di CARLA PANICO e FRANCESCO FESTA. 

 

Autonomia ed eccezione in La politica dei subalterni. Organizzazione e lotte del bracciantato migrante nel Sud Europa di Francesco Caruso.

1. Letteratura e realtà risultano essere pratiche indistinguibili quando toccano argomenti caldi come è quello del crimine, divenendo una sorta di fantastico schermo su cui si proiettano le ansie sociali e le inquietudini culturali di una società. Nel corso dell’Ottocento la proiezione immaginaria e i processi di simbolizzazione hanno prodotto la realtà. Ad esempio, Les Mystères de Paris, i famosi criminali disegnati da Honoré de Balzac, la letteratura di Féval, la pubblicazione dei primi feuilletons e la nascita di fogli dedicati interamente alle vicende giudiziarie hanno dato vita a personaggi e modalità di invenzione del discorso pubblico straordinariamente imprevedibili. Nondimeno sono stati il riflesso di “grandi trasformazioni” nell’accumulazione capitalistica che hanno aperto la strada alla distinzione fra classe laborieuse e classe dangereuse: all’idea, cioè, che vi sia un gruppo sociale, quello dei delinquenti in sé, immaginato come separato dal resto della società, e definito così attraverso un processo di messa a distanza, di creazione di differenza. E se in Inghilterra la parola chiave per delineare le “classi pericolose” è infatti estrangement, “straniamento”, in Francia tale processo è reso con l’omologa espressione un peuple à part. Entrambe queste definizioni contrappongono, insomma, il “mondo per bene” a una classe infima, anormale che vive al di fuori dell’attività ordinaria degli ingranaggi sociali.
È possibile rintracciare affreschi vividi e terribili di questa umanità deviante in alcuni classici della letteratura dell’Ottocento, che raccontano la nascita del proletariato industriale. Ne La situazione della classe operaia in Inghilterra, Friedrich Engels descrive icasticamente gli operai come «fantasmi pallidi, lunghi, dal torace stretto, e dagli occhi infossati», «visi flaccidi, deboli, assolutamente privi di ogni energia», «costretti a vivere in abitazioni umide», «scantinati nei quali l’acqua penetra dal basso», case donde l’aria viziata «non può uscirne» e addosso «abiti di qualità scadente, laceri o mal ridotti e alimenti cattivi, adulterati e difficilmente digeribili.»
A dispetto dei decenni trascorsi e della fascia climatica di ambientazione, queste immagini tornano identiche quando si provano a raccontare i ghetti abitati, oggi, dalla forza lavoro migrante del comparto agricolo: dai campi per la raccolta del pomodoro nel foggiano, passando per la raccolta delle arance nella Piana di Gioia Tauro e altrove, si dispiega la cartografia nascosta dei nuovi “dannati della terra”, indispensabili per la nuova accumulazione capitalistica. Lavoratori che sembrano selvaggi, parimenti a come Louis Chevalier in un altro classico, Classi lavoratrici e classi pericolose. La Parigi nella rivoluzione industriale, ripercorreva la drammatica vita degli operai temporaneamente esclusi dal ciclo produttivo – battezzati come pericolosi all’opposto degli operai integrati, ossia i laboriosi – , nondimeno indispensabile manodopera di riserva per la produzione industriale. «Questa popolazione operaia e veramente primitiva presenta tutti gli aspetti della condizione del selvaggio. Se vi avventurate nei quartieri maledetti in cui vive, incontrerete a ogni passo uomini e donne segnati dal vizio e dalla miseria e bambini seminudi immersi nel sudiciume e chiusi in bugigattoli senz’aria né luce. Vedrete là, nel cuore stesso della civiltà, migliaia di uomini ridotti dal loro completo abbrutimento a una vita da selvaggi; la miseria vi si presenterà sotto un così orrido aspetto da ispirarvi più disgusto che pietà, e da indurvi a considerarla come il meritato castigo di un delitto.» Questo scorcio di Parigi della Rivoluzione industriale può descrivere, senza che la differenza salti all’occhio, uno dei tanti insediamenti informali della provincia di Almerìa oppure della provincia di Caserta o di Foggia, raccontati da Francesco Caruso in La politica dei subalterni. Organizzazione e lotte del bracciantato migrante nel Sud Europa (DeriveApprodi, 2015) .caruso1

2. Il XXV quaderno dell’opera di Gramsci è quello dedicato alla «Storia dei gruppi sociali subalterni». Il tema era già stato affrontato nel primo e nel terzo quaderno, laddove, però, Gramsci parla di «Classi subalterne» invece che di «Gruppi sociali subalterni». Da questa evoluzione semantica parte significativamente la riflessione di Caruso. Una scelta lessicale che, non a caso, si situa esattamente nel punto di rottura in cui i testi gramsciani hanno saputo dare vita a intere, fruttuose, stagioni di studi e di pensiero, a partire dalle letture di Stuart Hall nei Cultural studies britannici fino agli interrogativi posti dai Subaltern Studies indiani. Il punto di partenza rimane l’attenzione alla subalternità, che non si misura «solo sulla base della composizione tecnica di classe, ma anche della composizione politica».
