di TONI NEGRI.

25/01/2012

Per rilanciare il dibattito attorno al dossier America Latina di Uninomade, mi sembra importante giustificare qui di nuovo il fatto di aver aperto quel dossier… insistendo sullo studio del pensiero politico e delle pratiche istituzionali, sull’informazione sulle lotte, sulle sconfitte e sulle conquiste dei movimenti popolari e di classe… insomma vorrei prima di tutto spiegare di nuovo perché per noi di Uninomade 2.0, l’America Latina costituisca un vero e proprio laboratorio politico.

Cominciamo allora col dire che quanto avvenuto dagli anni ’90 al primo decennio del XXI° secolo in America latina ha spesso segnato un’originale riproposizione oppure ha senz’altro operato un radicale spiazzamento di problemi spesso già sorti ma rivelatisi insolubili in Europa. Questa riflessione sull’insolubilità riguarda innanzitutto le organizzazioni politiche della sinistra, poi, i rapporti movimenti-governo nelle figure istituzionali della vecchia Europa e infine lo stesso evolversi delle ideologie e delle strutture costituzionali.

È evidente che comparare realtà diverse (Europa e America Latina) è operazione affatto astratta. In nessun caso essa permette approcci di assimilazione – si tratta di storie ed esperienze, di istituzioni e di movimenti talmente lontani che non si potrà certo pretendere di parlarne come di cose apparentate. Che cosa hanno a che fare il Brasile e la Germania? Dunque, la nostra operazione è inizialmente proposta a mo’ di esempio o di favola. E tuttavia, quando scendiamo dal laboratorio di studio delle specificità latino-americane alle nostre esperienze, noi tracciamo quella prossimità immaginativa che è tipica del modello delle Lettres Persannes – quando cioè l’immaginazione ripercorre l’esperienza di un vissuto lontano (in America Latina, nelle lotte e nelle forme di governo là affermatesi) ed onestamente le confronta al vissuto vicino, al quotidiano ed al problematico istituzionale europeo. Ciò presupposto dobbiamo comunque notare che (ammesso il fatto che in Europa non c’è l’Amazzonia e che i nostri 4000 metri sono abitati da svizzeri piuttosto che da  indiani) la globalizzazione (e – aggiungiamo come un’altra evidenza – la lotta di classe) ha materialmente avvicinato quelle terre alle nostre. Forse più di quanto mai avremmo pensato nel XX° secolo. È alla fine del novecento, infatti, che quei paesi passano dalla dipendenza nei confronti delle potenze coloniali ed imperialiste, all’interdipendenza nel mondo globalizzato. Per quanto riguarda l’Europa, attenuatesi le migrazioni e rovesciatasi la loro direzione, sono i commerci ma soprattutto le idee che hanno continuato ad attraversare gli oceani, su e giù, fra i continenti. E le passioni. A qual punto ci si è trovati simili fra compagni che lottavano per obiettivi comunisti – a qual punto i metodi di ricerca e le forme di lotta si sono intrecciati, a partire dalle medesime passioni – e, da queste, quanto è stato condizionato il modo di osservare il presente e di costruire l’avvenire! Aggiungiamo che in America Latina, in questi anni, in acuta rottura con lo Washington Consensus si sono avuti gli unici tentativi di costruzione “postsovietica” di esperienze ed istituzioni radicalmente democratiche ovvero di “democrazia assoluta”.

Ritorniamo alla comparazione così corretta, se ancora di comparare si tratta. E poniamo attenzione a come – sia sul terreno istituzionale o costituzionale, sia sul terreno economico e/o delle politiche budgetarie – i nuovi governi democratici dell’America Latina abbiano introdotto innovazioni essenziali rispetto al modello di democrazia del quale genericamente si parla in occidente. Fondamentale sembra allora a noi, su questo terreno, il fatto che le funzioni di governo siano state intercettate dai movimenti e che, con maggiore o minore apertura, siano state loro imposte varie configurazioni operative (che si distendono comunque sempre fra gli estremi di un dualismo di potere e di una governance attenta ai rapporti di forza e alle dialettiche ideologiche che li attraversano). Che è come dire che le pratiche della democrazia si sono – talora – positivamente incarnate (e le pratiche del governo trasformate) in “macchine costituenti”. Non solo si è modificato il rapporto classico di rappresentanza, sicché il passaggio dalla “volontà di tutti” alla “volontà generale” – anziché irrigidirsi (fissandosi istituzionalmente) – si è spesso subordinato alla soluzione puntuale di problemi di volta in volta costituzionalmente rilevanti; non solo si è vissuto dentro una sorta di governo di transizione, continua ed accelerata, da condizioni di povertà e di inconsistenza giuridica a situazioni di relativo appagamento dei bisogni di sopravvivenza e di statuizione di diritti formali; ma anche, spesso, si è assistito alla costruzione di “costituzioni del comune” – dal reddito garantito all’affermazione del diritto di accesso ed alla partecipazione diretta alla gestione dei beni comuni. Talora (sia pure debolmente) questi processi hanno toccato i regimi di proprietà, definendo formalmente – al di là del privato e del pubblico – un campo istituzionale del comune. Altre volte è stato toccato il tema dei diritti fondamentali, fra i quali è stato affermato (accanto al riconoscimento delle differenze) il diritto allo sviluppo ed alla sua sostenibilità in un regime di eguaglianza sociale e politica effettiva. Tutto questo si è realizzato attraverso una dialettica “costituente” movimenti-governo.

