imagesREPORT DEL TAVOLO METROPOLI di PASSIGNANO – a cura di MARCO ASSENNATO

0. Del metodo.

Impossibile trarre conclusioni univoche dai due pomeriggi di discussione del “tavolo sulla metropoli” del seminario di Passignano. E ciò dipende dal metodo che abbiamo scelto: orizzontale e cooperativo piuttosto che verticale e pedagogico; come anche dalla friabilità stessa dell’oggetto della discussione: la metropoli, “enigma della moltitudine”, insieme complesso che si dissolve e si ricombina di continuo. Eppure qualche traccia di ricerca futura, di quelle difficili da percorrere e impossibili da chiudere in un qualche slogan, emerge. Vediamo di riannodare alcuni di questi fils rouges.

La nostra ricerca riparte dalla questione: cosa significa fare politica oggi? E prova ad articolarla su una doppia scala spaziale: Europa e Metropoli. Ma, è bene chiarirlo subito, non si tratta qui di un macroscopico continentale dal quale discendere nella trama microfisica della metropoli. Al contrario: l’Europa è essa stessa una rete di territori urbani interconnessi, all’interno della quale scorrono flussi globali di ricchezza, di informazioni e cultura, conflitti e forme di vita. Il continente allude direttamente all’urbano e l’urbano condensa linee globali, questa è la nostra cartografia. Perciò individuiamo nello spazio europeo il minimo necessario per immaginare nuove istituzioni del comune ed esprimere il potere costituente dei movimenti sociali.

Abbiamo deciso di affrontare il tema della metropoli su due livelli: per dir così, soggettivo e oggettivo. Il dispositivo metropolitano va letto a partire dalle rivolte urbane che attraversano il pianeta. Come avremmo potuto cominciare altrimenti? Una volta definito lo spazio urbano come fabbrica del cognitariato – spazio disciplinare, certo, ma perciò stesso produttivo, eccedente, moltitudinario – risulta necessario riconoscere le singolarità che questo spazio attraversano, la ricca trama di organizzazione degli incontri che esse implementano, la forma buona del comune già presente e virtualmente in grado di battere in breccia il cattivo comune della massificazione, della finanziarizzazione e della mercificazione urbana. Metropoli, in prima approssimazione, sarà dunque lo spazio delle singolarità cooperanti e differenziali, il quadro topologico all’interno del quale è possibile organizzare la continuità necessaria ai movimenti che si pongono come obiettivo la riappropriazione diretta di capitale fisso e la costruzione di nuove istituzioni del comune. Continuità del movimento, “assemblaggio delle lotte” come ha detto Simona De Simoni: non di unità soggettive o di strettoie organizzative stiamo discutendo, sia chiaro. Ma esattamente dell’opposto: della necessità di liberare le differenze, di rompere le linee identitarie e i diagrammi di cattura del potere metropolitano, di separare composizione tecnica e composizione politica.

 

1. L’enigma della moltitudine.

Dunque, una prima diagnosi è possibile: ci interessa la metropoli dal punto di vista qualitativo, logico-razionale e politico. Essa è insieme spazio del governo finanziario e tuttavia, anche, un arcipelago di singolarità produttive. Non c’è moltitudine senza metropoli. Detto questo, la ricerca deve ripartire. Innanzitutto perché, come ha notato Giairo Daghini, discutere di territori metropolitani significa parlare di qualcosa che si dissolve mentre va costruendosi, perché sottoposto all’aggressione specifica della razionalizzazione capitalistica. Per dire che in fondo la metropoli possiamo afferrarla solo in dissolvenza, come immagine mentale prima che come realtà fisica. Meglio: essa è risultato di un doppio movimento continuo di dissoluzione e reinvenzione. Qui la bella espressione di Daghini, secondo il quale la metropoli è l’enigma della moltitudine, il comune da costruire, acquista tutta la sua pregnanza.

Ora, è piuttosto semplice descrivere i territori perduti della metropoli, restituire cioè la cronaca della dissoluzione di luoghi conosciuti, l’arrogante distruzione di spazi e forme di vita tradizionali, nonché il contrasto tra speculazioni immobiliari e sacche di relazioni e forme comunitarie esistenti nelle mille pieghe urbane. Tutti ne possiamo dare testimonianza. Al contrario, interrogare lo spazio metropolitano dal punto di vista della sua continua reinvenzione ci mette immediatamente di fronte ai limiti della nostra analisi. E non a caso, una buona parte del lavoro del tavolo sulla metropoli è stato dedicato alla necessità di ricostruire un vocabolario utile all’abbisogna, di situarsi all’interno di un apparato concettuale nuovo, come suggerito da Tiziana Villani. Già nei materiali preparatori, del resto, avevamo cercato di distinguere la città, identitaria, omogenea, comunitaria, dalla metropoli, spazio di dispersione, rizomatico e plurale. Si tratta adesso di procedere un passo oltre e riconoscere la natura “industriale” e novecentesca dello stesso termine metropoli; di analizzarne la scomposizione e la frammentazione per avventurarsi in una nuova categorizzazione capace di afferrare la realtà dei territori urbani nei quali vivono le moltitudini produttive del lavoro cognitivo.

