di SANDRO CHIGNOLA.

 

Si dice che solo dal punto di vista di chi sia sconfitto sia dato comprendere i processi di lunga durata. Solo chi abbia perso tutto si volge all’onda che lo ha travolto cercando di scorgerne le profondità e di identificarne i ritmi e le correnti. Non è il respiro breve del vincitore, inebriato del presente della conquista, quello capace di confrontarsi con i tempi dilatati della storia. Reinhart Koselleck, la cui biografia annovera anni di prigionia in Urss dopo lo sbandamento della Wehrmacht, ha scritto pagine importanti a questo proposito.

Uno dei suoi maestri, Carl Schmitt, è nel 1945 uno di questi sconfitti assoluti. Da tempo in rotta con il nazismo, cui imputa di aver approfondito il solco tra legalità e legittimità per aver ridotto il diritto a «un’arma velenosa» nelle mani del Partito, preda di una quotidiantà estremamente difficile – non riceve da mesi lo stipendio, vive in una Berlino devastata dai bombardamenti, subisce un primo arresto da parte dei militari sovietici -, si definisce allora, non senza una certa auto accondiscendenza, «annientato e calpestato» come «lo sconfitto della guerra giusta degli altri». I suoi interessi teorici si sono spostati sul terreno del diritto internazionale. Da mesi sta portando avanti la stesura del Nomos della terra. Rimane comunque un grande professore di diritto.

L’industriale Flick

È in questo contesto che va collocato lo scritto (pubblicato solo postumo) che ora Il Mulino rende disponibile per la prima volta al lettore italiano nella traduzione di Furio Ferraresi e con un’ottima e, come sempre, molto accurata presentazione di Carlo Galli (La guerra d’aggressione come crimine internazionale). Si tratta del parere che Carl Schmitt redige su richiesta dell’industriale Friedrich Flick, uno dei principali esponenti economici del regime, in vista di una possibile e, ovviamente molto temuta, accusa di complicità con la guerra di aggressione nazista.

Non è importante come andrà a finire. Schmitt guadagnerà un poco di denaro e, arrestato questa volta dagli americani, finirà a sua volta sul banco degli accusati con la minaccia di un processo proprio per il reato di guerra di aggressione; Flick, che evita l’accusa che lo preoccupa, finirà però condannato a sette anni di carcere per crimini contro l’umanità avendo forzato al lavoro nelle sue imprese lavoratori stranieri schiavizzati dalle SS.

Scarcerato in anticipo, Flick rifiuterà pervicacemente sino alla morte di risarcire i prigionieri superstiti. Interessante è piuttosto la struttura del parere legale schmittiano: per l’incrocio con tematiche che lo avevano occupato in Il concetto di guerra discriminatoria (ne scrivemmo sul manifesto in occasione dell’uscita della traduzione italiana) e che egli tratterà negli anni a seguire nel Nomos della terra e per un’argomentazione che entra nel merito del dibattito aperto dai giuristi delle Forze Alleate in relazione alle norme fondamentali per i processi contro i crimini di guerra.

Sono tre le fattispecie del crimine di guerra che Schmitt elenca in apertura del suo Parere. La prima si riferisce a violazioni del diritto in guerra (jus in bello). Si tratta di infrazioni di regole (relativamente al trattamento dei prigionieri, ad esempio) che presuppongono il fatto che la guerra sia lecita e «messa in forma» dal diritto internazionale. Di natura essenzialmente diversa è il secondo tipo di crimini di guerra sul quale si appunta l’attenzione di Schmitt.

Qui si tratta non già di «acts of violation of the Laws and the customs of war», come è il caso della prima fattispecie, ma di vere e proprie «atrocities» compiute contro vittime indifese ed inermi. Scelus infandum, questo tipo di crimine qualificato come «scelleratezza infame» forza e rompe criteri e limiti del diritto penale e internazionale. Chi se ne renda colpevole viene messo al bando della comunità giuridica. Una terza fattispecie si segnala invece per la sua origine recente. Qui è proprio la guerra di aggressione ad essere trattata come un crimine in sé. La criminalizzazione della guerra di aggressione acquista un interesse pratico solo a partire dalla prima guerra mondiale e dai Trattati di pace di Parigi, l’autentico punto di frattura della più recente storia giuridica. Schmitt ne aveva appunto scritto in Il concetto di guerra discriminatoria.

