di TONI NEGRI, GIAN ANDREA FRANCHI.

Il 6 ottobre ci ha lasciati Gaspare De Caro: lo ricordiamo con due interventi di Negri e Franchi.

Gaspare De Caro è morto qualche settimana fa. Alcuni compagni ne hanno scritto qua e là ma il ricordo dell’uomo e della sua opera deve essere grande. Per quelli che lo hanno conosciuto e frequentato, per i movimenti cui è stato appresso. Qui vorrei dire del suo essere politico sovversivo nelle due o tre occasioni che ho avuto di lavorare accanto a lui.
All’inizio fu la comunanza di lavoro nei Quaderni Rossi. Eravamo coetanei, quindi con pochi altri, più vecchi e più maturi della maggioranza dei compagni che partecipavano al lavoro – ma eravamo comunque giovanissimi. Gaspare mi colpì e mi impose fraternamente un metodo di lavoro scientifico, non solo nell’attività politica ma anche nel mio mestiere, allora prevalente, di storico della filosofia. Fu lui che mi insegnò che la resistenza deve essere disegnata e seguita storicamente all’interno dei movimenti del capitale al suo più alto livello di sviluppo. E che non ci sono alternative a questo metodo che ha il pregio di cogliere la soggettività dentro la tendenza dello sviluppo – è solo lì che la lotta di classe operaia può vincere.
Fu in quel periodo che Gaspare elaborò, con Coldagelli, quelle ipotesi di ricerca marxista sulla storia contemporanea, che apparvero nel numero 3 dei Quaderni, e che fornirono a molti di noi un’introduzione ad una metodologia storiografica legata al lavoro politico. La storia della composizione di classe, tecnica e politica, era lì presentata come movimento incessante di strutturazione/distruzione del potere capitalista.
Vi furono altri territori di discorso che di lì si aprirono: come quello sull’impossibilità di considerare la borghesia come concetto di un soggetto, e sulla necessità di vederla invece come mediazione nel rapporto tra capitale e lavoro. Sono concetti essenziali che poi riscoprimmo nelle opere di Thompson e di Roth. E che facemmo vivere nel nostro lavoro: debbo riconoscere che senza lo stimolo di tante conversazioni con Gaspare non sarebbero stati possibili il mio lavoro su Descartes, prodromo di quello più impegnativo su Spinoza. Fu sempre in quel periodo che Gaspare ripubblicò La rivoluzione liberale di Piero Gobetti con un’introduzione che sollevò una feroce discussione all’interno della redazione di Einaudi. Gaspare sosteneva, nella sua introduzione, la tesi che l’apprezzamento gobettiano dell’esperienza dei “consigli di fabbrica” torinesi interpretasse in maniera lineare un’esigenza capitalista di sviluppare l’energia della forza lavoro, in quanto forza lavoro, in quanto lavoro produttivo, nella tendenza dello sviluppo capitalista. Ma quella forza lavoro, quella produttività erano anche spontaneità politica comunista. Si trattava quindi di radicalizzare quell’esperienza, di mantenerne l’intensità del dentro per far esplodere, contro, una lotta sovversiva per il potere operaio.
quaderni_rossi_1962Con Gaspare poi mi ritrovai nell’esperienza di Potop e dell’autonomia organizzata. Fu il periodo nel quale venne completata la traduzione dei Grundrisse marxiani. Gaspare lavorava a stretto contatto con Enzo Grillo che condusse quello straordinario lavoro. Gaspare seguiva politicamente lo sviluppo dell’autonomia organizzata, non solo con enorme interesse politico, ma con la partecipazione alle iniziative autonome. Era allora redattore della Treccani e, in una collezione legata all’Enciclopedia, fece pubblicare ad alcuni compagni una serie di volumi che portavano sulla critica dell’economia politica dal “punto di vista operaio” e sull’esperienze di lotta del proletariato europeo ed americano. L’opera di Keynes lo affascinava, ma contemporaneamente pubblicò Walras, come critica non solo di Keynes ma di ogni sistema dell’economia politica che non si riconoscesse dialettico – aperto, conflittuale, senza alcuna Aufhebung. Vi illustrava la paradossale coincidenza di un modello di socialismo realizzato e di neoliberalismo compiuto. Era un incitamento ad andare al di là della critica dell’economia politica? Ad inventare nuove forme di coesistenza e di solidarietà? Certamente. La logica economica liberista conduceva paradossalmente al socialismo, i due concetti si sovrapponevano: noi volevamo invece il comunismo.
Dopo il disastro della fine degli anni ‘70 quando l’autonomia fu repressa e molti compagni conobbero la sconfitta e il carcere, Gaspare non li abbandonò mai. Ricordo con emozione, quando venne ad incontrare gli esuli a Parigi, cercando così di trovare nell’incontro con noi conforto alla solitudine cui i compagni restati in Italia si erano condannati. Parlammo a lungo, lui era sempre attento e rispettoso per quelle pratiche di lotta che sapeva necessarie allo sconvolgimento della società capitalista e all’invenzione di un  nuovo mondo.
Dopo di allora lo incontrai solo poche volte e molto di corsa. Ma continuavo a leggere il suo lavoro, nel quale si riversava un’enorme capacità di lavoro ed un’estensione di interessi davvero eccezionale. Da un lato gli elegantissimi scritti su Hortus Musicus, dall’altro gli scritti famigliari, e infine quella storia del cinema neorealista italiano che nessuno, davvero, si aspettava e nella quale, invece, ritrovammo il Gaspare delle origini, settario e intelligente, furioso e luminoso. Coerenza e fedeltà ad un progetto rivoluzionario sono state le caratteristiche principali del suo lavoro teorico e politico. Un puro intellettuale impiantato come pochi nella realtà del suo tempo. Grazie, Gaspare, per esserci stato amico.

