di ASAD HAIDER e SALAR MOHANDESI.

Tutti ci siamo chiesti, quando abbiamo visto Ritorno al futuro, come i futuri alternativi potessero cambiare l’intero universo mentre Marty McFly rimaneva lo stesso. Quei film corrispondono a una filosofia della storia reaganiana: il corto circuito tra gli anni Cinquanta e Ottanta che traduce ogni incontro contingente in un unico ciclo reazionario, incentrato sull’uomo bianco che inventa segretamente il rock n’ roll, seduce sua madre, e vince il continuum spazio-temporale.

Contro questa filosofia, diciamo che sono inutili i controfattuali storici. La Storia è come sono andati i fatti; mentre si inizia con la premessa che la storia sarebbe potuta accadere diversamente, non può sfuggire il fatto che il punto di vista della nostra analisi è la storia così com’è accaduta. Il ventesimo secolo come lo conosciamo potrebbe non aver avuto luogo; ma il nostro mondo è costituito dalle sue esplosioni, tragiche e affascinanti.

Per questo motivo siamo lieti di partecipare alla discussione di Jacobin (rivista su cui è stato inizialmente pubblicato l’articolo N.d.T.), il cui logo ricorda che viviamo nel mondo fatto da Toussaint L’Ouverture e dai Giacobini neri. L’eco del loro confronto con l’universalismo colonialista delle cosiddette “rivoluzioni borghesi” si sarebbe fatto sentire per tutto il diciannovesimo secolo – proprio come, nel 1848, il giacobinismo di Blanqui sarebbe stato sfidato dalla crescita dei circoli di quartiere operai.

Per parlare del futuro del socialismo, dovremo iniziare con il suo passato. Dobbiamo guardare al futuro che i socialisti del passato avevano previsto – un futuro che era “garantito” dalla persistente ideologia della rivoluzione borghese – e misurarlo con attenzione alla realtà.

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Il programma politico socialista fu elaborato dopo il 1890 dal Partito socialdemocratico tedesco (SPD). Fino ad allora, i rivoluzionari tedeschi erano stati oggetto delle leggi anti-socialiste di Bismarck, che vietavano le riunioni e la propaganda socialista. Per aggirare questo ostacolo, i socialisti corsero per il Parlamento, dove il loro discorso sarebbe stato tutelato; e presentarono rivendicazioni democratiche, giocando un ruolo cruciale nel garantire il suffragio universale e la protezione giuridica dei sindacati. Dal momento che il socialismo era basato sull’azione politica della classe operaia, i socialisti riuscirono a portare questa classe di recente sviluppo e i suoi interessi economici all’alleanza con i movimenti per la riforma democratica, dando a quei movimenti una base potente.

Ma quando le leggi anti-socialiste furono abrogate, il partito si trovò di fronte ad una seria sfida – ora era legale, e le sue rivendicazioni democratiche non erano più necessariamente una minaccia per lo stato capitalista. Il partito tentò di superare questa situazione con il programma di Erfurt dell’anno successivo. Questo documento inusuale sembra avanzare un obiettivo rivoluzionario (l’abolizione del modo di produzione capitalistico) attraverso misure strettamente riformiste (l’accumulo graduale di riforme attraverso una prolungata attività parlamentare). Ma, come lo stesso Friedrich Engels sottolineò, il rapporto tra fini e mezzi non era spiegato: “Se tutte le 10 richieste fossero concesse dovremmo effettivamente disporre dei mezzi più diversi per raggiungere il nostro principale obiettivo politico, ma lo stesso obiettivo non sarebbe in alcun modo stato raggiunto”.

La soluzione adottata dall’SPD a questo problema era la fiducia in una visione della Storia. La rapida crescita economica della Germania era andata di pari passo con la crescita del loro partito. Lo sviluppo economico era la forza autentica e centrale: la tecnologia sarebbe migliorata, l’agricoltura sarebbe stata pienamente razionalizzata, e la popolazione sarebbe stata sistematicamente rimodellata in un proletariato industriale unitario. Nel frattempo, la proprietà dei beni sarebbe stata centralizzata, e il mercato avrebbe ceduto alla pianificazione al punto in cui sarebbe stato possibile gestire la società sulla base della proprietà collettiva dei beni, cosa che i potenti rappresentanti del proletariato potevano fare una volta conseguita una maggioranza assoluta in parlamento ed ereditato lo Stato.

