di JUKUB DYMEK*.

 

Si potrebbe non ritenere normale che l’ammirazione per il governo autocratico del primo ministro ungherese Viktor Orban, la tolleranza nei confronti della Russia di Vladimir Putin e l’incapacità di migliorare le condizioni di vita nel suo stesso paese, costituiscano parte del progetto della moderna democrazia europea. Ancora una volta, questa è la Polonia. Jaroslaw Kaczynski, il leader dell’opposizione parlamentare PiS (Prawo i Sprawiedliwość, Legge e Giustizia) prometteva niente di meno che avere “Budapest a Varsavia” nel 2011, dopo aver perso una battaglia molto combattuta nelle elezioni precedenti. Le sue opinioni sui benefici della regola del partito unico e sulla conservazione del controllo di tutte le istituzioni dello Stato non è cambiata da allora. Ciò che è cambiato da allora è il fatto di averlo ottenuto. Dopo poco più di 25 anni di trasformazione democratica, la Polonia sta per essere governata da un solo partito ancora una volta.

Nelle elezioni parlamentari di sabato 24 ottobre, l’ala destra di Kaczynski, Pis, ha preso il 37% dei voti e più della metà dei seggi alla camera bassa dei deputati (il Sejm). I conservatori hanno vinto in 61 distretti (su 100), dove i polacchi hanno scelto i membri del Senato. Dal momento che il suo uomo ha già giurato come presidente – Andrzej Duda, di anni 43, ha sorprendentemente estromesso il presidente in carica Bronislaw Komorowski a maggio – il partito di Kaczynski ha tutto il potere nelle sue mani.

Le opinioni politiche della destra polacca non sono così difficili da indovinare – veementemente anti-comunista e ostile persino alla moderata socialdemocrazia, devota e strettamente legata alla chiesa cattolica, nazionalista nella retorica e isolazionista nella politica estera con l’eccezione dei più potenti alleati della NATO – nel Regno Unito e in America. Più interessante dell’orientamento ideologico dell’essere partito al governo è il contesto nel quale è fiorito.

L’Europa, incapace grado di fornire un’adeguata risposta umanitaria, legale e diplomatica all’afflusso di profughi dalla Siria devastata dalla guerra, sta lottando per raggiungere persino il compromesso più basilare sulla questione che sta lacerando il tessuto della UE. Il precedente governo guidato da Ewa Kopacz ha votato per l’adozione del sistema europeo di quote per il trasferimento dei migranti, sebbene con riserva rispetto ad una soluzione permanente e rivendicando che i singoli paesi siano in grado di introdurre restrizioni sulla quantità di rifugiati e migranti che saranno in grado di accogliere. Questo pone il governo di centro destra di PO (Platforma Obywatelska, Piattaforma civica) lontano dai suoi vicini dell’Europa orientale.

Slovacchia, Repubblica Ceca e Ungheria (il cosiddetto “Gruppo di Visegrad” o “i quattro di Visegrad” con la Polonia che ne è il suo più grande membro) erano tutti contro l’azione della UE, con i loro leader che vomitano osservazioni islamofobe e anti-rifugiati con un’eloquenza e un fascino paragonabile solo a quello di Donald Trump. La scissione – non solo simbolica, ma anche politica – tra l’Europa occidentale e il Visegrad non poteva essere maggiore in quel momento, con tensioni e risentimento reciproco che stanno raggiungendo livelli mai visti in molti anni.

Quello che potrebbe essere un avvertimento per il governo precedente – non disposto a verificare le sue possibilità votando contro i tedeschi e guidando l’avanguardia anti-europea con Viktor Orban al loro fianco – è oggi considerato dal futuro governo come una grande occasione di sfruttare le debolezze dell’Unione Europea per guadagnare ancora più sostegno nel paese. Appena un mese prima delle elezioni, Jaroslaw Kaczynski ha messo in guardia sulle “zone della shari’a” in Svezia e in Francia e il rischio per l’identità nazionale a causa dei migranti che “trattano le chiese come servizi igienici”. Con l’isteria anti-rifugiati già al suo apice, il discorso di Kaczynski gli ha assicurato una vittoria schiacciante sull’incombente PO. Ma probabilmente avrebbe sconfitto il partito di governo in ogni caso – le ruote erano state messe in moto mesi, se non anni, prima.