Ed è proprio la questione della composizione politica dei gruppi subalterni a porre come variabile fondamentale della loro stessa definizione non il grado di assoggettamento, ma al contrario il livello di autonomia espresso dalle loro lotte e i processi di soggettivazione che le stesse lotte producono. Infatti, in una lettura scorrevole delle tappe delle lotte di migranti in Spagna e in Italia, l’autore ricostruire quegli spazi di autonomia che i movimenti di migranti strappano ogni giorno con il coraggio e il protagonismo delle lotte. Spazi politici da non confondere con gli spazi della “società civile”: qui, ad onta dello sfruttamento dell’illegalità del “clandestino”, è l’individuo legalmente proprietario ad essere tutelato. Piuttosto sono spazi dell’eccezione, di classi separate dalla società che emergono dall’illegalità subita per affermare il proprio diritto politico all’esistenza. A ben guardare, il testo di Caruso fa eco alle ricerche di Ranajit Guha e Partha Chatterjee per tradurre le intuizioni di questi due autori nell’Europa meridionale. Per Guha, i subalterni giustificano l’attività dei gruppi dominanti, poiché «la subordinazione non può essere compresa se non come uno dei termini costitutivi, assieme al dominio, di una relazione binaria secondo la quale ‘i gruppi subalterni sono sempre soggetti all’attività dei gruppi dominanti, anche se essi si ribellano e insorgono’». Sovranità e governamentalità, subalternità e autonomia/resistenza sono i poli sui quali si muove l’azione politica delle classi dominanti. L’affermazione del dominio parla eloquentemente anche del suo Altro, della resistenza e dell’autonomia. La subordinazione come ideale e come norma deve giocoforza riconoscere l’esistenza e la possibilità dell’insubordinazione; e, proprio per questo, deve ricondurla all’interno di uno spazio, quello dell’eccezione e della pericolosità, dove la sospensione della norma permetta l’introduzione di forme multiple di controllo e sicurezza, destinate a specifici gruppi di popolazione. Questo spazio, per Chatterjee, è la «società politica», lo spazio dell’eccezione, «lo spazio di connessione, negoziazione e contestazione creato dalle attività governamentali che effettuano azioni politiche di sicurezza e di benessere indirizzate a specifici gruppi di popolazione.»
L’autore dona senso politico a coloro che vivono ai margini della Storia, sottoposti ai dispositivi d’eccezione e alle politiche d’emergenza delle classi dominanti, sul cui sfondo agiscono carsicamente i processi di razzializzazione. Nondimeno, la costruzione di senso è sempre un corpo a corpo con le resistenze dei subalterni e con la capacità di violare la reversibilità dei dispositivi. Esemplare, nell’anno appena trascorso, è stata la potenza di donne e uomini che hanno violato la Fortezza Europa, attraversato il confine, donando così senso politico a un’Europa viepiù ostaggio di identità, fascismi e sovranismi. Le/i migranti sono stati in grado di invertire il senso di questi dispositivi, convertendoli in armi e strumenti di organizzazione. E gli esempi del libro s’inscrivono nella narrazione di un nuovo internazionalismo proletario che, nello spazio europeo, le/i migranti sono stati in grado di esercitare, tanto nelle pratiche di contrattazione collettiva, oltre le normative nazionali, quanto di produzione di contropoteri, nonostante la violenza del caporalato e delle multinazionali agricole.