Anche partendo da un approccio architettonico o urbanistico, per dir così, “classico” è ormai impossibile non riconoscere la scomposizione delle aree industriali, la fine dell’ordine distribuito attraverso la fabbrica e le aree connesse di terziario e servizi (che è stato lo schema di fondo della metropoli industriale). Come impossibile è non registrare la prevalenza spaziale della differenziazione del singolo oggetto architettonico sulla variazione per tipi omogenei. Lo stesso salto qualitativo andrebbe fatto di fronte ai processi che investono la dimensione periurbana e suburbana, tutti tendenzialmente diretti verso la polverizzazione del territorio metropolitano novecentesco. Il territorio urbano nel quale viviamo non produce né si articola in aree omogenee ma attraverso una logica insieme seriale e molecolare. Ancora una volta, siamo di fronte ai limiti della nostra analisi.

Da cosa dipendono questi limiti? In primo luogo, mi pare, da un ritardo teorico. Siamo già adesso in grado di restituire un quadro articolato sulla antropologia militante che attraversa gli spazi metropolitani, non altrettanto chiara o articolata è l’analisi sul piano oggettivo. Lo spazio urbano non è liscio, abbiamo detto, ma marcato e attraversato da barriere, circoscrizioni, punti di convoglio, aree di attrazione e assorbimento: un insieme complesso che intreccia la dimensione del confine ad una articolata fenomenologia dei flussi globali. La nostra cassetta degli attrezzi va allora riaggiornata e calibrata su questa realtà.

 

2. La rendita e il comando.

Non disponiamo ancora, ed è una traccia di ricerca che su questo sito andrà percorsa, di un’analisi critica specifica della governance metropolitana. Chi decide sulla metropoli? Come funziona il comando neoliberista sullo spazio urbano? L’analisi della rendita e della speculazione finanziaria – seppure riarticolata come rendita assoluta, potere estrattivo di ricchezza sociale – sono sufficienti a dotarci degli strumenti necessari per un intervento moltitudinario sulla metropoli? Andiamo per ordine. Tra le pagine di Commonwealth abbiamo imparato a scorgere nei territori urbani il tramonto della santissima trinità: rendita, salario e profitto. Se Marx poteva distinguere la rendita urbana, in quanto investimento utile sui suoli, dal profitto (industriale) e dal salario come forma generalizzata di riproduzione della forza lavoro, oggi invece il rapporto capitalistico si regola altrimenti. Quando diciamo che la rendita urbana è oggi rendita assoluta s’intende dire che essa tocca ormai direttamente il livello del profitto, è stata completamente sussunta dalla direzione capitalistica. Perciò la metropoli è fabbrica della moltitudine: un insieme di componenti produttive e improduttive. Allo stesso modo, l’analisi della metropoli insegna che è finita l’epoca delle economie esterne: il tessuto produttivo, basato su delocalizzazioni, outpad, subappalti etc. è completamente integrato in un sistema che fa coincidere le economie esterne con le reti effettive di profitto. E ancora: come ha notato Judith Revel, tra le mille pieghe della metropoli, alcuni spazi vengono rappresentati dal gestore neoliberale come “improduttivi”, “entropici”, per cui dedicarvi attenzione sarebbe semplicemente uno spreco di risorse (ad esempio le banlieues nel racconto giornalistico mainstream). Ora, è questo dispositivo entropico che le differenti rivolte urbane devono disattivare: costruendo tecniche del sé, riconoscendo l’esproprio che il dispositivo neoliberale impone su di loro. Per farlo però dobbiamo aggiornare la nostra lettura del comando neoliberista: alla disciplina e al controllo sembra qui sommarsi una nuova tecnologia del potere, che Judith Revel, ha definito entropica o a-poietica, e che andrebbe indagata.

