di LANFRANCO CAMINITI.

Jérôme Pierrat è un giornalista francese, redattore capo della rivista “Tatouage magazine”, che ha accumulato e sviluppato competenze e conoscenza sulle organizzazioni criminali. Sul crimine organizzato ha pubblicato diversi libri. Ne cito solo qualcuno, perché i titoli danno contezza: Une histoire du milieu: grand banditisme et haute pègre en France de 1850 à nos jours, 2003; La Mafia des cités : économie souterraine et crime organisé dans les banlieues, 2006; Mafias, gangs et cartels : la criminalité internationale en France, 2008. Con Svetlana Dramlic, pubblica nel 2015 per la Manufacture de Livres, L’attaquant. L’histoire vraie des Pink Panthers.
L’attaquant, a partire dalla storia di un uomo ritiratosi da qualche parte della ex Jugoslavia, verosimilmente il suo fondatore, e dei suoi amici, racconta la storia di una banda di rapinatori serbi che ha compiuto colpi nelle più ricche e importanti gioiellerie di tutto il mondo, facendo letteralmente impazzire la polizia internazionale. Un gruppo di ventenni sbarcati in Italia senza un soldo e che facendosi largo tra dure consapevolezze decidono di lanciarsi nel furto e scrivere le prime pagine – in Francia, in Belgio – di questa saga criminale. L’autobiografia dell’Attaquant – il Centravanti, come veniva soprannominato – è quella di un gruppo di giovani che nel 1997 abbandona il caos dei Balcani in guerra per partire alla conquista dell’occidente e delle sue ricchezze. L’Attaquant racconta così il momento in cui passarono la loro linea d’ombra: «Fino alla crisi, avevamo tutto quello che ci serviva per condurre una vita normale. Quando arrivò la crisi, fu allo stesso tempo una catastrofe e una sfida. Quando esplose l’iperinflazione in Serbia, tra il 1992 e il 1994, prendevi la paga in dinari ma se non la convertivi immediatamente in marchi, l’indomani non ti restava niente. Io e i miei amici ne avevamo le scatole piene della politica. Noi amavamo la vita, e ne volevamo di più. È per questo che decidemmo di vivere a modo nostro. Di diventare dei ladri».

AttaquantDal 1997, questo gruppo di uomini inizia a colpire le gioiellerie. Sviluppano tecniche particolari, estrema attenzione ai dettagli, minuziosi comportamenti, mai un colpo d’arma da fuoco, mai un ferito. Sono proprio le tecniche, il modus operandi, oltre che la medesima identità degli obiettivi – le gioiellerie di gran lusso – che fanno pensare agli investigatori a un’unica banda. Nel 2003, il gruppo attacca una gioielleria a Mayfair, quartiere chic di Londra. In pochissimi minuti, un “cliente” arraffa un bottino valutato intorno ai tredici milioni di euro. Scotland Yard si mette sulle tracce della banda, ma riesce a trovare solo un complice, un “basista”. Nella perquisizione, scoprono un anello di brillanti – diamanti blu, per l’esattezza, valutato intorno al mezzo milione di sterline – dentro una crema per il viso. È la medesima scena di un film con l’ispettore Clouseau, un film famosissimo. È così che alla banda di rapinatori delle gioiellerie viene finalmente dato un nome: da ora saranno le Pink Panthers, le Pantere rosa.
Per farsi un’idea della capacità di “globalizzazione” del loro banditismo – ma anche del coordinamento delle polizie che li inseguono – si può pensare a Rifat Hadziahmetovic, montenegrino (molti, della banda, erano montenegrini “unionisti” con la Serbia o, più semplicemente, serbi del Montenegro), arrestato a Cipro nel 2009 sulla base di un mandato di cattura europeo dopo un furto in Spagna di orologi di lusso d’un valore intorno ai 600.000 euro. Hadziahmetovic viene trasferito in Spagna, prima d’essere estradato verso il Giappone, dove viene accusato di un altro reato. Da Parigi a Londra, passando per Tokio, Ginevra, Dubai, Francoforte, le Pink Panthers vengono ritenute dall’Interpol responsabili di 341 attacchi a gioiellerie per un bottino valutato intorno ai 330 milioni di euro. Non si è mai saputo quanti effettivamente fossero i membri delle Pink Panthers, oggi detenute, morte, sciolte, estinte o che. Si pensa a una cifra tra i duecento e i trecento uomini. All’inizio di tutto, certo, c’è la guerra in Serbia, e la fine della ex Jugoslavia. La fine della guerra lascia in Bosnia-Erzegovina, in Serbia, in Montenegro, come detriti, tra le altre cose, decine di formazioni militari e paramilitari che, dove non vengono assorbite dai nuovi eserciti, trasformano il controllo e la conquista del territorio in rotte di narcotraffico, su tutto: l’eroina proveniente dall’Afghanistan e la marijuana proveniente dall’Albania, continuando la guerra per altri fini, fra di loro, contro ogni stabilizzazione politica, militare, giudiziaria. Le Pink Panthers sono solo una di queste “bande”, che si dedicano alle rapine, invece che al traffico di droga, delle armi, o della prostituzione. All’inizio di tutto, c’è Arkan. Željko Ražnatović, detto Arkan, è un personaggio complesso, ancora ammirato da alcuni, per tutti un criminale di guerra resosi colpevole, dopo l’implosione della federazione jugoslava, a capo di una formazione paramilitare da lui creata, le Tigri di Arkan, reclutati tra i tifosi della Stella rossa e le carceri, di omicidi, stragi, pulizia etnica. Arkan, figlio di un militare, e finito in carcere molto giovane, aveva aperto la strada: nel 1974 rapina un ristorante milanese, e poi è autore di una lunga serie di rapine a mano armata in Svezia, Belgio e Paesi Bassi. Sconta una pena di 4 anni in Belgio, ma riesce a fuggire dal carcere di Bejlmer (Amsterdam) durante un’altra pena carceraria di 7 anni. Viene riacciuffato durante una rapina a una banca di Stoccolma. Estradato, diventa agente dei servizi e fa per loro il lavoro sporco in giro per l’Europa – ricevendone in cambio una pasticceria, che diventa il suo covo – e quando scoppia il conflitto jugoslavo i vertici militari gli affidano la formazione di corpi di volontari. Nel 2000 viene ucciso in un ristorante di Belgrado. Una vita sempre sul limite tra l’estrema ribellione, la crudeltà, il coraggio, la compromissione con gli apparati del potere, l’avidità, il radicamento in ambienti sociali furiosi. Tutto questo è storia. Poi, c’è la fiction: The Last Panthers, appunto.

