di SIMON LE BON.

Signor Bowie, conferma di aver dichiarato al mensile Playboy di “credere fermamente nel fascismo” e che “il solo modo che abbiamo per vivificare questa specie di liberalismo stagnante ä di accelerare l’avvento di una tirannide di destra che sia totalmente dittatoriale”?
«No. Ad ogni modo le mie dichiarazioni non sono mai un fatto politico ma teatrale. Se ho detto qualcosa del genere mi riferivo all’assurdo stato di apatia culturale in cui versa l’Inghilterra».
(Corriere della Sera, 10.10.1977).

meno due… Jim Morrison, con quell’enfasi da liceale spocchioso, si era levato di torno per tempo. David Bowie ha impiegato più tempo a liberare l’orecchio proletario dal tormento del suo eterno divenire uguale a se stesso. Aspettiamo con ansia che la signora con la falce prenda le debite contromisure verso Gordon Matthew Thomas Sumner “durex” Sting e Paul David “come sono democratico” Hewson (in arte – arte? – Bono).

La cosa che colpisce di più nella parabola del boia è che è riuscito ad accreditare un’idea di innovatore e precursore di mode e vezzi (precursore di nulla, quindi) mentre il suo affannarsi terreno fu quello di correre dietro a mode e vezzi ritriti e ben più seriamente impostati da altri che, magari, ne pagarono le conseguenze.
La maggior colpa che ascrivo a questo Plechanov del rock è, peraltro, la valorizzazione della propria paccottiglia (cosa innocente, così messa) attraverso la distruzione dell’opera di prodi e valorosi compagni strimpellatori (perché, a proposito di Bowie no, non Lester- parlare di musica è severamente bandito).
Come la sommaria disamina della prolissa e disgustosa discografia del nostro dimostra, per molti (troppi) anni il ragazzo (nato povero, e allora, anch’io lo nacqui – cit. – ma non per questo mi vesto come uno scemo) ha assorbito ogni tendenza emergente, orchestrandone il riflusso, svilendone i contenuti, annacquando parole e note per rivenderle al capitale latrante che così, in cambio del 30 proverbiali denari (i) godeva della perdita di potenziale offensivo dei movimenti; (ii) lo estraeva; (iii) assorbiva la creatività che il movimento generava; (iv) riduceva la potenza a puro gesto estetizzante e nefando.

L’esordio è del 1966, Do anything you say. Ci dicono fosse “in puro stile r&b con armonie articolate secondo lo schema domanda risposta che richiamano tired of waiting for you dei Kinks (l’ho letto su wikipedia). Le foto che lo ritraggono parlano chiaro, più beatlico del Cantagiro ’66, fermo immobile ad aspettare che il tempo si fermasse ad Help. Per fortuna non fu così. Il mondo andò avanti, per fortuna, i Kinks continuarono a produrre sublime e sottile ironia, i Beatles presero a REVOLVER-ate la precedente produzione e noi cercammo di affrancarci dalla palude del centro-sinistra.
Ed infatti arriviamo all’autunno caldo che ci regalò Space Oddity: ora dico 1969, ricordate? un po’ di rispetto per l’agente Annaruma, perlomeno.
Nel 1968 erano usciti Ogdens’ Nut Gone Flake, the White Album, Anthem of the sun, Machine gun… tanto per gradire. Coevi del triste schitarramento sono In a silent way, Trout Mask Replica, Kick out the jam… e lui Torre di Controllo a Maggiore Tom, comincia il conto alla rovescia, accendi i motori, controlla l’accensione e che Dio ti assista (i Dik Dik erano al confronto Sam Rivers).

L’operaio massa diveniva sociale e lui non aveva di meglio fare che condirci la storia dell’ometto spaziale, in compagnia di un gruppo tragicamente melenso e privo di qualsivoglia ariosità (Mick Ronson mi piace ricordarlo come accendino, null’altro).
Lo schema è lo stesso; si prende il fantasma dei Beatles si finge di ignorare che ci sono stati Magical Mistery Tour, la frenesia di Matilda Mother, Moon in June, e poi oltre, giustificando melodie fragili e inutili con identica orchestrazione che i Badfinger erano la Company.
Si, non era agire esclusivamente bowiano, altri infami hanno diretto i Pink Floyd verso il prog (che si dice così “inventato”) facendo ritrascrivere A Sarceful of Secrets a Luciano Lama; fu lui ad aggiungere la voce straziata nel finale e l’incedere walchirico riportato in Ummagumma, e da qui migliaia di film polizieschi con colonne sonore pesanti e maculate.
Non è che voglio dare a Bowie la colpa dell’invenzione del Commissario Betti, però minchia, quando è troppo è troppo.
Nel disco bianco c’era tutto, anche il glam, e dato che il glam stava affermandosi come genere di facile ascolto (valorizzazione?), il tapino virò verso la lascivia e la stupidità: succhiò il succhiabile da Marc Bolan, ne riprodusse gli aspetti più patinati e meno stridenti, annichilì la capacità di rendere vive e pulsanti le convulsioni della fine operaia, tanto da fare apparire gli Slade quasi umani.

