di GIROLAMO DE MICHELE.

1. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, se ne accorsero anche le anime belle dell’esistenza di uno squilibrio intollerabile fra una minoranza che “regna e prospera”, e non ha nulla da temere dal resto “dei poveri diavoli”, e una maggioranza che nel resto del mondo è “addirittura nove decimi”: bisogno e sete di giustizia, scopriva Bobbio, di certo non si erano estinti con la fine del “comunismo storico”, mentre l’utopia capovolta arrivava a tirargli le coperte e turbargli i sogni. Pochi anni dopo, i cantori della Belle Époque della globalizzazione arrivarono a prospettare una possibile “spontanea” ridistribuzione delle ricchezze e del lavoro in sovrappiù a condizione di lasciar fare alla globalizzazione: limitarsi a piccoli movimenti all’interno del flusso dell’essere, enunciava con tono profetico un premier “di sinistra” in fase taoista. Il passaggio dalla percezione soft alla constatazione della natura hard della globalizzazione avrebbe poi mostrato quanto vacuo fosse un ragionamento che prescindeva da ogni considerazione materialistica sui rapporti di produzione e di sfruttamento, così come sull’uso della miseria e del debito come strumento di coercizione e dominio.
Oggi, dal fondo della miseria in cui sono precipitati, i tre quinti dell’umanità ci presentano il conto, sotto forma di un esodo inarrestabile come fuga da quella miseria che è la causa strutturale di guerre e malattie. Pensare che esistano strategie militari, barriere invalicabili, confini armati per arrestarli è come pensare di poter usare l’aviazione contro gli uragani e le bombe d’acqua o la marina contro lo scioglimento dei ghiacci: serve solo a dimostrare che muri e reticolati sono nella testa degli imbecilli, prima ancora che nei territori che essi governano. Lo stesso deve dirsi per chi, davanti all’evidenza che lo stesso scenario europeo sta stretto davanti alla geografia nomade ridisegnata dalle moltitudini di profughi, si appoggia come l’ubriaco al lampione delle piccole patrie, dei confini nazionali, delle monetine sovrane, portando fascine di legna nella cascina fascioleghista.
Una crisi umanitaria causata da una gestione capitalistica della vita e delle risorse su scala globale lunga una generazione non richiederà meno di una generazione per essere risolta: non sarà possibile uscirne se non con ragionamenti almeno sul medio periodo, in un’epoca nella quale non solo sul lungo periodo, come pensava Keynes, ma forse anche sul medio potremmo essere tutti morti.

sbancor2. Un compagno che oggi non è più fra noi, con gli strumenti di analisi che gli erano propri, già alla fine del 2006 avvertiva che la Siria era sull’orlo della guerra civile – quella guerra che sarebbe esplosa cinque anni dopo [→ qui]. Quel compagno, che si firmava Sbancor, aveva conoscenze paragonabili a quelle di un ottimo inviato giornalistico a Damasco o Beirut, o di un console a Beirut: è pensabile che fosse il solo ad aver capito cosa andava maturando in Siria, e quali ne sarebbero state le conseguenze? Eppure, per alcuni anni, i nostri ministri hanno ritenuto prioritario appurare chi avesse acquistato una certa casa a Montecarlo, intrigandosi con malfamati faccendieri per acquisire dossier taroccati, piuttosto che alzare il telefono e chiamare Damasco o Beirut. Le rivolte democratiche contro le dittature arabe sono state lasciate sole dai governi occidentali (è un caso?), che hanno preferito affidarsi a improbabili garanti dello status quo internazionale come Morsi, o a fingere di non vedere la doppia tenaglia dei macellai governativi e islamisti contro la componente democratica siriana.
Ora che l’esito è sotto gli occhi di tutti, si tratta di capire che nella storia ogni azione produce sempre effetti di media e lunga durata: prima di imbarcarsi in una nuova guerra, se possibile.

3. In questo scenario il Daesh ha saputo ritagliarsi un ruolo politico e mediatico di primo piano, giocando con cinismo fra i grandi giocatori dello scenario siriano e irakeno. Che il Daesh sia una creazione di fatto dei molti imperialismi, globali e locali, è un fatto; che in molti, come già in Afghanistan, abbiano giocato all’apprendista stregone col fondamentalismo jihadista, è di nuovo un fatto; ma è un fatto che prima o poi il pupazzo sfugge al controllo dell’apprendista stregone, e comincia a giocare un proprio gioco, mostrando capacità politiche e militari superiori ai fratelli maggiori di al-Qaeda. Riconoscere l’origine eterodiretta del Daesh non può comportare una qualsiasi forma di giustificazionismo – anche se è intuibile la necessità psicodrammatica di salvarsi la coscienza dando tutta la colpa al mandante imperialista unico –, né può sminuire il carattere fascista delle loro pratiche: non è che questi fascio-jihadisti sono vittime o carnefici a giorni alterni, a seconda di dove Putin bombarda o non bombarda.
Né sono meno colonialisti e imperialisti – oltre che sterminatori di popolazioni civili – i missili russi rispetto a quelli francesi o anglo-americani.

