di ALIOSCIA CASTRONOVO, GIANSANDRO MERLI*.

Hai parlato spesso di tre anime “storiche” della sinistra che nel corso del secolo scorso sono state separate, hai affermato l’urgenza di riconnetterle. Quali sono queste tre anime? Potresti approfondire questa riflessione definendo le strategie possibili per una rottura dell’egemonia neoliberale?

 

La storia è densa di conflitti contro la diseguaglianza, le risposte di fronte al potere emergono già nella Bibbia. Se le forme della protesta sono sempre state diversificate, notiamo come a partire dal diciannovesimo secolo il socialismo le abbia in buona parte unificate. Il socialismo si è espresso innanzitutto in forma rivoluzionaria, con la costruzione di un contropotere rispetto al potere capitalista esistente; alcune conquiste ottenute hanno poi reso tale risposta sempre più moderata e graduale, in particolare mi riferisco alla sua forma parlamentare. Da qui nasce la proposta riformista, espressa soprattutto dalla socialdemocrazia tedesca all’inizio del ventesimo secolo. Ma è sempre esistito un terzo ambito di discussione nei movimenti di protesta, che non riguardava il contro-potere ma l’anti-potere, che è l’anima ribelle. Se guardiamo alle proposte sull’emancipazione sociale nel ventesimo secolo, possiamo notare un progressivo divorzio tra riformismo e rivoluzione, che avviene nel parlamento tedesco con il voto in favore dei fondi di guerra nel 1914, quando Rosa Luxemburg ricorda che le differenze importanti sono quelle tra padroni ed operai, e non quelle tra operai tedeschi e operai francesi. Ma alla fine proletari francesi e tedeschi si ammazzarono l’un l’altro in guerra. Ciò dimostra come tale proposta non aveva ancora raggiunto la giusta maturità in Europa. Lo scontro tra riforma e rivoluzione che si congela nella diatriba tra Est e Ovest per molti decenni è stato un problema drammatico. Il riformismo si è convertito in una mera gestione dell’esistente nel sistema capitalista, rinunciando a pensare la trasformazione (un evento per comprendere tale passaggio è il Congresso della SPD nel 1959, quando la formazione socialdemocratica rinuncia al marxismo e dunque all’ideale del superamento del sistema capitalista).

La rivoluzione, nei paesi dell’est e in alcuni altri paesi del mondo, ha di fronte altri problemi e rinuncia alla dimensione democratica ed elettorale. La proposta rivoluzionaria viene pensata nella forma di un programma massimalista che non può cedere su nulla, in cui il fine giustifica i mezzi, arrivando fino ad annullare la democrazia interna. Riforma e rivoluzione si trovano di fronte allo stesso nodo problematico: il riformismo non ha fiducia nella gente e tratta il popolo come un infante (dal latino in-fans, colui che non parla). L’adulto (il riformista) deve pensare al popolo (l’infante) che deve così solamente accontentarsi dei benefici derivanti da tali politiche: così il popolo diventa come quelle volpi che si abituano a ricevere il cibo dai turisti, e perdono la capacità di andare a caccia.

Nemmeno la proposta rivoluzionaria ha avuto fiducia nel popolo: dato che solo l’avanguardia era capace di comprendere ciò che non era considerato accessibile al popolo, hanno finito per costruire muri, gulag e bloccare ogni processo democratico e libero. Entrambe le opzioni hanno avuto le loro ragioni: l’opzione rivoluzionaria si è trovata di fronte al blocco capitalista che ha fatto di tutto per impedirne il dispiegamento, e il riformismo ha effettivamente ha migliorato le condizioni di vita dei lavoratori. Ma il divorzio tra queste due opzioni le ha condannate entrambe ad essere incapaci di avanzare sul terreno dell’emancipazione sociale. Entrambe queste due anime hanno poi abbandonato la terza anima, quella ribelle: è quella incarnata da Bakunin rispetto a Marx, Rosa Luxemburg rispetto a Lenin, Trotzki rispetto a Stalin, è quella dei movimenti libertari rispetto ai movimenti comunisti, quella del 15M rispetto ai partiti politici spagnoli, quella degli zapatisti.