Le cose non andarono così. La sintesi di Erfurt, che aveva un certo senso in una situazione non-rivoluzionaria come quella che l’aveva fatta nascere, presto si rivelò inefficace quando un nuovo ciclo di lotte prese forma nel decennio prima della Prima Guerra Mondiale. Il partito, non riuscendo a registrare questa situazione mutata, attaccato alla vecchia linea, fraintese la militanza crescente della base perché la sua struttura istituzionale aveva pericolosamente aggravato la distanza tra un apparato di partito sempre più burocratizzato e la vita quotidiana dei lavoratori. Una sottocultura socialista era stata il fondamento della solidarietà di classe, stabilita su pratiche di base di auto-sufficienza, che andavano dalle associazioni di acquisto cooperativo (note anche come “circoli della patata”) alla cattiva condotta in officina. Ma la leadership SPD cercava sempre più di essere all’altezza dei rispettabili standard borghesi, con le famiglie patriarcali, la “cultura alta” e il patriottismo, che immediatamente la posero contro la militanza dei lavoratori migranti nelle miniere della Ruhr, e gli scioperi selvaggi delle lavoratrici tessili. “Le donne non ne vogliono sapere di politica e organizzazione”, disse un uomo socialista. “Apprezzano una festa del Primo Maggio con canti e balli e discorsi… ma non gli piacciono le riunioni politiche e sindacali”.

Mentre l’SPD ottenne riforme come la previdenza sociale e le tasse ai ricchi, confermò il suo abbandono di ogni parvenza di un programma rivoluzionario quando si espresse in favore della guerra nel 1914. E quando il partito finalmente prese il controllo in parlamento, attaccò apertamente la ribellione di base della rivoluzione del 1918, impiegando in seguito la brutale violenza paramilitare dei proto-nazisti Freikorps per sopprimere la rivolta spartachista, che come noto portò all’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht.

Ma anche prima di ciò era ormai chiaro, in tutto il mondo, che la democrazia sociale non poteva più essere sostenuta come un progetto rivoluzionario. Nuove forme e nuovi programmi avevano già rotto questo narrazione. Consigli operai si scontravano direttamente con il nuovo governo guidato dall’SPD, e l’”armata rossa” auto-organizzata dei minatori della Ruhr dovette intervenire per respingere un golpe di destra nel 1920, mentre il governo era fuggito dalla capitale. In fondo era la nascita di un nuovo partito, con un nuovo nome – il partito comunista – che ora combatteva l’SPD. La democrazia sociale fu violentemente contestata dalla stessa classe che una volta sosteneva di rappresentare.

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Il vero problema del ventesimo secolo è stato il giorno dopo la rivoluzione. Il socialismo è esploso nel mondo sottosviluppato – in primo luogo in Russia, poi in Cina. Tutti, anche i critici più veementi della rivoluzione russa, assunsero che il compito dello stato rivoluzionario era quello di industrializzare, per sviluppare le forze produttive. In questo contesto, “socialismo” ritornò alla ribalta: il termine ora descriveva il periodo di transizione, in cui le società dovevano accumulare abbastanza ricchezza per passare alla fase superiore della società comunista.

Non era un compito semplice. I paesi capitalisti avanzati erano arrivati al loro stadio di sviluppo dopo un lungo processo, nell’arco di secoli, in cui i mezzi di produzione furono accumulati e fu creata una forza-lavoro industriale cacciando i contadini dalle terre. NelCapitale, Karl Marx ha chiamato questo processo “accumulazione originaria”. Indicando la natura contraddittoria della tecnologia a cui i lavoratori erano ormai sottomessi: introduceva nuove possibilità, ma rappresentava anche il potere sociale del capitale, scritto nel linguaggio dell’acciaio e del cemento. Le macchine erano la risposta capitalistica alle lotte proletarie contro la giornata di lavoro, garantendo la produzione di plusvalore nonostante la riduzione dell’orario di lavoro.