3. Con questi ancoraggi teorici, davvero forti, individuare come campo di analisi le lotte del bracciantato migrante contemporaneo nel Sud Europa, e in particolar modo in due aree agricole che fungono da serbatoio ortofrutticolo per l’intero continente (la provincia di Almerìa in Spagna e l’area di Castel Volturno in Campania), permette all’autore di riuscire felicemente nella non scontata operazione di riportare a casa Gramsci: vale a dire di usarlo sul campo, liberamente, come “cassetta degli attrezzi” dell’indagine sociologica, in definitiva rottura con la sua trasformazione in monolite nella tradizione del PCI. Per compiere quest’operazione, è necessario, appunto, un giro largo, una sprovincializzazione definitiva, un rientro sulla scena dei contadini del Sud osservati – e mai mitizzati – da Gramsci, che passa, però, dalle insorgenze dei movimenti naxaliti indiani.
L’uso di tale prospettiva “decolonizzata” dai condizionamenti della politica tradizionale, sempre pronta a bollare come “prepolitica” qualunque espressione delle insorgenze meridiane, insiste sulla profonda autonomia delle lotte dei migranti; ciò rende queste esperienze più simili e vicine a quelle dei movimenti autorganizzati del Sud Italia, come i precari e i disoccupati napoletani, che a qualunque espressione dell’umanitarismo conto terzi che caratterizza sindacati, partiti ed enti non governativi, la cui prospettiva “rischia di sottovalutare e mortificare il protagonismo sociale dei migranti, relegati a meri fruitori di servizi, assistenza e benevolenza all’interno di un campo d’azione nel quale gli attori in gioco sono da una parte i fautori locali delle politiche repressive e dall’altro i sostenitori delle politiche d’accoglienza”.
caruso4Una delle cifre del libro è il dialogo di differenti filoni di studi: dalle analisi gramsciane e postcoloniali della rete Orizzonti meridiani sul Sud Europa alle ricerca degli spazi di contro-soggettivazione e autonomia che nelle periferie d’Europa, ormai cuore dell’accumulazione, vanno producendosi. Infatti, l’autore rilegge la periferia non più come spazio di esclusione e marginalità, bensì come confine che svolge, per dirla con Mezzadra e Neilson, quella doppia funzione di inclusione ed esclusione. In altri termini, la periferia come un sistema poroso: per impedire l’accesso, escludere, segregare, da una parte; e dall’altra per accogliere, includere, comprendere e, quindi, per mettere a lavoro. L’autore s’inserisce in quegli studi che illuminano la cittadinanza dal punto di vista del confine: detto con Mignolo, pensano al «confine dal confine stesso».
E dalla porosità del confine e dalla politicizzazione di coloro che lo attraversano è possibile anche cartografare il potere, in particolare, le maglie del potere nello spazio europeo. Le migrazioni sono infatti terreno ideale per cogliere le trasformazioni della mappa del potere; o meglio, per comprendere quanto la mappatura appaia sempre più problematica, nel contesto dei nuovi e mutevoli assemblaggi di territori, autorità e diritti, nei quali sovranità statale e governamentalità coesistono e interagiscono con l’azione autonoma dei migranti.
Le lotte contro il capolarato e contro lo schiavismo sono un’altra chiave privilegiata dall’autore per leggere il mondo dalla prospettiva del confine. L’azione sociale dei confini, in effetti, produce sempre specifiche soggettività; tali soggettività, a loro volta, contribuiscono a rimodellare quegli stessi confini, e ciò avviene spesso in via conflittuale. I conflitti sono sempre, in quanto tali, segnali di confine, spie della differenza e, più precisamente, della difficoltà di superare l’impatto prodotto dall’incrocio tra differenze – siano esse espresse in forma territoriale o sovraterritoriale.