L’anima ribelle non vuole sostituire un potere ad un altro, ma superare l’idea stessa del potere: per questo si basa sull’orizzontalismo, sul dibattito, vuole cambiare le regole del gioco. È il principio su cui si sono basati i social forum mondiali, di quel “mondo in cui possano stare tanti mondi” in alternativa al modello dell’Internazionale socialista. L’anima ribelle ha però un problema, lo stesso che hanno le onde nel mare: esistono solamente grazie alla forza del vento. Hirschman, nel libro Felicità privata e felicità pubblica (pubblicato in Italia per la prima volta da il Mulino nel 1983), si è interrogato su questo tema, riflettendo sull’ondata di riflusso nel privato seguita ai movimenti del ’68. Egli sostiene che le rivoluzioni finiscono per naufragare, che dopo aver dedicato tante energie al processo di lotta si finisce per “tornare a casa”, come avvenuto dopo il maggio del ’68, o in occasione di altri cicli collettivi di lotta, non ultimo nel 15M. Alla ribellione è sempre mancata una certa dimensione istituzionalecapace di consentirle la stabilizzazione delle conquiste.

Penso che mettere l’una contro l’altra queste tre anime della sinistra sia un errore. Dobbiamo pensare a come rimetterle assieme: ogni processo è composto da momenti rivoluzionari, momenti riformisti e momenti di ribellione, all’interno di una realtà sociale che presenta una dimensione reticolare, in cui si compongono tutti e tre questi momenti, che sono congiunturali, situati, non definitivamente strutturati. In questo periodo storico abbiamo bisogno di ridare forza alla dimensione della ribellione, perché le altre due opzioni hanno poco da darci oggi. In una società della conoscenza, informatizzata, reticolare, le strutture verticali non funzionano, così come il paternalismo. Dobbiamo imparare da queste tre anime, ma dare priorità alla ribellione, che rappresenta la capacità di riappropriarsi collettivamente della politica, definendo così in comune gli obiettivi da perseguire. Dobbiamo essere coscienti di trovarci in una fase deliberante, per dirla con Gramsci quella fase in cui il nuovo mondo non è ancora nato e il vecchio mondo non è ancora tramontato. Nei momenti di crisi, la soluzione è aprire dibattiti e dare forza alla dimensione deliberante, ma senza abbandonare le strutture che ci permettono di andare avanti nella lotta contro il potere costituito: non è uno scherzo, ma è un ossimoro quello che sto per dire, in questi tempi di incertezza e crisi occorre saper essere “leninisti amabili”. Abbiamo bisogno di strutture che affrontino l’incertezza senza essere avanguardie, per convincere tutti i cittadini della necessità del cambiamento.

 

 

Vorremmo qui approfondire la questione del cambiamento: la sfida oggi riguarda immediatamente lo spazio transnazionale e dunque perlomeno europeo, inteso come spazio minimo per poter costruire una risposta all’altezza del comando capitalistico e dell’offensiva neoliberale. Hai parlato dello spazio globale e europeo come spazi del comando, e dello spazio nazionale come spazio di politicizzazione. Quale relazione esiste tra questi spazi e i processi di politicizzazione in relazione all’esperienza di Podemos?

 

Credo che dobbiamo prendere sul serio Foucault quando dice che il neoliberismo è diventato senso comune, e i suoi valori egemonici. Credo che Podemos sia diverso dai partiti della sinistra tradizionale, perché partiamo dall’assunzione di aver subito una grande sconfitta, e coscienti di ciò abbiamo davvero la possibilità di costruire processi che vadano oltre i luoghi tradizionali della sinistra, arrivando a settori della società a cui la sinistra non è mai arrivata, a causa della sua dimensione ideologica.

Credo che veniamo da una sconfitta storica anche sul piano teorico: a causa delle riflessioni legate alla dimensione nazionale, alla struttura del lavoro fordista, al mondo della fabbriche, alla promessa del welfare state – che è stato un caso storico e non la normalità capitalistica – ci è stato impossibile capire che il capitalismo ha avuto quattro secoli di sviluppo e solo uno di decadenza. E all’interno di questa crisi non ci siamo saputi situare in maniera nuova. Veniamo da una sconfitta teorica della lettura marxista della società, ci siamo sbagliati rispetto al soggetto, all’interpretazione della crisi, non abbiamo saputo proporre un’alternativa credibile al sistema di produzione capitalista, dare risposte alla crisi ambientale, alle questioni di genere. Il collasso della cosmo-visione storica, degli immaginari e dell’impianto teorico della sinistra è una questione che dobbiamo saper affrontare ed interiorizzare.

