le mura domestiche3).  Aziende come Google e Amazon implementano una opacità assoluta della propria organizzazione interna sotto il miminalismo grafico dei propri logos o nella velocità delle consegne attivate da un click di mouse o  colpi di polpastrelli e indici. La rete qui, governata dall’algoritmo industriale è una tecnologia produttiva che sembra realizzare la legge marxiana sulla caduta del saggio di profitto. La velocità insostenibile dello sfruttamento macchinico dove il costo del lavoro tende allo zero, dettata dal flusso di informazioni in tempo reale, richiede un processo estensivo di robotizzazione. Non è un lavoro ‘umano’ quello che la rete governata dall’algoritmo industriale ci propone, ma un lavoro meglio fatto da robot – sia logici che metallici o di plastica.

In una provocazione lanciata in un recente articolo su Amazon, Benedetto Vecchi ha scritto che forse è davvero impossibile sindacalizzare questi luoghi di lavoro, per l’estrema precarietà e dispersione che li caratterizza, dove tutte le funzioni di coordinazione sono state trasferite all’algoritmo. La riorganizzazione della relazione capitale-lavoro sul terreno della rete, vista attraverso le lenti della trasformazione del lavoro salariato o dipendente, è il segno di uno scacco matto del capitale rispetto al sindacalismo fordista. Il lavoratore e la lavoratrice sono sempre più soli nell’affrontare una macchina coordinata e organizzata proprio per riaccentrare le forme del comando4).

E pur tuttavia è possibile obiettare a questa analisi della rete come forma della nuova organizzazione della produzione che è ancora troppo dipendente da un modello ‘lavorista’ dell’economia. L’algoritmo industriale, la cui genealogia è stata utilmente ricostruita da Matteo Pasquinelli nella sua riscoperta del lavoro di Romano Alquati sull’Olivetti, non è il solo algoritmo o il solo modo attraverso cui la rete come figura produttiva lavora5. Oltre all’algoritmo industriale, che traduce il sapere della fabbrica fordista, abbiamo anche la pervasività di un altro modo dell’algoritmo, che potremmo chiamare ‘biopolitico’ – quello che gestisce le piattaforme di social networks e che attraversa l’intera società.

Non possiamo cioè non fare i conti con il dato che più il lavoro è frammentato più la società è connessa. Le reti sociali sono frequentate quotidianamente da molte centinaia di milioni di persone e certamente nello spazio europea abbiamo a che fare con una società iperconnessa. Che si lavori esplicitamente o no, si è connessi continuamente in rete producendo valore. Postare commenti, foto, video e musica, cliccare ‘mi piace’ e ‘condividi’, ‘aggiungere agli amici’ e ‘seguire’, chattare sono attività in cui una gran parte della popolazione europea è continuamente impegnata. Le reti sociali includono il mondo del lavoro senza esserne limitate. Frustrazione, indignazione, scontento, la condivisione del malessere legato alle condizioni di lavoro sono espresse in rete insieme alle più quotidiane e intime espressioni di gioia e dolore. Le nostre attività, ormai è risaputo, producono valore economico per i padroni degli algoritmi biopolitici attraverso il commercio di dati, il marketing e la vendita online. In rete siamo erogatori di lavoro gratuito e volontario, i cui prodotti (i nostri dati personali) sono oggetto di profitto, oltre a guidare i ritmi del lavoro altrui.

Come la P2P foundation, tra gli altri, ha sostenuto le attuali reti sociali che iper-connettono la società si presentano in una forma proprietaria che è incompatibile con la loro centralità strategica nella produzione di cultura, società e economia che essi generano. Quando ci si riferisca a una piattaforma privata e proprietaria come Facebook che è diventata in breve tempo il social network per eccellenza a cui si connettono quasi un miliardo di persone al giorno, si usa sempre di più il termine ‘netarchici’ per descrivere il carattere neo-feudale di queste nuove forme di sovranità proprietaria. Il mercato, ha sostenuto recentemente Immamur Kapur, a un incontro dell’hedge fund del precariato, Robin Hood Asset Management (http://www.robinhoodcoop.org/) a Londra,  nel contesto dei social networks produce monopoli globali che sono intollerabili. Il regime di proprietà delle reti sociali non può essere né pubblico né privato se vogliamo che esse funzionino come vere tecnologie di distribuzione e coordinazione della produzione sociale. Come i recenti scandali sulla sorveglianza della NSA hanno rivelato, la proprietà ‘privata’ dei social networks si piega a un uso ‘statale’ e ‘imperiale” della sorveglianza totalitario e antidemocratico. I social networks chiedono una forma di proprietà di tipo nuovo, né pubblica né privato e hanno prodotto una convergenza del pensiero critico sulla rete verso i concetti (non sinonimi) di ‘bene comune’ e ‘comune’.