È solo dopo la prima guerra mondiale che, per la crescente egemonia del sistema giuridico americano, tanto il sistema del diritto pubblico continentale (che riconosce agli Stati uno jus ad bellum, e cioè la guerra come strumento legittimo di politica internazionale), quanto quello di common law britannico (che ritiene punibili anche i mala in se, oltre ai mala prohibita, e cioè proprio le «atrocities» di cui poco sopra), viene producendosi quella commistione tra principi giuridici e principi morali, che perviene a condannare la guerra di aggressione, trattandola come un crimine in se stessa. Su questa trasformazione che investe il concetto di guerra Carl Schmitt torna in diverse occasioni a partire dagli anni Trenta. La guerra, che sino ai Trattati di pace era trattata secondo il modello dello ius publicum europaeum — essa era di fatto un duello tra entità statali giuridicamente paritarie che si svolgeva in uno spazio politico puro e cioè «libero» rispetto a istanze morali o di giustizia (e non poteva che essere così, dato che la scienza giuridica e politica moderna aveva faticosamente conquistato il proprio spazio sulle rovine delle guerre di religione) – viene allora riqualificata e caricata di contenuti extragiuridici. Distinguendo tra guerra giusta e guerra ingiusta – ingiusta sarà la guerra di aggressione, ovviamente, come qualsiasi guerra che calpesti i diritti dell’«umanità» – viene eroso il margine sul quale era stato edificato il sistema del diritto internazionale e prodotta quella che, agli occhi di Schmitt per primo, si presenta come un’autentica catastrofe.

Ritorsioni seriali

Non soltanto la commistione tra morale e politica che ora si impone reindirizza lo scontro tra potenze ad uno scontro «culturale» tra bene e male che può essere indefinitamente dilatato, se la guerra è guerra umanitaria o caccia ad un nemico che, come nel caso del pirata, può essere qualificato come hostis humanis generis, ma la stessa pace, una volta non più garantita dall’equilibrio delle forze, esprime uno stato di incertezza e di sospetto permanente, se dei poteri si vagliano le «intenzioni» e nessuno di essi può essere risospinto nelle sue frontiere di pertinenza.

«Umanizzata», e cioè asimmetricamente condotta in nome della giustizia contro un nemico a sua volta disumanizzato perché criminale, la guerra diventa vendetta infinita, discriminazione, strumento per la dilatazione dell’influenza di colui che pretende di parlare (per Carl Schmitt: in americano…) per conto degli universali diritti dell’umanità.

Pur nella chiara evidenza della tendenza, tuttavia, la questione non è ancora decisa. Nel senso, almeno, che la trasformazione che a partire dai Trattati di Parigi ha travolto il sistema di rapporti tra Stato, guerra e diritto internazionale, non ha sedimentato un ordine nuovo: norme certe e istituzioni internazionali in grado di renderle esecutive. Il parere che Schmitt redige per Flick ribadisce il sistema di riferimenti della scienza giuridica ancora in vigore: la guerra deve essere considerata un atto di sovranità di cui sono responsabili gli Stati e non certo i singoli cittadini, che sono tenuti ad obbedire al potere legale.

Giano e la soglia

Si tratta di un argomento che scagiona l’«ordinary businessman economicamente attivo» — come lo era Flick, nonostante i suoi schiavi – da ogni responsabilità penale. Ed è un argomento, questo, che, come molto opportunamente rileva Carlo Galli, suonerà molto familiare nella Germania del dopoguerra: la seconda guerra mondiale come una guerra tradizionale, segnata certo da atrocità, delle quali non si macchiarono però i singoli cittadini, ma solo Gestapo e SS, e che potranno essere perseguite dalla giustizia ordinaria tedesca.

E tuttavia, tra le rovine di Berlino, Schmitt è molto più lontano che guarda; all’indietro e oltre il presente che abita, figura di soglia come lo è ogni Giano. La trasformazione del concetto giuridico di guerra comporta conseguenze radicali in ordine alla categorie spaziali complessive della politica e alla modificazione generale dei quadri del diritto (non solo) internazionale. I «pionieri della criminalizzazione della guerra», come lui li chiama, tolgono la possibilità stessa di una posizione neutrale, nel loro chiamare allo scontro con il male. Non c’è più un fuori nella guerra civile infinita che si scatena come guerra non tra Stati, ma come guerra interna all’umanità; come guerra tra un universale astratto e un nemico inteso come puro criminale.

Quanto attraverso questo passato e la quasi irrilevante vicenda dell’impunito Flick proceda verso il presente cui apparteniamo può intuirlo in questo caso solo la sonda – bacchetta di rabdomante, intuito del profeta, scienza tagliente del giurista – dello sconfitto Schmitt.

 

Questo articolo è uscito anche su il manifesto il 19/12/2015.

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