La seconda sconfitta riguarda la gestione, sia quella socialdemocratica che quella comunista. Entrambe, come dicevo prima, non hanno avuto fiducia nel popolo e hanno bloccato le possibilità di cambiamento.

La terza sconfitta riguarda i valori della sinistra: la dimensione cooperativa e comunitaria ha lasciato spazio all’individualismo, la solidarietà è scomparsa, lasciando prevalere una visione negativa dell’essere umano. Si è andata diffondendo una concezione individualista della sconfitta, del fallimento, sintetizzata dall’espressione “looser”, perdenti, che altro non è che la definitiva interiorizzazione ed individualizzazione delle irrisolte questioni sociali. Le imprese private vengono considerate più efficaci dello stato e del pubblico – un luogo etico, secondo Gramsci e Marx – che invece di essere considerato il luogo “di tutti” diventa lo spazio di nessuno. Questa sconfitta dei valori della sinistra nella fase di egemonia neoliberale, questo divenire zombie di cui nemmeno ci rendiamo conto, ci obbliga a pensare la ricostruzione politica a partire da questa sconfitta, per ribaltare il senso comune.

L’Europa è un concetto da avanguardia, in un continente in cui la cittadinanza è diventata retroguardia. Siamo, come ha scritto tempo fa Alonso, consumatori del ventunesimo secolo e cittadini del diciannovesimo. Il sogno consumista ha distrutto la possibilità della trasformazione, lo aveva già scritto Pasolini negli anni settanta. Noi come Podemos siamo molto gramsciani, assumiamo il suo concetto di guerra di posizione a fronte della guerra di movimento, e diciamo oggi, a che serve ottenere posizioni se non cambiamo il modo di pensare della gente? Ci sono idee di avanguardia, comprese da alcune élite, che non sono comprese dalla massa. La globalizzazione, l’Europa, il Tribunale penale internazionale, l’organizzazione Internazionale del Commercio e così via, sono concetti e strutture comprese dalle élite, che pongono queste strutture al servizio dei propri interessi, presentandoli come strumenti etici al servizio di tutti.

La cittadinanza vede tutto ciò molto lontano, si lascia colpire dagli aspetti più appariscenti di tali processi, ma non li comprendono fino in fondo: penso a quando Bush ci ricordava che presto avremmo potuto fare le vacanze su Marte, cosa che mi fa pensare alle favole in cui si attende l’arrivo di un principe per poter essere felici. Queste distrazioni servono alle élite per costringerci a vivere, qui ed adesso, in una valle di lacrime. Questa questione l’ho discussa anche con Toni Negri: non possiamo trasformare i nostri paesi se non convinciamo la gente della necessità di cambiare. Come dicevaMachiavelli, senza la necessità non c’è cambiamento. Per cui a cosa serve costruire cose che non vengono comprese dalle masse? A meno di non volere una specie di dispotismo illuminato, nel nome del popolo, ma senza il popolo.

Ma i nostri tempi esigono cose diverse: la gente preferisce l’individualismo neoliberale al paternalismo della sinistra, anche se quest’ultimo gli potrebbe garantire migliori condizioni di vita, mentre il primo solo la miseria. Per cui dobbiamo avere fiducia nei cittadini, e questi processi di politicizzazione possono funzionare meglio negli spazi percepiti come propri dai cittadini stessi. Per questo lo spazio nazionale e popolare è una possibilità per costruire un soggetto che si percepisca come soggetto del cambiamento, non solo legato alla classe operaia, ma anche ad altri aspetti, anche simbolici, che permettano la mobilitazione sociale. Sappiamo che è necessaria una mobilitazione transnazionale, ma dobbiamo prima passare per lo spazio nazionale. C’è una cosa che mi piace molto di Marx, mi sembra un’intuizione tuttora valida: le rivoluzioni possono Alfredo Jaar Gramsci 2009 2 (603x640)svilupparsi solo nei paesi a capitalismo avanzato. Gramsci mette in discussione questa questione, dicendo che è possibile anche nei paesi meno sviluppati, come diceva anche Lenin. A me sembra complesso costruire il socialismo laddove non si è passati per lo stato borghese: non pretendo di avere ragione, ma credo che lo stato borghese e il welfare state abbiano costruito una sfera pubblica in cui è possibile pensare il comune come qualcosa da difendere e ci cui riappropriarsi collettivamente, mentre nelle altre società, come per esempio il Venezuela, è impossibile costruire un socialismo perché non ci sono socialisti. Dunque se l’Europa è la soluzione, dico anche che non possiamo costruire l’Europa fintanto che non abbiamo europeisti, cosa che non possiamo ottenere senza avere prima cittadini democratici e protagonisti nel proprio spazio nazionale. Essere europeisti oggi comporta il rischio di avanguardismo, rispetto si nostri concittadini stessi.