Toni Negri

Negli anni 2000 l’attività di Gaspare De Caro si concentra nell’impresa della rivista Hortus Musicus e nella pubblicazione di alcuni libri notevoli:
I volumi di racconti L’ascensore al Pincio, 2006 e Residuati bellici, 2008, Quodlibet;
Argentina. Viaggio al “Fin del Mundo” (forse), Colibrì, 2011.
con il figlio Roberto, La Sinistra in guerra, 2007 e Storia senza memoria, 2011, Colibrì.
infine nel 2014, Rifondare gli italiani? Il cinema nel neorealismo, Jaca Book, che fece in tempo a presentare a Milano.
La rivista Hortus Musicus (2001-2005), fondata e diretta dal figlio Roberto – musicista e critico musicale, fondatore della casa editrice musicale Ut Orpheus, oltre che attentissimo critico della cultura –, con l’apporto essenziale di Gaspare, fu un esperimento unico in Italia.  Nata come rivista musicale diviene rapidamente una rivista ad ampio spettro culturale, anzi si può dire a spettro totale. Il titolo «vuole sottolineare polemicamente l’arbitrario destino di isolamento cui quest’arte è storicamente condannata nella cultura italiana. La musica insomma come esempio eminente di una lacerazione del sapere contro la quale Hortus Musicus intende reagire. Essenziale ispirazione della rivista è infatti di mettere criticamente in evidenza, al di là di ogni artificiosa separazione disciplinare, i nessi e gli intrecci sottesi alla produzione intellettuale del passato e del presente, di promuovere una ricerca dichiaratamente eretica rispetto agli usi accademici prevalenti, secondo una prospettiva di indagine programmaticamente la più ampia possibile. Di questa ricerca, che si richiama volentieri alle intenzioni e alle esperienze delle avanguardie storiche, è parte criticamente integrante il ricco apparato iconografico».
L’impostazione metodologica della rivista si affida a una critica della cultura e della società improntata a un marxismo non ideologico, duttile, aperto, ad esempio al pensiero femminista, attento alla complessità e, vorrei dire, alle sfumature in cui nella cultura si annida spesso la presa del potere. Gaspare vi scrive, in ciascuno dei 24 numeri, testi che spaziano dalla cultura italiana del rinascimento alla situazione sociale e politica dell’Argentina, al cinema, alla musica, alla storia italiana, a memorie personali. Molti di questi testi confluiranno poi nei suoi libri. Purtroppo la stessa originalità della rivista, che annovera moltissimi collaboratori, noti e meno noti, la rende uno strumento culturale che fatica ad affermarsi – quindi anche economicamente – per cui dopo cinque anni è costretta a chiudere.