Per raggiungere il capitalismo, il socialismo tentò di ottenere l’accumulazione originaria nei paesi sottosviluppati su scala nazionale, con i piani quinquennali. E come l’accumulazione originaria in Inghilterra, che Marx aveva raccontato, questo processo fu caratterizzato da incredibile violenza e sofferenza. Nel contesto della tecnologia del ventesimo secolo, significò anche imporre il brutale regime del taylorismo, con la sua quotidiana violenza nei confronti dei lavoratori di fabbrica.

Lo sviluppo, tuttavia, è contraddittorio. La spinta verso l’industrializzazione evitò a questi paesi di essere distrutti dall’imperialismo. L’URSS sviluppò la sua capacità industriale e la sua tecnologia militare, al punto da poter respingere l’invasione nazista e raggiungere livelli sorprendenti di crescita fino alla metà degli anni Settanta. Anche la tristemente nota denutrizione di massa in Cina potrebbe essere ricondotta all’incapacità dell’agricoltura di produrre grano sufficiente a tenere il passo con l’incredibile crescita della popolazione, prodotta da radicali riforme socialiste come l’accesso generalizzato alle cure mediche e alle vaccinazioni.

Ma queste economie non sono mai state in grado di essere all’altezza dello sviluppo capitalistico che ha avuto luogo all’interno del sistema di mercato. All’interno di questa spietata sopravvivenza del più forte, le imprese sono costrette a innovare o morire, garantire che il capitale sia in continua espansione e la tecnologia in costante miglioramento. “Non sarebbe meglio”, chiese Nixon a Kruscev, mentre discutevano all’interno di un modello di una tipica cucina americana, “competere sul valore relativo delle lavatrici che sulla potenza dei razzi?” Kruscev aveva missili migliori, ma il dibattito fu filmato a colori, e All-State Properties (una società edile N.d.T.) avrebbe commercializzato una replica di quel modello di casa, respinto dalla stampa sovietica come un irrealistico “Taj Mahal”, per villeggianti della classe media in Florida.

Le contraddizioni non sono sorprendenti; questi cambiamenti emergevano da una condizione di grande disordine, ancora impressa con i marchi della vecchia società. Uno di questi marchi fu la violenta e vacillante leadership degli stati socialisti, che erano stati forgiati nel dominio imperialista e nella guerra civile. Quando la storia dello sviluppo non riusciva a svolgersi nel modo sperato – quando i contadini cercavano di mantenere la loro terra, quando una miniera saltava in aria – imponevano il processo con la forza e usavano il potere repressivo dello stato per eliminare le correnti ideologiche, che potevano essere utilizzate come capri espiatori per questa deplorevole discrepanza tra teoria e pratica.

I socialisti nel resto del mondo, spesso scusarono la loro leadership. Ma dovremmo essere attenti a come critichiamo le loro scuse. Come tanti altri, credettero alla storia dello sviluppo: pensarono che questi tristi episodi sarebbero stati dialetticamente superati e il progresso si sarebbe svolto. Liberata dalla violenza e dalla fame, la razza umana si sarebbe in fine svegliata dall’incubo della storia.

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Dunque è la storia dello sviluppo stesso che dobbiamo cercare di ripensare. E questa è niente di meno che la storia dei Lumi. Nella biologia evolutiva c’è una teoria, ormai ampiamente accettata, chiamata endosimbiosi: essa sostiene che i batteri autonomi sono stati incorporati nelle cellule e si sono sviluppati nei mitocondri, che sono non solo elementi strutturali, ma la fonte di energia dell’organismo. Poiché la cellula evolve, il DNA del nuovo elemento viene trasferito nel nucleo.

Questo aspetto della biologia ci aiuta a capire la transizione al capitalismo. I critici della civilizzazione da Theodor Adorno a Theodore Kaczynski hanno descritto le afflizioni della spinta verso lo sviluppo senza limiti, la fantasia del progresso che accompagna la sottomissione violenta della natura e l’organizzazione gerarchica della società. Per la maggior parte della storia umana, lo sviluppo è coesistito con la forma statica e organica di organizzazione sociale. Anche se gli antichi Greci sognavano di dominare la natura, le società schiaviste, proprio come le società “primitive comuniste”, non avrebbero sostenuto il costante rivoluzionamento delle loro forze e dei loro rapporti di produzione. Solo con l’avvento del capitalismo lo sviluppo diventò un principio globale e universale, sussumendo e rimodellando ogni forma di vita nella sua espansione territoriale ed economica.