L’algoritmo biopolitico delle piattaforme di social networking è l’altra faccia della produzione algoritmica, quella che indirizza non verso la robotizzazione, ma verso la centralità della cooperazione sociale. Nella sua forma proprietaria privata, essa al momento serve a catturare le quantità sociali (i ‘mi piace’, le ‘condivisioni’, ‘visualizzazioni’ e ‘clicks’) e trasformarle in valore di scambio, ma in una maniera che non ci riporta alla genealogia della fabbrica, ma alle scienze sociali del primo novecento e la loro preoccupazione con ‘le proprietà psicologiche delle popolazioni’, con il tema del ‘pubblico’ (opinione pubblica) come superficie da manipolare per modificare i comportamenti della popolazione, con la sua idea di società costruita a partire dalla figura minima dei due nodi connessi da una linea (il sociale come rete di ‘soci’, cioè ‘amici’ o ‘seguaci),
Nella stessa relazione, Kapur ha anche sostenuto che la vittoria del modello di proprietà privata dei social networks non è stata affatto dettata dalla maggiore efficienza del mercato nel gestire queste piattaforme, ma è stata il risultato di veri e propri ‘sussidi di mercato’, cioè delle scelte di operatori finanziari di investire una larga quantità di capitale definito ‘bruciabile’ nelle giovanissime aziende che si sono mosse per prime. Il capitale finanziario che opera in una modalità economica ben lontana di quella che impone al lavoro, cioè una economia dell’abbondanza di stampo quasi-battailliano, ha deciso di investire persino di bruciare il suo surplus nel progetto politico di ricondurre Internet a un modello di mercato, perchè, come sostenuto da Christian Marazzi, essa prima di tutto investe nella cattura del plusvalore sociale. Quale altre tipologia di impresa pubblica o privata gode di tali livelli di fiducia degli investitori, di tale tolleranza per le perdite? In questo modo, attraverso delle scelte di finanziamento politiche, il modello proprietario ha battuto (per ora) il modello p2p dove la proprietà e la governance sono distribuite. Il capitalismo finanziario cioè ha voluto e creduto fortemente in una economia basata sulla cattura del plusvalore di rete, ha creduto nel valore della comunicazione sociale. Questa scelta di natura fortemente politico-economica è stata basata su una intuizione: che confrontati con la caduta del saggio di profitto permessa dall’algoritmo industriale, la rete prometteva una economia basata su una crescita esponenziale, tendente all’infinito perchè sostenuta dalle forze crescenti del desiderio. In questo senso, dunque, si può parlare di una ‘convenzione internettiana’ dei mercati finanziari e delle reti sociali e dell’economia di rete come avanguardia della rendita di posizione.

Questo ci porta alla terza modalità di funzionamento produttivo, cioè l’algoritmo finanziario e all’idea della finanza come rete sociale, una modalità che non verrà sviluppata qui ma che coinvolge la questione della comunicazione inter-algoritmica’ e del tempo inumano dell’high frequency trading ma anche la topologia della società della finanza come ‘oligopolio colluso’, con le sue differenziazioni e le sue reti di poteri.6)

Dunque sulla forma della rete esiste una riflessione di ‘sinistra’, spesso marxiana, di spessore rilevante. La televisione, invece, ma in generale la dimensione del ‘popolare’ è certamente stata meno frequentata o comunque minore, rispetto per esempio ai cultural studies inglesi espressioni della New Left inglese dagli anni settanta. C’è indubbiamente un pregiudizio pasoliniano al lavoro in Italia. Nella sua famosa intervista frequentemente visualizzata su YouTube, Pasolini ammoniva che la televisione è un medium autoritario, che costruisce una cattedra da cui un discorso unilaterale, prefigurato e senza possibilità di risposta recepita, scaturisce, mentre allo stesso tempo l’estensione e l’eterogeneità del pubblico televisivo impediscono che il proprio discorso sia soggetto alle decodifiche più indesiderate. La televisione è stata il medium meno agito, praticato e sperimentato dai movimenti sociali e politici degli anni sessanta e settanta che invece hanno preferito concentrarsi sulla stampa, la radio, la musica e anche il video – con la notevole eccezione di Mauro Rostagno in Sicilia, il cui modello radicale di televisione locale letteralmente irreperibile su Internet, andrebbe riscoperto e valorizzato come il collettivo Malastrada (http://malastradafilm.com/), presente alla giornata sulla comunicazione, sta cominciando a fare. Bisogna dunque riaprire gli archivi della sperimentazione con i linguaggi televisivi in Italia da parte di forze radicali. Il problema della televisione è fondamentalmente stato anche il problema dei costi di produzione e dell’accesso alla ‘rete’ televisiva, cioè un problema di finanziamenti e di distribuzione. Il coraggioso mediattivismo televisivo del movimento delle telestreet in genere non è riuscito ad impattare su questo livello.