hortus_musicusGaspare allora riprende i suoi testi, li rielabora, li completa e li pubblica in volume, alcuni anche in collaborazione con il figlio. Bell’esempio, questo, di rapporto fra padre e figlio: due generazioni che si scambiano sguardi necessariamente diversi ma complementari, con reciproco arricchimento.
Bisogna ricordare che i libri di Gaspare De Caro, soprattutto quelli che partono da memorie personali – L’ascensore al Pincio e Residuati bellici – sono scritti con una prosa bellissima, che affonda nella migliore tradizione della lingua italiana, una prosa dalla risonanza tradizionale ma nello stesso tempo moderna ed efficace, ironica e acuta, capace di saldare con precisione la dimensione personale con quella storica e sociale.
Ne dò un esempio, tratto da Residuati bellici: «Tra la fine di maggio e i primi di giugno la guerra a sud di Roma ebbe inutili sussulti finali solo per prosciugare le nostre ultime riserve di umanità. Una mattina un carretto assurdamente carico arrancava sulla salita della circonvallazione, penosamente trainato da un vecchi cavallo evidentemente allo stremo; il carrettiere a piedi cercava di aiutarlo con inconsulte parole di incoraggiamento, tirandolo inutilmente per le briglie. Arrivato là dove la salita sostava in omaggio all’entrata dell’ospedale, il cavallo cadde di schianto. Invano con strattoni e urla il carrettiere cercò di rialzarlo, anzi i suoi strepiti precipitarono l’epilogo. Non credo che il cavallo fosse morto. Quando dai palazzi vicini, quasi fossero già lì in attesa, uscirono in folla donne, uomini, ragazzi. Come impazziti, contrastati senza speranza dal carrettiere, si precipitarono sul cavallo, ognuno con un coltello e un recipiente per riportare a casa la sua libbra di carne».
Un testo molto interessante e originalissimo è Il viaggio al “fin del mundo” sull’Argentina, paese in cui Gaspare fece lunghi soggiorni. È il racconto di lunghi, intensi e minuziosi viaggi in cui, con grande acutezza, analizza il passato remoto e recente (la dittatura militare) ed il presente di quel paese, nei suoi vari aspetti, unendo la competenza della storico, quale Gaspare era, a quella dello studioso di economia (si ricordino gli studi su Walras), alla vasta cultura letteraria e all’acribia del militante avvezzo alla frequentazione dell’officina marxiana.
Un vero e proprio libro di militanza è La sinistra in guerra del 2007, scritto con Roberto, che analizza la trasmutazione genetica della Sinistra «a partire dall’intervento militare italiano nella prima guerra del Golfo e dall’innovativa ermeneutica ad hoc dell’art. 11 della Costituzione, la rimozione dell’ingombrante tabù della guerra fornisce una nuova identità alla Sinistra, completando la trasformazione del fattore K in ruota di scorta della Western Civilization».
Storia senza memoria del 2011, anche questo scritto con Roberto, analizza, con le consuete acutezza ed ironia, la «latitanza storiografica per omissione, riduzione o capziosità giustificativa” di molta parte della storiografia italiana di sinistra», ribadendo «la storica inadeguatezza dell’intellighenzia italiana, anche nelle espressioni migliori, a dare testimonianza autentica dei drammi della società».
Infine, l’ultima fatica di Gaspare, già avvolto nelle spirali patologiche, Rifondare gli italiani, in cui il cinema detto ‘neorealista’ è letto come un fenomeno culturale nient’affatto unitario. «In gran parte esso si accreditò di una sostanziale conformità con gli schemi e i miti ideologici della Ricostruzione: fu ‘un cinema al servizio dello Stato’». Tuttavia, vi fu una importante contraddizione interna nei confronti di questo atteggiamento conformista: «molte alte pagine di Rossellini e i film di De Sica sui drammi sociali della Ricostruzione cercarono di guardare davvero a fondo nella tragedia in atto, per cambiare qualcosa nell’identità collettiva». Ma a questo filone critico «fu riservato lo stesso destino correttivo di ogni altra anomalia e discontinuità della rifondazione civica: fu santificato e rimosso».
Ricordiamo quindi con affetto e dolore una figura molto significativa della cultura radicale del nostro paese, attore sempre discreto ma sempre importante in momenti e fasi decisive dal dopoguerra ad oggi: dal sorgere del più  significativo filone di critica pratica marxista, nei Quaderni Rossi, fino al desolante periodo dell’ultimo trentennio, instancabile nell’analizzare, narrare, portare al pensiero le dinamiche profonde della cultura, non solo italiana ed europea, come mostrano i suoi lavori sull’Argentina.

Gian Andrea Franchi

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