L’Illuminismo rappresenta il momento in cui questa spinta sviluppista è stata incorporata nella modo di produzione emergente. Ha procurato al capitale una fonte di energia  – l’origine endosimbiotica della riproduzione allargata del capitale, il dinamismo intrinseco della borghesia celebrato nel Manifesto del Partito Comunista e il “terrorismo senza scrupoli” condannato nel Capitale.

Quando il socialismo reale incentrò il processo di costruzione del socialismo sullo sviluppo delle forze produttive, lo stato socialista incorporò DNA che gli diede una somiglianza di famiglia col capitale. Oggi siamo in grado di rifiutare il tentativo socialista di completare il progetto della modernità con la collettivizzazione forzata e i processi farsa – ma lasciamo i patemi da parte e guardiamo a ciò che il passato non ha voluto, o non è stato in grado di raggiungere: istituzioni che impediscano assolutamente la riproduzione di una divisione sociale tra sfruttatori e sfruttati.

Tecnologia e produzione industriale sono parte del nostro mondo – hanno creato il nostro presente, e contrariamente ai deliri primitivisti, il presente contiene possibilità aperte. Così come riconosciamo che essere contro lo sviluppo non è una posizione politica, evitiamo la trappola dall’altra parte, la trappola che ha introdotto un abisso incolmabile tra il movimento operaio e il suo progetto. L’equazione fra socialismo e progresso ha sepolto la più grande eredità del ventesimo secolo: il rifiuto del lavoro, del dominio di classe e dello sfruttamento.

Coloro che identificano la liberazione politica con l’affermazione individuale borghese spesso dicono che la Rivoluzione francese rappresentò il punto culminante dell’Illuminismo. Ciò che tralasciano di dire è che era anche il suo punto di esplosione. Gli schiavi di Haiti – che vedevano i loro padroni francesi appena illuminati continuare a mutilarli, seppellirli fino al collo, e bruciare vive le loro famiglie – rapidamente imparavano che c’era poca differenza tra un padrone che ha letto Rousseau e uno che non l’ha fatto. L’Illuminismo era la schiavitù sotto un altro nome. Così il 21 agosto 1791, mentre i nobili rivoluzionari a Parigi cercavano di trovare il modo più efficace per mantenere legati alle piantagioni gli schiavi della loro colonia più redditizia, gli schiavi haitiani imponevano il loro contro-Illuminismo per emanciparsi attraverso la rivoluzione. Ispirati dai loro compagni caraibici, quasi esattamente un anno dopo, le stesse masse parigine prendevano la Bastiglia e tenevano in ostaggio il re preso d’assalto il palazzo di Tuileries, proclamavano una Repubblica, e facevano esplodere il continuum della storia, imponendo un calendario del tutto nuovo per celebrare la nascita di un mondo nuovo.

Gli haitiani creavano la bandiera della loro nuova nazione, tagliando fuori il bianco della bandiera francese, lasciando il blu e il rosso. Blu e rosso sono i colori tradizionali della plebe di Parigi; nel 1789 il Generale Lafayette, il “grande mediatore”, per primo aveva creato il tricolore inserendo il bianco dei Borboni tra il blu e il rosso delle masse parigine, a simboleggiare un compromesso tra il popolo e il re. Strappando il centro, gli schiavi non stavano solo distruggendo i loro padroni bianchi, si ricollegavano anche con le masse parigine. Gli sfruttati si univano per rispondere all’Illuminismo dei loro sfruttatori.

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Nel suo esperimento mentale “Four Futures”, Peter Frase stabilisce che il passaggio dalla scarsità all’abbondanza si può immaginare – e che è altrettanto possibile concepire forme di organizzazione sociale che rifiutano la gerarchia a favore dell’egualitarismo, o per lo meno , una qualche forma di pianificazione democratica. Noi spingiamo oltre questa rivoluzione immaginaria all’inimmaginabile, e suggeriamo che la politica rivoluzionaria non si verifica nel futuro – non è uno stato di cose che debba essere instaurato. Ci riferiamo invece al futuro anteriore: il movimento reale, l’attività in corso del proletariato che porrà le basi per la trasformazione della società.