L’anno scorso, la scena politica del paese è stata inchiodata da uno scandalo sulle intercettazioni che coinvolgono i maggiori politici del partito di governo. Anche se l’ufficio della procura non ha ancora raggiunto conclusioni definitive, è opinione diffusa che qualcuno stesse controllando le élite politiche e imprenditoriali della Polonia per interessi privati, forse un ricatto. Noncuranti delle motivazioni – le registrazioni sono venute a galla e la nazione stava leggendo le trascrizioni dei colloqui, piene di oscenità, a testimonianza di come sia costruita la grande politica e dell’impatto degli accordi – stavano a tavola, bevendo vini costosi e consumando pranzi di valore pari alla retribuzione mensile di un cittadino medio.

Il materiale trapelato alla stampa non mostra ovviamente nulla di compromettente, ma il solo danno PR ha spazzato via molti personaggi importanti dalla scena, tra cui l’ex primo ministro Donald Tusk (che ora presiede il Consiglio europeo). La destra moderata (cioè PO) è stato lasciata senza il suo leader. Ci sono stati grandi cambiamenti nel gabinetto: Ewa Kopacz è subentrata a PM, ma la crisi ha visto una escalation. Un attacco in piena regola da parte della stampa di estrema destra e dei media ha servito il colpo finale, lasciando ancora più spazio sulla scena politica per la destra e l’estrema destra.

Subito dopo, l’industria mineraria polacca, importante sia per ragioni simboliche sia economici (dal momento che molte miniere sono di proprietà dello Stato), stava affrontando un’altra spinta alle privatizzazioni, questa volta da parte dell’Unione europea, che vieta grandi trasferimenti di bilancio alle compagnie di proprietà dello Stato, quello che in Brusselese è chiamato “aiuti pubblici illegali da parte dello Stato”. Il governo ha dovuto barcamenarsi tra le proteste dei minatori e i funzionari della UE – cercando di placare entrambi, mentre tentava di non soccombere interamente alle richieste di nessuno. Quando è stato rivelato che il piano per il “compromesso” di privatizzazione era stato redatto non dal governo, ma dalla società di consulenza privata – una missione già difficile è divenuta impossibile, un’altra volta con il risultato di creare maggiori tensioni.

La crisi mineraria è tutt’oggi irrisolta – senza una prospettiva per affrontare la questione che non comporti licenziamenti di massa o ancora una volta il versare denaro in questa industria, incapace di preservare il modello economico della miniera polacca che non può far fronte ai prezzi bassi del carbone sul globale mercato e la concorrenza a buon mercato. Ciò ha consentito inoltre un importante riallineamento politico: i sindacati e i lavoratori si sono alleati con i populisti dell’estrema destra e con PiS che li ha sostenuti fino in fondo per tutto il percorso, mentre la sinistra era divisa, più debole sulla questione e legata ai suoi impegni relativi alla questione ecologica.

L’ultimo atto dei tre è stato la crisi greca – il governo ha sostenuto Bruxelles nella sua posizione di austerità, sul principio della disciplina di bilancio e sulla necessità di ridurre la spesa pubblica come un imperativo condiviso nella zona euro. L’ex primo ministro Donald Tusk stava giocando – con effetti migliori e peggiori – il ruolo del poliziotto cattivo nell’ultima fase dei negoziati. E mentre il supporto per i greci in Polonia è tutt’altro che inequivocabile, l’eco di PO sulla posizione in favore dei tagli della Germania accompagnato dal dogma “Bruxelles-ha-sempre-ragione” non è stato visto come una strategia credibile. I partiti di opposizione hanno condannato (e giustamente) il coinvolgimento di Varsavia su una questione in cui il paese non prende parte, dal momento che l’euro non è la valuta nazionale in Polonia e non lo sarà tanto presto.

Inoltre, l’aver accusato delle cause della crisi economica le piccole nazioni europee ed aver preso le parti della più forte Germania non ha impressionato l’elettorato conservatore in Polonia, più che altro desideroso di sostenere l’autonomia e la sovranità dello stato nazione contro l’Unione Europea. Non ha aiutato il fatto che nella sua campagna elettorale il partito di centro destra abbia più volte paragonato i suoi oppositori alla presunta incoscienza (spericolatezza) del primo ministro greco Tsipras, che ha vinto tre volte le elezioni in Grecia (compreso il referendum) dal momento in cui era appena cominciata la campagna elettorale polacca. Il partito della sinistra radicale greca Syriza ha infatti (snatched) la retorica nazionalista e semplicemente per questo non abbastanza per I polacchi uniti dall’orgoglio dell’identità patriottica (e spesso nazionalista). Guardando ai risultati elettorali, è facile comprendere per quale motive uno scenario differente fosse stato difficilmente possibile.