Tanto Syriza come Podemos, come Corbyn in Inghilterra, come Lafontaine della Linke, tutti critichiamo la privatizzazione del pubblico e l’austerità in quanto attacco allo stato sociale. Penso che questi aspetti del pubblico siano densi di significato, ed è questo il cuore della nascita di Podemos. Se questi significati fossero già andati perduti, avremmo dovuto aspettare una generazione per poter tornare a contare.

Siamo nati adesso come Podemos, perché abbiamo pensato: “se dovesse naturalizzarsi nelle coscienze collettive il processo di privatizzazione, nemmeno tra trent’anni potremo accumulare tanta forza per costruire una risposta all’altezza”, così come invece è avvenuto in America Latina. E questo ci avrebbe condannato ad una generazione devastata, ad una vera e propria latinoamericanizzazione dell’Europa. Non è facile spiegare perché alcune cose accadono in un paese e non in un altro, non è per niente facile. Credo che la differenza tra la Spagna e l’Italia non è tanto legata alla nascita di Podemos, quanto invece al 15M, che ha determinato il diffondersi di una contro-narrazione che ha reso possibile Podemos, forse perché non abbiamo raggiunto ancora quel livello di esaurimento della speranza nel cambiamento, che riguarda invece le società che hanno vissuto a lungo in democrazia. Questa è una mia intuizione, non so se sia vera, ma mi sembra che i paesi che fino alla seconda metà del ventesimo secolo hanno vissuto sotto dittatura abbiano “congelato” alcuni processi, cosa che ha permesso il riaprirsi di un ciclo di lotte talmente intenso e forte. Cosa che è accaduta in Grecia e in Spagna (per confermare la mia ipotesi dovrebbe succedere anche in Portogallo) perché l’interiorizzazione della nostra condizione sociale di “loosers” non è ancora del tutto compiuta. Questo non significa che non possiamo perdere ancora: pur essendo stati traditi dai partiti e dai sindacati, non abbiamo vissuto ancora socialmente la grande sconfitta di cui parlavo prima. Sappiamo che le conseguenze di questa sconfitta sono qui attorno a noi: ma in Spagna credo ci sia oggi la possibilità di costruire una contro narrazione che riapra questo spazio.

 

 

A proposito di questo spazio, la sconfitta di Syriza nelle trattative con la UE, con il memorandum di luglio, che influenza ha avuto in Spagna e in particolare per Podemos?

 

Non dobbiamo rimproverare a dei nani di non aver combattuto abbastanza contro i giganti. Dalla Spagna e dall’Italia rimproveriamo al governo greco di non aver lottato abbastanza, ma la Grecia è una piccola economia dell’Eurozona: non si può lottare contro un drago con in mano un acchiappafarfalle. L’errore di Syriza è stato il fatto di credere di negoziare con dei democratici, pensando che bastava appellanrsi alla costituzione democratica dell’Europa per far rispettare dalla Troika le proprie decisioni, ma si è trovata di fronte a dei mafiosi.