Il futuro che Marx ha previsto è la disoccupazione. E questa tendenza storica ha messo in dubbio tutta la storia dello sviluppo. Come Doug Henwood fa notare, la nostra recente “ripresa” economica è la più debole da quando hanno iniziato a tenere nota dei numeri. Il fatto che non siamo riusciti a recuperare la maggior parte dei posti di lavoro persi durante la recessione fa parte di un cambiamento storico più ampio: il declino del dinamismo su cui il capitalismo ha costruito la propria reputazione. Negli ultimi anni, la famosa “distruzione creativa” che avrebbe dovuto generare incessantemente nuove tecnologie, nuovi mercati e nuovi modi di vita, è scomparsa. Le illusioni della bolla dot-com hanno fatto sembrare che il capitalismo potesse essere ancora dinamico, ma come dice Henwood, “La nostra bolla più recente ha creato molte diseguaglianze nell’area metropolitana di Las Vegas, senza alcun giovamento reale o immaginario”.

Anche in Cina, la storia del successo del capitalismo contemporaneo, affronta un percorso incerto. Sconcertata per un aumento salariale del 16-25% nelle fabbriche cinesi Foxconn,Forbes scarta l’idea che la pressione dell’opinione pubblica ha fatto spostare la Apple verso un iPhone fair-trade. Seguendo un trend nella confusa letteratura finanziaria, Forbesconfessa che Marx fornisce “una spiegazione molto migliore di ciò che sta accadendo”: “non è dall’invito ad essere più gentili che viene l’aumento dei salari, il fatto è che manca l’esercito di riserva dei disoccupati”.

E non è perché tutti in Cina sono occupati a fare apparecchi, lo sviluppo cinese è più contraddittorio di quanto possa sembrare. I salari sono effettivamente aumentati negli ultimi dieci anni in Cina, dal 2002 al 2008, il costo orario del lavoro nel settore manifatturiero è aumentato del 100%, rispetto al 19% negli Stati Uniti (anche se la retribuzione media è ancora il 4% di quella degli Stati Uniti, circa 1,36 dollari all’ora). Fino alla crisi finanziaria del 2008, l’occupazione manifatturiera è stata in costante aumento, ma quando il mercato di esportazione della Cina si è schiantato durante la crisi, 20 milioni di lavoratori migranti manifatturieri sono stati licenziati. E si sono spostati di nuovo in campagna, dove la produzione di sussistenza permette a un’enorme popolazione agricola di evitare di fare affidamento sul lavoro salariato.

Uno stimolo massiccio nel 2009 ha portato ad alcuni nuovi posti di lavoro, almeno tanti quanti erano stati persi, e alcuni sotto-settori come l’elettronica hanno di fatto aumentato i dipendenti durante la crisi. Ma nonostante un’enorme popolazione di occupabili, l’offerta di lavoro non è al passo con la domanda, perché la popolazione nelle campagne improvvisamente non è disposta a tornare in città per lavorare. Una configurazione complessa e inusuale di elementi ha portato ai recenti aumenti salariali, tra cui una forza lavoro più istruita (che incorpora un aumento di “capitale umano”) e la tutela dei diritti dei lavoratori con una legge sul contratto di lavoro del 2008. I recenti piccoli miglioramenti dell’economia globale hanno fatto un po’ riprendere la domanda di materie prime cinesi, aumentando così la domanda di lavoratori industriali e compromettendo la capacità del capitale di abbassare i salari. Ma l’eccezionale e centrale dato di fatto della situazione cinese è che la forza-lavoro si sta ricomponendo in modi imprevedibili – i datori di lavoro sono costretti a fare concessioni al lavoro per cercare di invogliare la popolazione de-urbanizzata a trasferirsi di nuovo in città.