Anche se l’Europa non era stata messa da parte dall’egoismo nazionale per un’autonomia, reale o immaginaria, dello stato nazionale, il partito di governo ha dimostrato ai nazionalisti e ai conservatori che era esattamente questo quello di cui avevano bisogno, e lo ha fatto per ben tre volte di fila. Lo scandalo delle intercettazioni ha mostrato la corruzione, l’alienazione e l’arroganza delle elite pro EU – sentimento che presenta delle risonanze con l’umore anticasta che prevale nell’Europa post-crisi. E seppure esiste una sinistra forte nel paese, anche se non visibile, la crisi dei rifugiati e la Guerra in Ucraina hanno ulteriormente rafforzato le spinte isolazioniste, militariste e scioviniste che si sono estese nella società mentre i tradizionali messaggi di pacifismo, umanitarismo e tolleranza sono stati marginalizzati e resi inefficaci a livello politico, tanto che è stato più difficile, anche per la sinistra stessa, rivendicare quei valori per non diventare aliena rispetto alla sua stessa base. E questo non è avvenuto solamente nel paese, ma nell’intera area regionale – lasciando i progressisti di ogni sorta (compresi i più moderati) senza alleati, e consegnando un elettorato impaziente, emotivo e frammentato alla spinta per un’azione immediata, alle dichiarazioni dure e ad una retorica esaltata, tutte questioni a cui la destra ha saputo rispondere al meglio. Più sono estreme le richieste, più è facile per la destra rispondere.

E la sinistra? Dei due partiti che hanno partecipato alle elezioni, il primo è una versione ringiovanita e reiventata di un partito della vecchi guardia (Zjednoczona Lewica , Sinistra Unita) e il secondo (Razem, Insieme), alla sua prima campagna elettorale, è un partito nato da collettivi di base socialisti e socialdemocratici senza una forte leadership, ispirato all’esperienza spagnola di Podemos, non ha nemmeno ottenuto un seggio in Parlamento. I due partiti assieme hanno superato il 10% – Sinistra Unita ha preso il 7,5 e Insieme il 3,4. Il perché di tutto ciò è un’altra storia – potremmo fare alcune considerazioni, fin troppo note, sul fatto che la vecchia sinistra sia troppo vecchia e corrotta e la nuova sinistra troppo giovane e slegata dalla base operaia – ma quel che occorre ricordare è che il massimo livello raggiunto dai due partiti sono un paio di dozzine di seggi in un parlamento ne ha 460.

Una cosa è certa: l’Europa orientale è agganciata al carro di Orban e la Polonia è il primo paese nel seguirlo. Tutti e cinque i partiti che sono entrati nel parlamento rappresentano, in forme differenti, la destra politica, da quella neoliberale al centrodestra fino al populismo nazionalista. Una delle piattaforme politiche è guidata da Pawel Kukiz (kukiz15) un cantante che guida un assemblaggio di libertari, businessman, nazionalisti e celebrità a partire dalla promessa di distruggere il sistema dei partiti e di cambiare la costituzione. Ovviamente tra questi partiti vi sono anche gli estremisti: 9 dei prossimi membri del Parlamento sono i firmatari del “Patto nazionale”, promettono di “preservare la purezza etnica nazionale”, “supportare tutti i movimenti che intendono militarizzare la nazione” ed attaccare gli attivisti di sinistra, i movimenti queer e i “traditori”. In una recente manifestazione nazionalista hanno minacciato di impiccare il primo ministro e di tagliare la gola ai musulmani.

C’era da aspettarselo? Si. Si poteva evitare tutto ciò? Forse. Ma, come dice Jacek Kuron, leader dell’opposizione e attivista per la democrazia nella Polonia socialista, “la democrazia è un sistema che ci garantisce di non essere governati meglio di quanto meritiamo”.

 

Traduzione di Claudia Bernardi e Alioscia Castronovo per DinamoPress.

 

*Attivista ed editore di Krytyka Polityczna @jakub_dymek Polonia. L’articolo è stato pubblicato nella versione originale inglese sulla rivista Dissent.

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