Rendita assoluta, fine delle economie esterne, diagramma entropico di disciplina delle popolazioni: certo è necessario partire da qui, eppure la nostra analisi necessita di specificarsi ulteriormente. Come ha sottolineato Toni Negri durante la discussione, sappiamo anche che questo comando della rendita e della finanza è sempre mediato. Allora la ricerca dovrà orientarsi nell’individuare i punti medi sui quali si istituisce il rapporto tra finanza e singolarità produttiva, e così identificare i nessi specifici del comando. Nelle lotte di fabbrica era facile leggere sia il livello generale che lo specifico del potere, in una battuta diciamo: sia il potere che il padrone da riconoscere. Oggi noi conosciamo gli effetti del dispositivo neoliberista sulla metropoli, ma poco sappiamo del comando, vediamo il potere ma non riusciamo ad identificare il padrone. Si tratta allora di tornare a teorizzare nessi amministrativi, municipalismi alternativi, o un uso antagonista dei canali della rappresentanza locale? Neppure questo percorso ci convince. Perché ha ragione Agostino Petrillo: buona parte delle decisioni fondamentali sullo spazio metropolitano non vengono prese nella metropoli stessa, la sovradeterminano. Nell’amministrazione metropolitana sempre più spesso non si decide nulla di essenziale per la metropoli. Le politiche di crescita e sviluppo accelerato volte a produrre città globali, come le maglie dell’austerity e della crisi che mangiano i nostri territori, sono piuttosto direttamente connesse ad un secondo nodo teorico ancora non risolto: quello tra flussi e luoghi nella globalizzazione.

Dunque riassumiamo: si propone qui di ricentrare la ricerca sulla metropoli attorno a due questioni. L’analisi del potere neoliberista sullo spazio urbano, a partire da rendita e speculazione finanziaria ma specificando la meccanica delle mediazioni tra singolarità produttive e comando; L’analisi del rapporto tra flussi globali e dinamiche locali nel tessuto metropolitano.

 

3. Flussi e luoghi.

Esistono ancora luoghi nello spazio metropolitano? Ovvero spazi qualitativi e qualificati, stabili e comunitari, a partire dai quali è pensabile reperire elementi di resistenza civica capaci di attivare la rivendicazione di un nuovo diritto alla città nella metropoli neoliberista? Possiamo rispondere in modo affermativo almeno da due punti di vista: in un primo senso possiamo rintracciare luoghi nella metropoli perché essa non è mai uno spazio liscio, indifferenziato, segue piuttosto configurazioni a macchia di leopardo, all’interno delle quali è possibile individuare interstizi, reti precarie di relazioni e persino logiche comunitarie. Ma dobbiamo rispondere di sì in un secondo senso, che ci riporta al nostro metodo: la metropoli è interamente attraversata dal luogo primo, indissolubile, dalla nostra dimensione fisica fondamentale, ovvero il corpo di ciascuno e ciascuna di noi. L’ideologia fondamentale del progetto tecnico-scientifico tende ad immaginare spazi interamente deterritorializzati, città di bits, eppure non esiste linea di fuga possibile dal corpo metropolitano. Si tratta di insiemi modali, singolarità fisiche che, per esistere e per produrre, devono connettersi ad altri corpi e alla rete macchinica complessiva della fabbrica cognitiva. Un corpo (r-)esistente e socializzato. A partire da qui va interrogata la dinamica effettiva del comando. Ci chiediamo ad esempio: come costruire dinamiche fittanti sull’ordine del discorso della Smart City? Che in fondo non è altro che lo schema “capovolto” del rapporto conflitto/innovazione, pensato dal gestore neoliberale della metropoli: ma come sempre è schema ambiguo, ricco di potenzialità, attraversato da faglie e rotture, contraddizioni e aperture. Non è soltanto (benché certo che sì!) nuova forma di controllo, ma allude direttamente al fatto che senza socializzazione non c’è gestione della metropoli. O ancora: com’è possibile costruire azioni simultanee e assemblaggi delle pratiche di lotta che siano espansivi, che possano aggredire l’anonimato del comando, conquistare quote di welfare, ottenere reddito, accedere ai saperi e invertire la tendenza? Basta il catalogo appaesato del “diritto alla città” per ricomprendere questa eccedenza di vita e di produzione? Su quale grammatica dei diritti si svolge la vita delle singolarità cooperanti? Qui ancora una volta troviamo delle linee di ricerca da percorrere e da reinvestire di intelligenza collettiva.

 

4. Diritto all’urbano vs diritto alla città.

Secondo Beppo Cocco, il movimento brasiliano sta risolvendo molti degli “enigmi” attorno ai quali l’analisi si è bloccata. In Brasile, ci ha spiegato, la sinistra sviluppista di Dilma cerca sempre di dare forma ai processi politici e urbani. Eppure le insorgenze metropolitane non possono essere risolte in una forma specifica: esse si esercitano a partire da lotte sulla logistica e sulle infrastrutture e contestano la riduzione aziendalistica dello spazio metropolitano, difendono le favelas come spazi di incubazione di forme di vita alternative e trovano nella povertà la determinazione di un nuovo diritto alla città. Altri hanno suggerito l’idea di cercare nelle minoranze metropolitane le forze in grado di sovvertire l’Europa: a partire dai quartieri di sans-papiers, dalle banlieues come spazi esterni/esclusi dal controllo neoliberista. E proseguendo su questa linea localista, Peppe Allegri ha suggerito di immaginare processi di confederazione urbana in grado di superare l’eterogeneità degli spazi politici europei ed esercitare quella potenza necessaria a produrre istituzioni comuni. L’Europa come confederazione urbana transnazionale e costituente, dunque: uno spazio politico che definisce la propria pratica costituente a partire dalle lotte che si articolano attorno alla rivendicazione del diritto alla città.