Il referendum è stato un errore: non puoi convocare un referendum se poi non sei capace di difenderne i risultati. Così ci si è trovati in una situazione in cui il piano B della Grecia è diventato il piano A della Germania, parlo ovviamente della Grexit. Tsipras ha lanciato una sfida ma non aveva le forze per sostenerla, questo è stato l’errore. Accanto a questo errore, ne segnalo altri due: la spaccatura del partito, cosa intollerabile, e la rassegnazione che ha causato al popolo greco, altra cosa imperdonabile. Queste energie utopiche capitano ogni venti o trenta anni, tu non puoi sacrificarle così, come ha fatto Tsipras. Si sarebbe dovuto dimettere, per far si che Syriza potesse rinascere, e invece si è comportato da politico. Credo che Syriza avrebbe dovuto guadagnare tempo, aspettando che in Europa altre forze anti austerità potessero vincere le elezioni. Quello che è avvenuto riguarda il problema che ogni partito deve affrontare, noi compresi: entrare nel regno oscuro della rappresentanza è un rischio, lo sappiamo e lo abbiamo scelto. Sono rischi reali. Quando non hai gli anticorpi, vieni divorato dalle logiche della rappresentanza, come secondo me è accaduto a Tsipras. Noi condividiamo le questioni poste da Syriza, non le risposte. Se è vero che la firma sul memorandum ha defraudato della speranza, credo anche che nella storia di Davide e Golia di solito vince Golia, per cui dobbiamo prenderci le responsabilità nei nostri paesi e non recriminare ai paesi piccoli di non aver fatto ciò che non hanno le forze per fare.

 

 

Per concludere, ti vogliamo chiedere di affrontare la questione della relazione tra movimenti sociali e Podemos, per come si sta configurando in relazione scadenza elettorale di novembre.

 

Noi siamo nati dal 15M ma non siamo il 15M, e non lo siamo nella misura in cui abbiamo deciso di formare un partito politico, con tutti i rischi che esso comporta. Abbiamo deciso di vivere questa contraddizione e questa tensione, abbiamo creato i circoli, strutture orizzontali di contatto tra la società e la politica, accanto alla macchina elettorale, alla dimensione della rappresentanza, ben centrata sui mezzi di comunicazione. Possiamo dire che se una volta i rivoluzionari andavano in montagna, ora danno battaglia negli studi televisivi. Ma noi siamo pochi, non abbiamo mezzi né denaro, abbiamo fatto Podemos nel nostro tempo libero, e sappiamo che nella politica partitica prevale la logica rappresentativa, e che i tempi deliberativi collettivi sono molto più lenti dei tempi della politica. La politica di partito è un mercato influenzato dai mezzi di comunicazione e particolarmente segnato dall’urgenza, incompatibile con la lentezza della deliberazione e della discussione orizzontale. Ciò che ho definito leninismo amabile riguarda proprio la necessità di creare un apparato, diverso dai partiti comunisti tradizionali, capace di assumersi il carico di saper rispondere alle sfide che l’attuale situazione politica ci pone. I circoli devono sempre controllare i rappresentanti ma mai inceppare la macchina elettorale. Altrimenti non avremmo creato Podemos, saremmo rimasti nella logica del 15M, del movimento degli indignados.

12m15m-valenciaDobbiamo trovare un equilibrio e non è semplice, perché davanti hai un nemico molto potente e dobbiamo fare i conti con un enorme problema: il movimento funziona bene nella fase destituente, ma non altrettanto in quella costituente. Il movimento affronta e contrasta l’esistente, ma fatica a costruire alternative in una società egemonizzata dai valori neoliberali, dall’individualismo, dall’egoismo. Siamo consapevoli che il blocco della mobilità sociale verso l’alto ha aperto un”opportunità per trasformare quella rabbia in una politica radicale. Ma non è facile. Dobbiamo essere molto intelligenti, molto rigorosi, molto flessibili, molto austeri, molto ben preparati, dedicare molto tempo alla gente. Ci siamo trovati a inventare una specie di star del rock and roll della rivoluzione politica, con tutte le contraddizioni che ciò porta con sè. Seppure siamo stati efficaci nel costruire la macchina elettorale, abbiamo ancora molto da fare per quanto riguarda la dimensione deliberativa e rappresentativa, e ho paura che non ci sia una soluzione a questa contraddizione. Una delle cose terribili di questo inizio del secolo XXI è che non ci sono soluzioni già date, dobbiamo vivere nelle contraddizioni di questa società avendo la sensibilità e la capacità di concentrare gli sforzi laddove si presentano delle occasioni e delle tensioni. Non abbiamo il quadro completo di una alternativa complessiva, ma solo piccole tessere per comporre un mosaico tutto da inventare.