In tal caso i confini del proletario contemporaneo appaiono straordinariamente ancorati ai confini tracciati dal caporalato e dallo sfruttamento del lavoro bracciantile a cavallo fra l’Otto e il Novecento nel Mezzogiorno d’Italia. In quell’epoca, le lotte di braccianti e contadini, il movimento cooperativo, le camere di mutuo soccorso, i monti frumentari, hanno aperto nuove prospettive di partecipazione politica, ma anche e soprattutto nuove organizzazioni del lavoro e del reddito, soprattutto nell’Italia meridionale. D’altronde, la storia del sindacalismo affonda le sue radici proprio nel solco di queste lotte, e Francesco Caruso riprende le fila di questo percorso, intuendo la necessità di saldare la questione migrante nel Sud Europa alla più che mai vivace riflessione sull’esaurirsi dell’esperienza classica del sindacato e sulle nuove forme di sindacalizzazione, che attraversa il dibattito dei movimenti politici italiani negli ultimi anni.

4. A rinforzare la saldatura c’è il recupero necessario della storia del sindacalismo americano dei primi del Novecento, che ha immaginato pratiche autorganizzate di sopravvivenza, in particolar modo di quella fondamentale componente di lavoratori migranti che provenivano dall’Europa. L’esperienza dell’Industrial Workers of the World, come forma organizzativa (pre)sindacale, si caratterizzava per la capacità di interpretare e mettere in comunicazione la molteplicità del lavoro etnicamente connotato: quello che, grazie all’esperienza coloniale, il capitale aveva ben imparato a mettere a valore nella sua proteiformità, piuttosto che a uniformare forzosamente. I wobblies, al debutto del secolo scorso, cercavano un’immaginazione politica che permettesse loro di confrontarsi con un problema di grande attualità: non «come si rappresentano gli irrappresentabili», ma piuttosto, «come si organizzano gli inorganizzabili?»
caruso3Tale frammentarietà si esperiva nelle differenze linguistiche, etniche, religiose, e si compiva nella forma «dei salari infimi, orari di lavoro differenziati, squallide condizioni di lavoro, scarsissima diffusione del contratto di lavoro, totale assenza della contrattazione collettiva, licenziamenti mirati e improvvisi, repressione violenta degli scioperi, impiego di squadre di punizione nelle fabbriche». È una frammentazione delle forme del lavoro che oggi abbiamo imparato a vivere come radicale, pervasiva di tutti gli ambiti produttivi, soprattutto da quando abbinata al progressivo passaggio dal fordismo al post-fordismo, in cui le condizioni di sfruttamento mantengono vivissima la propria articolazione razzializzata, estendendosi a qualunque margine non solo di razza, ma anche generazionale o di genere che abbia incontrato nel suo allargamento.
Le/i migranti si trovano ad essere non simbolo di un maggiore grado di subalternità, quanto piuttosto una figura profonda, densa, della estrema frammentazione del lavoro contemporaneo, della moltiplicazione di confini che, nell’inclusione al mondo del lavoro, sono funzionali a creare infinite soggettività a seconda di differenti gradi di integrazione.
La profonda autonomia delle lotte dei subalterni apre dunque orizzonti interessati in quel campo del possibile che va sotto la definizione di sindacalismo sociale: ossia in quel nome comune «in grado di rendere conto della proliferazione di dispositivi di lotta che vanno riconfigurando radicalmente le tradizionali forme del conflitto dentro e oltre il lavoro» e che potrebbero alludere alla definizione di una nuova forma sindacale. La sfida risulta quella di un atto immaginativo in grado di trasformare forme di sopravvivenza individuali e competitive in pratiche collettive e unitarie di pressione sui padroni, che sappiano essere mobili sui territori e rimodulabili su nuclei aggregativi di varia entità.
Come nel caso dei wobblies, non si tratta di ridurre all’interno di una categorie predefinita la molteplicità delle frizioni che si producono, per poi rappresentarle unitariamente, ma, al contrario, di uno sforzo che si percepisce come continuamente insufficiente a rappresentare il reale e che prova a creare spazi in cui le sue molteplici forme possano non solo comunicare, ma anche organizzarsi.