Il capitale cinese potrebbe portare avanti la strategia classica di rigenerazione della forza-lavoro. Cioè separare i contadini cinesi dai loro mezzi di sussistenza, cosicché siano costretti a dipendere radicalmente dal mercato e a scambiare la loro forza-lavoro per un salario. In realtà, a dispetto del declino urbano, l’occupazione totale dell’industria manifatturiera in Cina è aumentata nel 2008 grazie alle “imprese di città e di villaggio” (town and village enterprises), che hanno guidato la restaurazione capitalista della Cina fin dall’inizio. Ma al tempo stesso, i capitalisti dovranno rispondere a una maggiore forza contrattuale del lavoro – un potere che i lavoratori stanno esercitando politicamente in ondate di scioperi – investendo in impianti costosi e apparecchiature per cercare di recuperare i loro tassi di profitto e ridurre la loro dipendenza dai lavoratori, spingendoli verso la disoccupazione.

Dunque questo è uno sviluppo capitalistico senza garanzie: lo sviluppo ineguale del capitalismo in tutto il mondo conduce alla ripetizione perpetua dell’accumulazione originaria, ma è possibile che questa ci getterà direttamente nella sovrappopolazione di uno slum globale. Se Marx sembrava presentare l’espropriazione degli espropriatori come una conseguenza automatica – della centralizzazione dei mezzi di produzione altamente sviluppati da un lato, e della socializzazione del lavoro dall’altro – questa era, più che una previsione rigida, la ricerca di un’apertura nel presente, il tentativo politico di una profezia che si autoavvera.

Il fatto che la tecnologia ha reso così tanto lavoro superfluo, non ha portato verso una società liberata dal lavoro, ma alla disoccupazione piuttosto alta accanto agli straordinari, in una situazione in cui siamo tutti indebitati. E gli apparati tradizionali del movimento operaio, che avrebbero dovuto formare un nascente contro-potere, hanno finito per fare il lavoro dei padroni, prima di – praticamente – scomparire. Oggi il tentativo di far rivivere queste mediazioni della lotta di classe non riesce a rispondere ai cambiamenti reali nella composizione di classe. Come Chris Maisano ha brillantemente dimostrato, il problema dei sindacati americani non è solo la diminuzione degli iscritti. È la concentrazione di sindacalizzazione nel settore pubblico, e la conversione di “quelli che sarebbero dovuti essere servizi sociali universalizzati” – come “l’assicurazione sanitaria, le pensioni, le vacanze” – in privilegi privati per un élite sindacalizzata. È abbastanza facile per il capitale usare ciò come potente strumento di divisione, bloccando una lotta collettiva proletaria e mettendo i lavoratori del settore privato contro l’“aristocrazia operaia” di insegnanti e assistenti sociali, mentre diminuiscono i salari reali di tutti. La disoccupazione resta esclusa da qualsiasi concezione della politica.

Staccata dalla realtà della classe lavoratrice, la nostalgia socialista per i sindacati e lo stato sociale perpetua l’illusione che il capitalismo possa soddisfare le esigenze dei salariati e dei disoccupati, e rafforza le divisioni all’interno del proletariato. L’unico modo in cui le riforme e le istituzioni possono far avanzare la lotta dei lavoratori è se la lotta stessa prende il comando, imponendo la sua attività auto-organizzata e realizzando nuove forme di mediazione, con cui consolidare l’eccedenza e lo scompaginamento.

L’alternativa alla storia socialista dello sviluppo – nel bene e nel male – è stata storicamente chiamata comunismo. Consiste nel rifiuto dello sviluppo capitalistico a favore dell’invenzione proletaria di quell’altro tipo di istituzione, del tipo che non è riuscito a prendere piede nel socialismo reale. Non le istituzioni ossificate della

rappresentanza burocratica, ma l’istituzione di nuove forme di vita al di là delle classi, che iniziano con forme di cooperazione che sono antagoniste al capitale. Non sappiamo a che cosa queste forme somiglieranno. Ma non è il ruolo degli intellettuali fare previsioni. Il nostro ruolo è quello di entrare in contatto con le masse: ascoltare, scoprire e contribuire a costruire uno spazio che il futuro può chiamare politica. “It’s after the end of the world”, ha detto Sun Ra. “Don’t you know that yet?”

* Pubblicato su “Jacobin“.

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