Ma la televisione è cambiata e quindi è importante aggiornare anche il modo in cui si parla e ci si approccia alla televisione da ‘sinistra’. La televisione ci appare oggi rete tra le reti, ma una rete centrale e importante, nella misura in cui, come Pablo Iglesias ha scritto, ancora è capace di formare il discorso politico7). La televisione è il medium egemone della produzione culturale e ciò che ha prodotto in questi anni è quello che l’inglese Mark Fisher ha chiamato il ‘realismo capitalista’8. Il suo è stato un discorso dell’unico mondo possibile, quello neoliberale dell’impresa e della concorrenza, capace di ‘inclusione differenziale’ dei movimenti sociali, ma in spazi ristrettissimi. Ci sono state poche scarne apparizioni su programmi come Anno Zero di Michele Santoro,  una partecipazione più sostenuta al programma Un Due Tre Stella di Sabrina Guzzanti, ma in generale la capacità di incidere sul discorso pubblico è stata ristrettissima. La televisione è una componente cruciale di produzione del consenso e di soggettività ed è gestita con mano di ferro. Le cronache e i piccoli scandali ci consegnano l’immagine di un ambiente lavorativo in cui regna la paura, in cui la persecuzione dei dissidenti e la loro espulsione è molto ferma. La comunicazione politica della televisione mainstream, dai telegiornali ai talk show, è nel migliore dei casi capace di offrire un ridottissimo ventaglio di narrative e discorsi politici (pensiamo al modo ripetitivo in cui viene raccontata la mafia o la corruzione), nel peggiore sottoposta a severissima censura diretta.

Non si tratta naturalmente di un problema esclusivamente italiano, ma sicuramente internazionale e trasversale nello spazio europeo. Juan Carlos Monederos ci ha raccontato come il successo elettorale di Podemos è stato costruito sfruttando le peculiarità del sistema televisivo spagnolo dove la proprietà straniera dei canali televisivi è dominante, oltre a mobilitare gli interessi degli sponsor pubblicitari nel catturare un segmento di audience interessato alle prospettive di Podemos. La loro strategia è stata usare la forza dei numeri del pubblico televisivo costruito da Pablo Iglesias sulla rete in una riapproprazione mimetica del formato del talk show. Podemos ha chiesto a Iglesias di diventare il volto e la voce del movimento, frequentando gli spazi dei talk show di estrema destra e usandone anche le tattiche provocatorie per rompere il consenso della comunicazione politica con un discorso che desse espressione politica al movimento orizzontale del 15M. In questo modo, hanno cercato di catturare opinione e introdurre nuovi ritornelli o parole d’ordine. Non si tratta di una strategia da sottovalutare, perché sono i ritornelli che costruiscono quei ‘territori esistenziali’ e ‘universi di valore’ in cui la produzione economica si rivela inseparabile dalla produzione di soggettività. La produzione sociale è un milieu di transindividuazione saturo di affetti e affezioni (nel senso spinoziano del termine) ma anche di appetiti e percezioni (come nella monadologia di Leibniz e Tarde). Iglesias-Isacco quindi è stato in un certo senso sacrificato alla strategia elettorale di Podemos-Giacobbe trasformandosi in un personaggio televisivo – cioè in bersaglio o target dell’opposizione ma anche in punto di identificazione. Raul Sanchez-Cedillo ci ha parlato della difficoltà e dei limiti della viseità ‘cristica’ di Iglesias nella costruzione di un ‘leninismo amabile’ a cui però è preclusa la possibilità di esprimere rabbia a prezzo di una caduta di popolarità.