È sufficiente questo approccio? Agostino Petrillo ha messo fortemente in dubbio che sia utile, questo riferimento alle tesi di Lefebvre (di recente, com’è noto, riprese da David Harvey). Il diritto alla città, infatti, nasce come risposta nostalgica all’interno della metropoli industriale e alla sua crisi, si nutre di vago partecipazionismo di maniera e resta sempre affogato nella spirale resistenza dei poveri/offensiva del capitale. Lo stesso Lefebvre non ha mai avuto difficoltà a qualificare la sua linea di lettura come romanticismo rivoluzionario urbano, per il quale ogni pratica urbana antagonista, eterotopica, agisce in costante tensione con l’isotopia dell’ordine spaziale capitalistico e con l’utopia desiderante cui allude. Ma ogni volta, dice Lefebvre (e con lui Harvey), che gruppi anomici costituiscono spazi eterotopici – enclaves sottratte al dominio del capitale – confliggono con il potere e alla fine vengono riassorbiti dalla prassi dominante. Inutile dire che la nostra lettura è necessariamente capovolta: cerchiamo un “fare politica” che anticipi il comando e lo costringa a trasformarsi, un conflitto che precede l’oppressione e la eccede. Perciò, per noi si tratta di capire dove colpire la governance nella metropoli neoliberista. Su questa linea, Giairo Daghini ha fortemente messo in dubbio l’identificazione delle lotte singolari con le lotte delle minoranze (che è il paradigma di Harvey). Nella metropoli neoliberista, quando parliamo di singolarità produttive alludiamo sempre ad un lavoro direttamente politico e conflittuale, effettuato più che da minoranze da minorità, ovvero da punti singolari capaci di dilagare e diventare comuni, capaci cioè di ridefinire l’intero spazio di vita delle moltitudini. E, infine come ci hanno spiegato i compagni spagnoli, si tratta più che di resistere al comando, di batterlo in breccia sulle linee di sviluppo, di anticiparlo e spiazzarlo. Così, ad esempio, il movimento 15M sta producendo un ragionamento, per noi fondamentale, di critica alle élites metropolitane e sta decostruendo lo spazio della rappresentanza (relegato appunto al dominio delle élites) per affermare invece la potenza di istituzioni espressive. Anche questa coppia espressione contra rappresentanza, crediamo meriti di divenire oggetto della ricerca teorica che da qui proviamo ad intraprendere.

 

5. Nuove cartografie.

Ad ogni modo, una analisi critica del dibattito attorno ad Harvey e Lefebvre va innescata, al fine di proporre una lettura il più possibile utile dei movimenti urbani transnazionali. Secondo Sandro Mezzadra, la metropoli è lo spazio essenziale su cui va in scena la compresenza di sviluppo e crisi, il perenne rimescolamento dei rapporti sociali e produttivi, la decisiva friabilità del rapporto di comando biopolitico sulle forme di vita. Bisogna riconoscere la difficoltà oggettiva di produrre una cartografia esaustiva di questo “spazio elusivo”. Tale difficoltà è dovuta all’eterogeneità dei dispositivi di produzione dello spazio urbano che sono certo, insieme, architettonici, cognitivi, logistici, finanziari, etc. I poteri che operano sulla metropoli, in altri termini, sono sempre dislocati e dislocanti. Ovvero si muovono su diverse cartografie e spiazzano continuamente i punti di attacco possibili. Eppure da qui dobbiamo ripartire. Una ricerca sulla metropoli è allora prima di tutto il tentativo di descrivere ciò che Tiziana Villani ha definito “configurazioni urbane differenziate”. Ciascuna di queste cartografie si muove su una scala propria, disegna un ambiente determinato, attiva una specifica razionalità: questi differenti spazi urbani nella metropoli vanno allora descritti ed analizzati singolarmente. A partire da questo accumulo sarà possibile declinare una nuova cartografia dei conflitti e dei diritti che intendiamo esigere: diritto alla produzione dell’urbano, alla mobilità, all’accesso, alla qualità della vita, al welfare comune, al reddito. Costruire mappe di questi spazi significa rintracciare le traiettorie di un’azione molecolare in grado di aggredire direttamente il molare del comando sulla produzione urbana, riconquistare libertà di movimento corrispondente allo spazio reale delle nostre forme di vita, acquisire saperi e conoscenza, rivendicare il diritto ad un’altra qualità della vita. Tutte tracce che proveremo a percorrere in questa rubrica. Non abbiamo nulla da difendere, ma un mondo da costruire.

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