Chi è impegnato a trasformare il mondo spesso si dedica poco a negoziare con ciò che già esiste, elabora teorie sofisticate, incomprensibili per la maggior parte dei cittadini. A nessuno interessa se Laclau è post-kantiano o post-marxista: è più rilevante capire se Laclau può darti qualche chiave per orientarti in una situazione in cui si può dare battaglia nel campo della democrazia rappresentativa. Se ti aiuta a comprendere quale può essere il soggetto della trasformazione. Voglio dire che alcune discussioni, anche se vogliono essere rivoluzionarie, alla fine mostrano una certa dimensione conservatrice, perché non cambiano assolutamente niente, non producendo accumulazione nemmeno nel medio e nel lungo periodo. Mi inquieta il fatto che una forza politica che agisce nel 2015 debba basarsi su autori di quasi 100 anni fa, come Gramsci, perché questo significa che nel frattempo non abbiamo elaborato categorie utili a ripensare la nostra condizione.

Ma non è del tutto così: penso a Bonaventura Sousa Santos, un pensatore che viene dal marxismo, che ne ha compreso i limiti e ha imparato a ricostruire il suo apparato teorico a partire dalla sua esperienza nei movimenti sociali. Boaventura è fondatore del Foro Sociale Mondiale e ha molti contatti con i movimenti sociali in America Latina e in Africa. E ovviamente in Europa. Credo che questo gli abbia permesso di avere una visione complessa, la cui teoria parte dalle lotte concrete, e mi sembra ben più interessante di Laclau e del suo significante vuoto che non mi ha mai convinto. Contro Chavez hanno tentato un golpe non perché era un significante vuoto, ma perché era un significante pieno! Rispetto al significante vuoto preferisco l’idea di traduzione: Boaventura sostiene che bisogna far discutere le diversità, mettere in relazioni i punti di scontro e di incontro per rendere intellegibili le lotte. E questa idea di traduzione ha molto a che vedere con ciò che ho detto a proposito di riforma, rivoluzione e ribellione, per pensare la possibilità di tradurre le lotte. In fondo, noi progressisti abbiamo un vantaggio rispetto ai conservatori ed è l’ottimismo della volontà. Come diceva Pessoa, non sappiamo perché, ma ogni notte la luce della luna illumina l’erba sui campi. C’è un lampo nella notte che illumina le cose: la fiducia nell’essere umano è ciò che ci permette di non darci per vinti.Veniamo da tante sconfitte, ma non siamo sconfitti. E credo che questa sorta di tragico ottimismo, questo pessimismo pieno di speranza, non abbia una fonte teorica, ma nasca dalla quotidianità. Per questo dobbiamo recuperare l’allegria della vita, perché le passioni tristi alimentano solamente l’egemonia conservatrice.

Per concludere sull’attualità, ribadisco che abbiamo fatto Podemos con l’obiettivo di fare irruzione nel parlamento spagnolo, dare battaglia per il governo. Abbiamo bisogno di un processo costituente, e lo abbiamo messo al centro della nostra proposta politica. In questo lungo anno e mezzo in cui esiste Podemos, siamo stati sottoposti a centinaia di attacchi. Ci hanno descritto come utopisti, hanno detto che le nostre proposte sono irreali perché proponiamo il reddito garantito, il processo costituente, la difesa dei diritti umani, la costituzionalizzazione dei diritti sociali. Dobbiamo essere capaci di recuperare per queste elezioni la freschezza che avevamo all’inizio, dobbiamo essere capaci di tornare a emozionare, di mettere al centro la possibilità della trasformazione. Nonostante da un anno e mezzo abbiamo tutti contro, siamo ancora qui. Rivoluzione significa rendere possibile l’impossibile, non va intesa solo come cambiamento violento. E se ogni rivoluzione ha come preludio un grande dibattito, che per noi è rappresentato dalla potenza del 15M, occorre recuperare in primis questa dimensione deliberativa ed affrontare le elezioni come un grande dibattito. Per questo, dato che Podemos è già un riferimento consolidato, siamo disponibili a completare le liste con candidature di unità popolare, con la formula Podemos – Madrid en Comùn, affinché possiamo tenere assieme differenti esperienze in base alla tensione di cui ho parlato prima, tra dispositivo elettorale e movimenti, mantenendo la vocazione all’unità popolare.

 

 

*Intervista uscita su DinamoPress il 6 novembre 2015 e realizzata durante la Scuola estiva di EuroNomade, tenutasi a Roma, presso Officine Zero, dal 10 al 13 settembre 2015.

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