4. Oggi quella Mesopotamia allargata che è il luogo di germinazione del Daesh è un ginepraio dove non ci sono amici, ma solo diversi – e tutti intollerabili – gradi di inimicizia.
YPJ_agaist_IsisAl-Nushra non è certo migliore del Daesh – compiva le stesse atrocità prima che il califfato fosse proclamato, nel silenzio generale dei media –, né lo è il macellaio Bashar al-Assad, con buona pace di certa sinistra anti-imperialista che vede solo gli imperialismi indicati loro dal “compagno Putin”. Né lo sono Hezbollah o Hamas, o i diversi tiranni con le mani grondanti del sangue dei popoli a loro sottomessi anche con l’arma dell’odio verso il “nemico esterno”– e di certo Netanyahu non sta a guardare… L’unica presa di posizione accettabile, oggi, è l’appoggio fattivo, materiale, concreto verso la Repubblica del Rojava: e non per una particolare “simpatia” o “innamoramento” verso i curdi in quanto tali, ma per la capacità di contagio delle pratiche democratiche, egualitarie, ambientaliste, e persino militari che irradiano dal Rojava.
Appoggiare la resistenza del PKK e del YPJ significa oggi scommettere su processi di democrazia economica e popolare attraverso movimenti dal basso.

5. All’indomani del rovesciamento del regime di Gheddafi, all’interno dell’amministrazione americana si fronteggiarono due linee di condotta. La prima, fatta propria dal segretario di Stato Hillary Clinton, favorevole a “battezzare” una fazione e aiutarla a prendere il potere per ricomporre uno Stato libico unitario; la seconda, sponsorizzata dalle compagnie petrolifere, favorevole a una coriandolarizzazione della Libia già in atto. I signori del petrolio, attraverso le guerre civili d’Africa – in particolare quelle nigeriane – avevano creato e affinato una propria rete diplomatica in grado di trattare con i diversi signori della guerra sulle materie prime. L’uccisione dell’ambasciatore americano Christopher Stevens a Bengasi ha sancito il prevalere della seconda opzione. Ora, è un fatto che da tempo il prezzo del petrolio sia guidato dalla mano saudita al ribasso, col duplice scopo di svalutare le riserve petrolifere dell’Iran in vista della fine dell’embargo, e di colpire le politiche estrattive americane rendendo economicamente svantaggioso il fracking, e quindi “politicamente scorretti” i danni che esso provoca all’ambiente. Ed è un fatto che il mercato del petrolio non conosce scossoni, crisi improvvise, imbizzarrimenti dei prezzi, a dispetto delle guerre fra bande che insistono sui grandi depositi petroliferi libici e irakeno: il che porta a due considerazioni.
La prima: vendere petrolio all’interno dei margini stabiliti dai monopolisti sauditi è cosa nel quale il Daesh, così come le altre fazioni, è molto bravo, in un’alleanza di fatto con il grande capitale energetico. La seconda: lungi dall’essere un’arma di ricatto agitata contro l’Occidente, l’estrazione del petrolio va di pari passo col un disciplinamento e controllo del territorio compatibile col buon andamento del mercato globale. Il fascismo jihadista rivela la sua natura di rozza, ma efficace, forma di governance attraverso veri e propri processi di produzione biopolitica che modellano le coscienze – impregnandole di un rancore sanguinario colorato da sfumature blood and gore –, le menti – asservite a una visione del mondo manichea, reattiva e antimoderna, e a un culto dell’ignoranza di tutto ciò che dalla modernità deriva – e i corpi – dall’abbigliamento alla postura al desiderio.