Sviluppata in sei episodi da Sky UK e CANAL+, prodotta dalla britannica Warp Films e dalla francese Haut et Court TV, scritta da Jack Thorne, che è sceneggiatore e commediografo pluripremiato, e diretta da Johan Renck (Breaking Bad, The Walking Dead, Vikings), The Last Panthers è una brillante serie tv ispirata alla storia vera delle Pink Panthers, alla storia raccontata da Jérôme Pierrat e Svetlana Dramlic. La serie è stata trasmessa dal novembre 2015 in contemporanea nei cinque paesi europei in cui Sky è presente, ovvero Regno Unito, Irlanda, Italia, Germania e Austria. Il produttore Peter Carlton, ospite ufficiale dell’ultimo Roma Fiction Fest, dove la serie era stata presentata in anteprima, ha detto che «unendo le forze di Sky UK, Italia e Germania siamo riusciti a dare al progetto un respiro europeo e un budget maggiore». Due degli interpreti sono attori più volte nominati all’Oscar, John Hurt e Samantha Morton. Ancora Carlton: «È stato fondamentale avere John e Samantha per interpretare due ruoli così importanti e siamo stati molto fortunati perché siamo riusciti a avere proprio gli attori che avevamo in mente. E non è tutto, perché un’altra perla di The Last Panthers è la sigla ufficiale – il pezzo si intitola Blackstar –, firmata da uno dei più grandi maestri della musica pop, David Bowie». È l’ultima cosa scritta da Bowie. Insomma, una produzione alla grande.
La storia è questa. Marsiglia, Francia. Tre uomini vestiti da imbianchini fanno irruzione in una gioielleria. Non parlano. Comunicano agli ostaggi attraverso pizzini di carta su cui hanno scritto delle frasi in inglese. Rubano diamanti – dopo aver versato un barattolo di vernice rosa, il richiamo alle Pink Panthers è evidente, in testa alla direttrice della gioielleria – e un orologio di lusso. I primi dieci minuti di The Last Panthers passano così, quasi in silenzio – si sentono giusto i rumori, la voce della direttrice della gioielleria, i passi sul pavimento liscio e le urla della polizia. Qualcosa va storto nella fuga, c’è un conflitto a fuoco, uno dei rapinatori uccide per sbaglio una bambina con un colpo vagante, uno rimane ferito e un quarto li aspetta lontano dalla scena del crimine. Il colpo del secolo, il colpo perfetto, peccato che nessuno, poi, voglia comprare i diamanti. Sono sporchi, non buoni, e “scottano”. La polizia francese indaga, ma chi riesce, nel giro di poche ore, a scoprire qualcosa è l’assicurazione: una donna e un uomo inglesi, che arrivano la mattina a Marsiglia. La storia che si racconta non parla né di inglesi né di Inghilterra; è una storia europea, tra Francia, Serbia e Balcani, dove uccidere non è un problema e dove rubare è (quasi) una regola. Vecchie bande, nuova criminalità, i diamanti giù per la trachea legati a un dente, e un mondo fatto di pallottole e minacce, tatuaggi sbiaditi e cicatrici slabbrate. La storia è convincente, lenta e credibile. Punta soprattutto su personaggi coerenti, che possano resistere al di là del racconto. Il poliziotto buono, l’assicuratore avaro, il ladro costretto, letteralmente (deve aiutare il fratello per un importante intervento al cuore), a rubare (da “Wired”).
Dal momento del furto la storia si divide in tre: una segue Milan l’Animale, un combattente delle Tigri (ne ha tatuata una sul petto) ormai in disarmo in mezzo a un mondo criminale che va evolvendosi verso il riciclaggio in operazioni finanziarie di gruppi internazionali legati agli investimenti europei (qui, l’investimento è la costruzione di un aeroporto, voluto dall’Unione europea), e dove la politica è il motore dei soldi; un’altra segue il poliziotto francese di origini nordafricane che si trova in mezzo a un traffico di armi e ideologie, tollerato dalla polizia per controllare le gang, ma che sta progressivamente incattivendosi sotto i suoi occhi e a capo del quale c’è proprio suo fratello – che alla fine lui ucciderà; e una che segue l’assicuratrice che conosce bene la situazione dei Balcani perché c’è stata come operatrice delle Nazioni unite proprio a ridosso dello scoppio della guerra, e ha visto la propria impotenza e la crudeltà degli uomini (Milan, l’Animale, che era bosniaco e divenne una Tigre serba, era il figlio dell’uomo che lei ha amato) e se ne va in giro a cercare i diamanti, anche contro la volontà del capo che prima l’ha inviata e poi cerca di fermarla, scaricandola, perché la grande assicurazione per cui lavora ha modificato i propri interessi, partecipando ora del grande investimento e non ha più alcun tornaconto a sollevare polvere intorno al furto dei diamanti. Non c’è lieto fine: il fratello di Milan viene ammazzato da un suo vecchio compagno d’armi ora lanciato verso la politica e la ripulitura del passato; il poliziotto francese dovrà uccidere il fratello, ormai un fondamentalista capace di tutto; l’assicuratrice tornerà nei luoghi della guerra, per seppellire anche Milan, ucciso dall’uomo che lei uccide, sola: l’Europa è ormai dominata da un intreccio di interessi dove domina l’avidità e che è in grado di governare assieme ogni traffico sporco e illegale con il dorato mondo della finanza attraverso le facce “nuove” della politica che hanno preso il sopravvento dopo la guerra: sono i banksters, intreccio tra banchieri e gangster.