La perplessità più grande che l’esperienza televisiva di Podemos suscita però riguarda proprio quel meccanismo di costruzione di maggioranza omogenea, della ‘gente’, che è prerogativa della televisione, quella affermazione della ripetizione sulla differenza di cui parla Freccero nel suo saggio. Monederos ha insistito sui due vettori dell’azione di Podemos: irruzione nella televisione mainstream, verticalizzazione dell’organizzazione; ma anche costituzione ‘tattica’ di una forma partito che si vuole radicata nei movimenti, in una organizzazione orizzontale della governance. Nella sua risposta a Monederos, Toni Negri ha insistito sulla necessità di radicare l’azione politica nelle lotte sociali – nel mondo variegato delle lotte ambientali, del lavoro, della precarietà. La dimensione della ‘gente’ oltre a rappresentare una maggioranza omogenea, tuttavia, coglie anche un lato della lotta che non è tanto sociale, quanto tristemente individuale. La ‘gente’ lotta in quanto maggioranza non insieme ma da sola: da soli contro il padrone di casa, il padrone, l’ufficio delle tasse, la banca, il direttore del dipartimento o il dirigente. Per poter funzionare, una nuova forma partito che non sia basata nell’autonomia del politico deve anche essere capace di attraversare questa solitudine delle lotte individuali del quotidiano, di dare senso e costruire possibilità di aggregazione nella dispersione della ‘gente comune’. La lotta quindi non si fa solo sui luoghi di lavoro, ma anche nell’immaginario, nella relazione con sé stessi e con gli altri. Diciamo gli ‘altri’ per prendere le distanze ancora una volta da Lacan: non l’altro, ma gli altri, nella misura in cui nell’altro c’è sempre una moltitudine.

Come abbiamo insistito con Roberta Pompili nel saggio pubblicato su euronomade: se la strutturazione tecnica dei nuovi media si basa sulla forma del database, dall’altro lato le storie, la narrativa, la biografizzazione sono sempre più importanti9). Come abbiamo scritto nell’articolo, ‘Il rapporto corpo a corpo che si instaura con i personaggi televisivi viene molto bene descritto dall’antropologa Abu-Lughod che ha raccontato come in questa complessa relazione emotiva, il soggetti mediatizzati tendano ad identificazione con situazioni comuni, narrando la propria esistenza ugualmente come una storia melodrammatica.Se la capacità di comprendere ragionamenti astratti è declinata attraverso quei processi di de-alfabetizzazione a cui le varie riforme della scuola e dell’università hanno attivamente contribuito, la capacità di recepire e raccontare storie è aumentata’. Forse è proprio raccontando storie che si può tornare anche a pensare astrattamente a inventare nuovi ritornelli esistenziali. La televisione è, estendendo l’analisi foucauldiana del pubblico, una interfaccia di governo, che agisce sulle idee, le emozioni, le identificazioni. Al momento, il gioco si è affermato nel palinsensto televisivo mainstream come il format neoliberale più popolare e capace di innescare trasformazioni della soggettività racchiudendo le storie in un meccanismo soggettivante. Il reality o il talent show ci propongono una insistente mobilitazione del principio della competizione – sono una pedagogia della competizione come modello che domina sulla concorrenza. Dal Grande Fratello e X Factor a Master Chef e Hell’s Kitchen, ci insegna a praticare competitivamente la cooperazione, a sottomettere quest’ultima al principio che alla fine vince solo uno. Il candidato di punta delle prossime elezioni americane è Donald Trump magnate e personaggio televisivo, il boss che nel reality The Apprentice (ripreso in Italia da Flavio Briatore)  gli aspiranti impiegati devono amare e corteggiare, ai cui abusi devono sottoporsi senza reagire. La competizione, dicevano i teorici neoliberali, è quel modello di funzionamento della società che richiede il minimo rapporto sociale, definisce il funzionamento di una società hobbesiana di lupi. Come dice Ferrero, la sinistra si è trovata a combattere con mani nude questi carrarmati della televisione, del computer, della digitalizzazione.