6. La natura fascista del jihadismo si rivelava ieri nella sua pubblicistica, ed oggi nell’orribile strage al Bataclan, sprezzantemente definito “luogo di idolatri”. Così come nella duplice pratica della castità come valore, e della schiavitù sessuale imposta ai corpi femminili. L’esaltazione della privazione di ciò che ai poveri è negato dalla miseria – la musica e il divertimento costano, costano i figli che la famiglia non può mantenere e gli anticoncezionali per non concepirli, costano l’alcool e le droghe – è uno degli stigmi del fascismo. La retorica dell’inglese grasso che mangia 5 volte al giorno contrapposta al fisico asciutto e scattante dell’italiano che esce di casa al mattino per cercare lavoro (come pure il Mickey Mouse di Walt Disney, non a caso simpatizzante del Crapone; “meglio consumare le scarpe che le lenzuola”, diceva Lui) si ritrova pari pari nella retorica del “vero credente”, della cui osservanza è garante l’ignoranza che gli impedisce un vero studio critico della dottrina Coranica – per la quale basta la parola di un grande Altro in barba e turbante.
La verità di un ascetismo nato nella miseria e spacciato per un Telepass per il paradiso, o al limite di una sana ipocrisia diurna garante di un discreto, polimorfico e desiderante libertinage notturno, è la negazione stessa del diritto a una vita e un godimento degni di essere vissuti e goduti: un soggetto costruito come asservito e obbediente, con le sue ben delimitate vie di fuga – stupro e sgozzamento, magari nella speranza di essere ritratto in un video accanto alla jihadi-star del momento, o in una vignetta disegnata da Frank Miller – è un vero e proprio programma politico, al quale è necessario e urgente contrapporne un altro, basato su pratiche contrapposte di un riconquistata gioia di vivere.

7. Nella propaganda jihadista, un ruolo centrale gioca l’estremizzazione della hijrah, l’abbandonare la condizione di apostasia e peccato per fare ritorno alla verità. L’hijrah ha un’accezione metaforica ed esistenziale – il passaggio dall’agnosticismo alla pratica religiosa, dall’ipocrisia alla sincerità – ma anche una dimensione di vero e proprio esodo, sulla quale forzano la lettura la propaganda del Daesh: uno dei primi numeri del magazine Dabiq era per l’appunto intitolato “A Call to Hijrah”. Nella propaganda jihadista, l’hijrah è il rifiuto di un qualsivoglia ruolo attivo – politico, sociale, cooperativo, ecc. – nelle società occidentali, l’abbandono dei luoghi egemonizzati dal “cosiddetto modernismo” e il “ritorno” alla terra di Dabiq (luogo mitologico-religioso localizzabile nei pressi di Aleppo dove secondo una profezia avverrà la battaglia finale fra gli eserciti di Allah e quelli cristiani). Non è difficile vedere, in questa ideologia del ritorno alla verità, alla terra natìa, al passato premoderno, il decadente nichilismo heideggeriano visto dall’altro lato del tramonto: quel “non sentirsi a casa come la dimensione più propria” nella quale la crisi post-bellica delle abitazioni veniva mistificata facendola lievitare a una dimensione ontologica e destinale.
AyalUna prima, immediata risposta a questa ingiunzione destinale è quella delle moltitudini che fuggono la morte camminando insieme, come una gigantesca social catena, in direzione opposta, verso la vita. Da cui l’odio verso il profugo che accomuna jihadisti e razzisti [in alto: dal n. 11 di “Dabiq”, magazine di propaganda dell’Isis].
A questo nichilismo bisogna opporne un altro, quel “militantismo aperto, aggressivo, nel mondo e contro il mondo” del quale Foucault ha rintracciato la genealogia: “la vera vita come una vita altra, come una vita di lotta, per un mondo cambiato”.
Alla retorica della paura sui cosiddetti “foreign fighters“, andando davvero a leggere i rapporti e le analisi di intelligence, non corrisponde alcuna adesione massiva dei “musulmani d’Occidente”: nondimeno, il problema di un’intera generazione di immigrati in Europa, il più delle volte di seconda generazione, che vivono la vita indegna che viene loro offerta è, quale che sia la loro attrazione verso le sirene salafite, un problema politico. Il “non sentirsi a casa propria” va rovesciato con l’andare a prenderselo, quello spazio abitativo, lavorativo, socializzante nella quale tornare a sentirsi a casa.