5. L’analisi di Caruso delinea senza mezzi termini le durissime condizioni di lavoro nelle campagne dell’Andalusia e di alcune province del Mezzogiorno d’Italia, aspetti che difficilmente trovano spazio nel dibattito pubblico grazie all’imperversare in Europa di ideologie di stampo razzista. Il lavoro agricolo a cui sono destinati i migranti è sommerso, continuamente mutevole e precario; ma ha nel complesso una continuità massacrante, sebbene segua spesso ritmi stagionali, ed è vincolato ad una forma salariale mortificante e senza dubbio insufficiente.
I migranti, quindi, lavorano, eppure si situano in un limbo che rende impossibile collocare le loro rivendicazioni né tra quelle dei lavoratori “classici” (quindi tra le vertenze di tipo esclusivamente salariale), né tra quelle di chi non lavora, oppure è precario, e per tradizione politica reclama forme di reddito diretto e indiretto. La stessa rivendicazione di reddito come misura assistenzialistica, come necessità che riguarda solo chi si trova in condizioni di assenza di lavoro rivela tutta la sua insufficienza davanti alla enorme presenza, in Italia come nel Mediterraneo, del lavoro migrante, in particolar modo dell’incidenza che esso ha nel comparto della produzione agricola, quindi di un pezzo fondamentale del lavoro “materiale”, e al tempo stesso periodicamente intermittente: i braccianti migranti sono lavoratori stagionali che percepiscono salari, sebbene di entità infima e estremamente irregolari, intorno ai quali è quotidianamente necessario condurre una battaglia di dignità; e al tempo stesso necessitano di misure di reddito diretto e indiretto. Le lotte del bracciantato migrante parlano della necessità di misure di reddito incondizionato, slegato dai vincoli angusti della cittadinanza, e quindi dei suoi correlativi, proprietà materiale e lavoro.
La questione migrante riconduce il reddito alla sua funzione di arma di aumento del potere contrattuale per chi deve offrirsi nel mondo del lavoro: non più una massa di ricattabili dannati della terra, che non hanno niente e sono disposti a tutto, facili prede dello sfruttamento. Percepire reddito, per i migranti, significherebbe anche potersi permettere di rifiutare lavori indignitosi, cosa che imporrebbe un aumento generale del costo del lavoro: ciò può avvenire, unicamente, all’interno di economie che non conservano sacche di forza-lavoro (come solitamente è quella migrante) in condizioni di ricattabilità totale, disposta ad accettare salari ribassati e privazione di diritti, liberamente sfruttata e impossibilitata ad entrare in qualunque contrattazione.
Nel descrivere l’agricoltura intensiva nella provincia di Almerìa, in Spagna, come il lavoro migrante multifunzionale nella piana del Volturno, Caruso si serve della definizione di «distretti rururbani della clandestinità». In questi territori, in cui il lavoro e l’esistenza stessa risultano sommersi, il paradigma morale della legalità smette apertamente di funzionare, e le lotte stesse dei migranti se ne situano fuori, poiché non hanno come obbiettivo un cambiamento legislativo generale, ma rivendicano, anzi la propria specifica eccezionalità come canale di contrattazione. Questo ha dato sponda a quanti (in accordo con il tradizionale sguardo coloniale della sinistra italiana) hanno preferito liquidare questi movimenti etichettandoli come semplice prodotto della criminalità organizzata, quasi si fossero fatti contagiare da una pulsione antropologica tipicamente meridionale. La manifestazione che i sindacati confederati hanno convocato – fuori tempo massimo – a Rosarno il 1° Maggio 2010, era interamente incentrata sul tema della legalità, interpretata come rovescio manicheo del sistema del lavoro nero e del caporalato, che invece costituivano una “presa del potere da parte dei più forti in termini in fondo molto innocui, come macchinazione del racket al di fuori della società, non come compiersi della società in sè”.