I tempi cambiano, i figli crescono, e il nostro piazza Diamond Dogs (1974) “compreremo delle droghe e guarderemo una banda/ e salteremo nel fiume tenendoci le mani” ecco il livello, che le corse in auto del boss sembrano l’assalto al palazzo d’inverno.
Da noi, però ci si drogava davvero, ci si menava davvero, talvolta si studiava.
Non che per la musica fosse una festa, ma c’erano i Gong, la Globe Unity Orchestra, Robert Wyatt
L’aria era stagnante: anche Brian O’Connolly s’era reso conto che la corta era troppo tesa, allora il nostro penso di edulcorare anche la musica nera: annichilire la blaxploitation, rendere i funkadelic una cartolina da ciao 2001 o da sorrisi e canzoni.
L’omicidio della disco, propedeutica all’avvento di un Rudolph Giuliani qualunque e all’eliminazione del degrado fu perpetrato con Young Americans del 1975, che wikipedia ricorda come “una sorta di R&B bianco” (e bravo il nostro Artie Shaw di risulta, tra l’altro questi aveva Ava Gardner e il nostro Iman, che però lo riconduce più a Tronchetti che al clarinettista tanto caro al nulla).

Vado veloce.

Nel 1977 esce Heroes.
Heroes venne pubblicizzato dalla RCA con la celebre frase: “There’s Old Wave. There’s New Wave. And there’s David Bowie…”: già, la modestia non è cosa da pubblicitari.
Allora: si prende un morto del progressive, già imbalsamato dentro alla bara putrida di RED, si raccontano storie sul muro (che fanno rimpiangere Elton John anni ’80), e si parla di Krautrock (come sempre a casaccio). Edgar Froese da anni ormai si abbuffava di panini come Poldo, Can, Popul Vuh scoppiati e dimenticati, i Kraftwerk li ascoltavi in discoteca…
La trama è sempre la stessa: una musica sfinita e finita, un po’ di atteggiarsi posticcio, si riportano note già note ai più e si fotte chi cerca di andare avanti.
Per dignità non dico cosa era la New Wave e soprattutto non elencherò gli album del ’77, né dirò quello che, anche musicalmente, successe da noi. Sottolineo solo la abissale differenza tra la supponenza della manina stilizzata e la prepotenza sublime di vivere di sussidio e glue, Mod Revival vivo e deciso, tanto nei classici Sex Pistols come nei primi Clash.. e poi Shame 69, Stiff Little Fingers & so on.
Rammento a me stesso che In the CITY è del ’77 e che la voglia di buttare nel cesso la melensaggine elettronica del boia era grande. Che poi, ma l’aveva mai ascoltata la musica elettronica? Basta un sintetizzatore, strizzare un moog e la musica diventa “elettronica”. Grande Alvin proteggici dagli spiriti maligni.

Dopo aver venduto come elettronica una canzoncina inventata da Andreotti, Bowie non è pago.
1983 esce Let’s dance frivolo come un discorso della Boschi, freddo come un’anguilla, musicalmente una merda. Lo vidi al Frejus. Non capivi se era Grace Jones che stanca di fare la pubblicità della Citroen si era messa a vestire Armani, o se Armani era dimagrito e per non chiedere più aiuto a Craxi si era messo a cantare.
Nel 1984 ci fu lo sciopero dei minatori gallesi, mi laureai. Da quel momento non si sono più alzato dalla scrivania curvo sul fatturato. Non ho più ascoltato Bowie e non mi sono mai pentito: solo, quando leggo dell’estrazione di soggettività da parte del capitale finanziario non riesco a non pensare a lui come un borghese flaccido à la Grosz che capta ogni respiro del “fu” proletariato giovanile.

Satisfaction came in a chain reaction, do you hear?
I couldn’t get enough, so I had to self destruct
the heat was on, rising to the top
everybody’s goin’ strong
that is when my spark got hot
I heard somebody say
Disco Inferno
Burn that mother down
Disco Inferno
Burn that mother down

Download this article as an e-book

Print Friendly, PDF & Email