8. Il luogo simbolico per definizione della propaganda salafita e jihadista nella metropoli occidentali è la periferia – la cui dimensione simbolica, codificata nella parola-baule “Banlieue” depositaria di fin troppi significati, al tempo stesso eccede e nega la sua realtà. Come se, per dirla in breve, fossero tutte uguali le banlieue, fossero tutte banlieue le periferie, fossero tutti uguali i banlieusard [ne avevo tentato una lettura → qui]. Nondimeno, questo grumo di problemi è la pietra d’inciampo per le politiche abitative “lisce”, razionalizzanti, illuministiche, dell’urbanistica riformista – da Parigi a Bruxelles, da Londra e Manchester a Roma e Milano, da Atene a Madrid. Il rapporto fra il centro gentryficato delle città, e le crescenti, nello spazio e nel degrado, periferie che lo circondano, sono il riflesso del rapporto fra nord e sud del mondo: e, proprio per la centralità di questa contraddizione, il luogo di una imprescindibile presa di posizione politica che non può esimersi dal porre il problema delle aree metropolitane e della loro gestione in forme autonome e cooperative. Non solo Parigi, ma l’intera rete delle città metropolitane è segnata dalla constatazione che l’unica politica possibile, sull’orizzonte degli eventi prossimi e futuri, è un’alleanza fra i movimenti e le periferie a partire dalla questione delle abitazioni.
Le grandi città italiane hanno da offrire, negli Anni Zero, numerose esperienze che, nelle periferie delle metropoli, producono processi di socializzazione, conquista abitativa individuale e collettiva, centri di cooperazione e microproduzione (dagli orti popolari alle officine meccaniche), socialità e gestione del territorio, fino alle mense popolari – “mangiare bene non è un lusso” è uno slogan che contiene in sé un intero programma politico. Il contrasto fra le ritornate baraccopoli e le migliaia di case popolari sfitte non potrebbe essere più stridente: il diritto all’abitare, che si interseca con il diritto a fuggire dalla miseria e della guerra in cerca di una vita degna di questo nome, confligge con la gestione delle città, dei territori, della salute e del lavoro oggi esistente anche laddove governa la cosiddetta sinistra.
E indica una concreta zona di commistione nella quale la differenza migrante-stanziale non è la più rilevante nella costituzione delle identità.

9. Sembravano giovani. Sparavano con calma, senza dire una parola, un colpo dopo l’altro: come Anders Breivik a Utøya. Predicano l’odio per il diverso. Forgiano menti deboli per poterle poi armare.
Amano la guerra e disprezzano i pacifisti. Sono razzisti. Odiano il mondo moderno, i miscredenti, le donne, i comunisti, gli omosessuali: come Anders Breivik.
“Il vecchio fascismo, quale che sia la sua realtà e potenza in molti paesi, non è il problema all’ordine del giorno. Ci si preparano nuovi fascismi, si installa un neofascismo rispetto al quale l’antico fascismo sembra folkore. Il neofascismo non consiste in una politica e un’economia di guerra: è un’intesa mondiale per la sicurezza, per la gestione d’una “pace” non meno terribile, con l’organizzazione di concerto di tutte le piccole paure, di tutte le piccole angosce che fanno di noi tanti micro-fascisti ansiosi di soffocare ogni cosa, ogni volto, ogni parola che risuona nella propria strada, nel suo quartiere…” (Gilles Deleuze, 1977)
Reboot (dalla pagina fb di Alfio Nicotra): «Nel Califfato tutti i giornali sono come “Libero”. Predicano l’odio per il diverso e armano le menti più deboli. Investono in guerra e disprezzano i pacifisti. Sono razzisti e odiano i miscredenti. Sono fratelli gemelli ed odiano entrambi l’umanità».

maiconsalvini_zerocalcare10. Contro il gemellaggio di fatto fra califfato e fascioleghismo – in culo (con rispetto parlando per il deretano) ai pavidi signori del “chi protesta fa il gioco di Salvini (e di CasaPound, e di ForzaNuova)” – si è palesata ai quattro angoli d’Italia una diffusa resistenza, uguale e dello stesso segno di quella opposta a Bologna allo sgombero di un caseggiato abitato da 300 famiglie, migranti e non. La coscienza antirazzista, solidamente impiantata su pratiche reali di condivisione della miseria fra italiani e migranti – fra esseri umani ed esseri umani – si sta dimostrando non solo un terreno di lotta praticabile, ma il punto di aggregazione di un processo di costruzione di resistenze. E l’aver trovato un emblema – il manifesto della manifestazione romana “MaiConSalvini” disegnato da zerocalcare e riprodotto un po’ ovunque di certo aiuta: con i razzisti, buonisti un cazzo.
Alla schiuma che cola in queste ore dalla bocca delle belve dell’intolleranza e del razzismo è necessario trovare una risposta, che è anche un ulteriore passo in avanti verso una coalizione senza padri nobili – nella quale siamo tutti madri e padri ignobili e plebei – che incorpori nelle proprie pratiche di antifascismo militante l’avversione non solo verso i fascisti di ogni risma – compresi quelli jihadisti – ma anche e soprattutto verso le politiche della paura, del rancore e dell’odio sociale verso il capro espiatorio designato che di ogni fascismo – di nuovo: compreso quello jihadista – costituiscono l’humus.
Se è vero che siamo tutti in fondo a un inferno, è ancor più vero che c’è un solo modo per uscirne: costruire la nostra Starway to Heaven, per andarci a prendere quel maledetto cielo, e rovesciare in basso i suoi attuali villeggianti.

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