6. È necessario mettere al centro questa osservazione: la situazione di semi-invisibilità e il regime ai margini (se non ben oltre i margini) del diritto che caratterizza il lavoro agricolo dei migranti non va analizzato come anomalia, non nel senso della casuale creazione di un ordine transitorio al di fuori del “normale” scorrere del tempo del lavoro sancito dall’ordine giuridico. Il paradigma di illegalità in cui si inserisce il lavoro migrante è costitutivo della forma lavoro che presuppone, è unico possibile modo di articolazione di questo comparto della produzione nell’Europa odierna: è importante ricordare, oggi più che mai, che lo sfruttamento sregolato di questi lavoratori informali non avviene alle spalle della legge o nell’inconsapevolezza di chi la amministra: riguarda, invece, a quelle zone d’ombra costitutive e necessarie dell’attuale ordine economico globale. Questa sola osservazione basti a disfare qualunque retorica razzista che si addensi intorno all’immagine dei migranti “che rubano il lavoro” agli autoctoni: esistono interi comparti produttivi, primo fra tutti quello descritto dal libro di Francesco Caruso, che si reggono su una forma lavorativa che solo i migranti sono disposti ad assumere, e che può sopravvivere nelle sue articolazioni più brutalmente produttive solo perché modellata su questa specifica figura antropologica della forza-lavoro.
Emerge quindi un dato mai scontato: il razzismo non è un fatto culturale da combattere con strumenti umanitari; è innanzi tutto una formazione storicamente determinata all’interno dei rapporti di produzione, e che li struttura mediante lo strumento della razzializzazione, ovvero la divisione del lavoro su base etnico-razziale. Il paradigma disciplinare, quindi, coesiste completamente con quello governamentale nella figura del bracciante-migrante, i cui spostamenti non vengono semplicemente limitati, ma soprattutto irregimentati all’interno di un sistema di estrazione di valore. Dal punto di vista non solo economico, ma anche della libertà di movimento, il migrante deve sempre qualcosa, secondo Deleuze, non è più «l’uomo recluso, ma l’uomo indebitato.»
Ogni battaglia anti-razzista, quindi, non può che inserirsi all’interno di un radicale rifiuto del modello economico vigente nella sua interezza, nella sua necessità di allargare i propri paradigmi di sfruttamento sulla linea del colore: la battaglia dei migranti, oggi, non è e non può essere altra cosa dalla battaglia di chi si oppone alla legge dei mercati e al governo dell’austerity.
Sembra esserci un invito da cogliere dal libro di Francesco Caruso: mentre guardiamo all’Europa dobbiamo innanzi tutto scegliere da che parte prendere in mano la mappa per orientarci: con l’esplodere di una vera e propria nuova questione meridionale su scala Europea (con particolare forza nel 2015, a partire dalla “questione greca”), la razza come dispositivo di regolamentazione della forza-lavoro ritorna detonante nel ventre dell’Europa postcoloniale. In primo luogo, con il ritorno del tradizionale orientalismo sull’asse nord-sud, che ha fondato arbitrariamente un concetto di Europa in cui «etica protestante e spirito del capitalismo» sono l’unico paradigma possibile, che si irradia univocamente da un centro (la Germania e il centro-nord) verso delle periferie, i Sud, più o meno docili e più o meno capaci di mettersi al passo con tale modernità.
In secondo luogo, con una nuova questione migrante, che viene strumentalizzata dalle destre xenofobe nostrane mediante la narrazione dell’invasione, ma che si trova, in questo momento, sul punto di collasso con i nuovi movimenti migratori interni all’Europa, quelli che vedono protagonista un’intera generazione Sud-Europea pronta a diventare forza-lavoro migrante razzializzata nel centro-nord: la parabola si chiude in farsa nostrana con il plauso di Salvini alle misure anti-immigrazione proposte nel Regno Unito, ben prima che l’emergenzialità antiterrorismo occupasse completamente il dibattito pubblico, il cui obiettivo sono, in realtà, non tanto i migranti extraeuropei, quanto le migliaia di giovani italiani, spagnoli, greci e portoghesi che invadono le metropoli inglesi, scontrandosi a loro volta con le barriere della propria Fortezza Europa.

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