Uno dei temi ribaditi con fermezza durante la giornata della comunicazione, specialmente da Roberta Pompili che ha citato gli studi femministi sulla televisione, l’antropologia culturale e i cultural studies, è la necessità di un confronto teorico e pratico serio con la dimensione degli affetti, delle emozioni, delle identificazioni. Malastrada e Macao ci hanno parlato di talent show e falsi comizi post-elettorali fatti in piazza, di detournment dei format televisivi e della familiarità dei pubblici con le telecamere. Il talent show locale (http://www.landcho.eu/work/fuckinggoodtalent/) di Landscape Choreography  ha portato nei quartieri popolari di Milano un format televisivo professionale e di piazza che implementa i valori della cooperazione: una competizione tra squadre per chi produce il progetto per il quartiere che meglio incarna i valori della solidarietà. La sfida del collettivo di antropologi siciliani Malastrada è stata invece quella di un lavoro anche storico sull’archivio della televisione locale che documenta le trasformazioni della sensibilità, dai funerali degli anni 80 delle vittime di mafia e racket al funerale spettacolo di Vianello, alle incursioni nello spazio parlamentare, all’evento ‘post-elettorale’ organizzato nelle piazze di Paternò. I collettivi Exploit di Pisa e il Social Media Lab di Napoli hanno condiviso la loro esperienza di intervento sui media sociali, le sperimentazioni con la viralità e le maschere, lanciando una iniziativa nazionale sulla costruzione di strategia comunicativa per lo sciopero sociale. Si tratta di pensare contenuti, format, e linguaggi seriali, ma anche contemporaneamente di considerare le nuove condizioni della distribuzione che hanno intaccato il doppio monopolio di pubblico e privato sull’infrastruttura logistica dell’immagine audiovisiva. E’ possibile  sfruttare quella capacità eccessiva di comunicazione insita nelle reti  (YouTube, social networks, whatsapp, streaming, ma anche il circuito delle televisioni locali?) E’ possibile trovare un modo non solo di produrre, ma anche di finanziarsi attraverso la rete? Si tratta di sfruttare il capitale a nostra portata: i media digitali e la rete, ma anche e soprattutto le intelligenze libere, non impaurite e sottomesse come quelle impegnate nella produzione televisiva mainstream. Si può  usare la convergenza e la transmedialità per costruire comunicazione politica e immaginario? Si possono usare i tweet storms, le web series, i video virali, i blog per una contro-offensiva sul piano della comunicazione che nutra le intelligenze piuttosto che sottometterle a opinioni pre-costituite? E’ possibile introdurre un discorso politico socializzato che rompa con l’ora di odio quotidiano trasmesso dai media mainstream su migrazione, lavoro, welfare, reddito? Non imitare la strategia di formattazione dell’opinione che i media mainstream hanno ereditato dai vari Bernays e Lippman, ma una comunicazione che si rifaccia al modello dell’opera aperta Brechtiana evocato da Benedetto Vecchi senza sottovalutare la potenza dell’intuizione di Tarde sulla società come trama di suggestioni, catture, ipnosi, imitazioni e invenzioni? E’ possibile inventare una televisione, e una politica della comunicazione, che non sia solo veicolo di propaganda, ma che esprima intelligenza, emozioni, e affetti rendendo non solo dicibili ma anche comprensibile un altro discorso sulla crisi, un’altra visione di futuro e affetti più gioiosi e vitali?

 


 

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  1. Franco Berardi Bifo ‘Cognitarian Subjectivation’ e-flux, 2010 http://www.e-flux.com/journal/cognitarian-subjectivation/ 

  2. Pun Ngai*, Han Yuchen, Guo Yuhua, Lu Huilin Nella fabbrica globaleVite al lavoro e resistenze operaie nei laboratori della Foxconn. Verona, Ombre Corte, 2015; Jodi Kantor and David Streitfeld ‘Inside Amazon: Wrestling Big Ideas in a Bruising Workplace’. The New York Times 15.8.2015 

  3. Trebor Scholz and Tiziana Terranova Trade unionism, digital labor and the sharing economy. 2014 Euronomade( https://www.euronomade.info/?p=2910 

  4. Benedetto Vecchi ‘Il biopotere scorre su Amazon’ Euronomade, 2015 (https://www.euronomade.info/?p=5552 

  5. Matteo Pasquinelli ‘Capitalismo macchinico e plusvalore di rete: note sull’economia politica della macchina di Turing’ 2011, http://matteopasquinelli.com/capitalismo-macchinico/ 

  6. Inigo Wilkins & Bogdan Dragos ‘Destructive Destruction? An Ecological Study of High Frequency Trading’ Mute Magazine, 2013 (http://www.metamute.org/editorial/articles/destructive-destruction-ecological-study-high-frequency-trading 

  7. Pablo Iglesias ‘Understanding Podemos’ New Left Review 2015 (http://newleftreview.org/II/93/pablo-iglesias-understanding-podemos 

  8.  Mark Fisher Capitalist Realism? Is There No Alternative? Zero Books, 2012 

  9. Roberta Pompili e Tiziana Terranova ‘L’interfaccia televisiva: dalla tele-governance all’autogoverno della comunicazione’ Euronomade, 2015 (https://www.euronomade.info/?p=5138