Definire The Last Panthers – come è stato fatto da tutte le recensioni, e nei promo di inizio della serie – un “crime” è un crimine intellettuale. La prima produzione veramente europea – per l’investimento notevole, per la distribuzione, per l’ambientazione, per la storia – è in realtà la narrazione dell’inesistenza dell’Europa come entità politica. Finora, noi abbiamo visto l’emergere di un crime europeo – danese, svedese, inglese, spagnolo, francese – che benché avessero ambientazioni definite geograficamente davano l’impressione, per le scenografie, per i meccanismi narrativi, per lo stesso intreccio di attori che circolavano in molte di queste serie, interpretando ruoli diversi, di una “forma europea” del racconto. D’altronde, proprio il giallo europeo d’oggi – e non solo la trilogia di Larsson – è l’unica forma riconoscibile di racconto continentale. Certo, leggiamo ancora la Christie e Simenon, le storie di Maigret e Poirot e miss Marple, ma come fossero fiabe oscure e delicate, di cui apprezziamo la ricercatezza delle scenografie e dei costumi, di un mondo ormai sepolto. È cambiato il mondo della criminalità, è cambiato il mondo dell’investigazione, è cambiato il mondo punto. Il fatto però è che meccanismi narrativi e personaggi del nuovo giallo europeo ne hanno fatto solo una ambientazione europea del crime americano – che, peraltro è andato evolvendosi e ha anzi trovato, vedi True Detective, ormai una forma cinematografica piena, l’introspezione dei personaggi fa aggio sull’azione, che era il marchio di fabbrica United States.
John_Hurt_last_panthersThe Last Panthers è un’altra cosa. È la prima serie politica, la prima serie che affronta di petto la questione essenziale dell’essere in Europa: esiste l’Europa o è solo un’espressione geografica? E la domanda si dipana proprio a partire dalla guerra dei Balcani, che non era ineluttabile, in cui l’Europa non solo non trovò una posizione politica forte comune, ma si lasciò andare a interessi nazionalistici e a fornire supporto al dominio americano. A distanza di quindici anni – è questo il tempo che intercorre tra la giovinezza di Milan, le atrocità della guerra, l’impotenza dei peacekeeper e lo svolgimento dell’azione intorno la rapina e i suoi strascichi – l’Europa arriva con i suoi “progetti” faraonici, facendo leva su una “nuova classe dirigente” ambiziosa e maneggiona, capace di riciclare assassini e criminali, in un territorio ormai desertificato. L’Europa ha solo un volto finanziario, una burocrazia corrotta, una maschera dietro la quale comanda il grande capitale di sempre e i nuovi gabelloti mafiosi che le servono come braccio armato.

È necessario citare qui il produttore della serie, mister Carlton, che ha detto: «Uno dei temi principali è il lato oscuro dell’Europa».
Oscuro, non mi pare proprio, mister Carlton.

Nicotera, 29 febbraio 2016

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