Non vanno naturalmente sottovalutate le contraddizioni che qui si sono aperte e continuano ad aprirsi, attorno, appunto, a questo rapporto costituente. Ogni dinamica siffatta è plurale e talora ambigua. Spesso la direzione della governance subisce attacchi, fraintendimenti, distorsioni e non è raro che sia rovesciata e che, anziché permettere ai movimenti di incidere sull’azione dei governi, li ponga in una condizione di servizio e sudditanza. Le “ideologie dell’egemonia” – maschere di un populismo aggressivo, identitario, neutralizzante le differenze e spesso reazionario – coprono queste inversioni e si diffondono pericolosamente. Si osservi tuttavia che questi batteri circolano egualmente in Europa, egualmente malintenzionati. Ma si deve anche notare che quando potenze costituenti di tale impatto si sono messe in movimento, esse, per quanto contrastate, consolidano processi difficilmente reversibili. Una caratteristica latino-americana sembra così consistere nel fatto che l’azione costituente dei movimenti, lungi dal caratterizzarsi come “evento”, continua a operare come “processo”.

Il dibattito che fin qui si è svolto nel sito, è stato di altissima qualità. Vi troviamo:

a) la posizione dei temi e dei problemi ai quali abbiamo accennato; b) analisi interne alla congiuntura ed allo sviluppo politico nei quadranti più significativi della vita politica latino-americana; c) polemiche di interpretazione e di indirizzo. Insistendo affinché questi campi siano tenuti aperti e, anzi, nuovamente percorsi ed approfonditi, sembra tuttavia utile che l’analisi introduca ed accentui la discussione attorno ad altri temi. Buttiamo giù alla rinfusa qualche questione, davvero solo qualcuna.

1) Sarebbe utile portare dentro il nostro dibattito la tematica dei diritti dell’uomo, soprattutto come si è sviluppata in Argentina contro gli aguzzini della dittatura ed intesa al superamento di quella fase mostruosa della sua storia. Si indica questo tema perché anche in Europa e negli Usa è tempo ormai di rinnovare la discussione sui “diritti inalienabili” e di allargarne il campo di efficacia ben oltre quello tutelato (non sempre perfettamente) dalle costituzioni liberali. Gli “indignados” e OWS aprono a questi problemi, sia insistendo sulle tragiche contraddizioni dell’indebitamento (che distruggono l’eguaglianza dei cittadini e la svuotano fino a determinare condizioni di schiavitù), sia denunciando l’alienazione prodotta dall’uso capitalista degli strumenti mediatici, linguistici ed informativi (che alterano e spesso distruggono il diritto alla verità), sia smascherando l’ideologia della sicurezza (dalla quale i padroni traggono sollecitazioni ad una paura generalizzata e panica e così corrompono l’impulso cooperativo delle singolarità moltitudinarie). Non si comprende perché anche in Europa e negli Usa non si comincino ad introdurre strumenti pedagogici che trattengono da queste perversioni e norme giuridiche che le puniscano.

2) È forse utile proporre nel dibattito, soprattutto a confronto con le lotte delle popolazioni andine e dopo la realizzazione di costituzioni profondamente federaliste; a fronte dei nuovi temi dello sviluppo e a quelli della sostenibilità ecologica, et alia – il problema della “territorialità” del comune, cioè delle sue dimensioni spaziali e delle possibilità (più o meno attuali) di mediazioni politiche, economiche, sociali a fronte della rigidità di quelle determinazioni. Qui il tema è evidentemente “modello Lettres persannes”: non si tratta di intervenire sulle lotte e sugli schieramenti che, per esempio in Bolivia, ora si presentono resistendo contro il governo di Evo Morales; ma di assumere quei problemi come indicazione di temi della discussione attorno al concetto e alle pratiche del comune. Chi conosca le lotte che in Val di Susa si conducono contro il TAV non potrà non essere interessato a questi temi e non eviterà di trarre conclusioni adeguate dalla comparazione.

3) Eguale interesse va portato ai processi di unificazione economica e politica del continente latino-americano. Sarebbe davvero utile, per degli europeisti convinti come noi siamo, analizzare come vengano modificandosi le specificità immaginarie delle nazioni sudamericane e come vengano costruendosi condizioni di un federalismo politico assai pregnante.

4) Oltre tuttavia a questi temi di contenuto, storicamente effettivi (buttati giù casualmente, alla rinfusa), sarebbe anche utile tradurre nella nostra discussione spunti epistemologici che ben esprimono – a partire per esempio dai nuovi linguaggi dell’antropologia brasiliana ed andina, nuove proposte conoscitive, nuove analisi delle passioni, insomma contesti ontologici e riflessivi che oltrepassano le strutture e i limiti dell’antropologia europea. Insisto su questo punto perché, sempre di più, da un lato la critica dell’eurocentrismo, dall’altro la profonda autocoscienza del declino europeo (resa oggi drammatica da una crisi distruttiva) solo con difficoltà riescono a maturare nuovi linee di pensiero – ma anche solo la percezione di radicali differenze storiche. Ci si affatica ancora attorno ad orizzonti culturali fondamentalmente regressivi – siano essi legati a tradizioni antifasciste, ovvero a spunti messianici, ovvero a mitteleuropee reminiscenze – o addirittura all’egemonia della critica liberale del comunismo (anche quando le forze neoliberali dell’economia barcollano). Insomma, c’è bisogna di aria nuova, talora quest’aria spira dall’America Latina, e i compagni americani son forse capaci di offricene qualche campione: a noi di tradurlo.

Fin qui si tratta solo di spunti che vorrei chiedere ai compagni sudamericani ed europei di integrare, perché una certa cartografia dinamica delle interdipendenze culturali e politiche, un nuovo sfogliare insieme le Lettres persannes, potrebbe davvero essere molto utile. Umilmente, insistiamo, soprattutto per i compagni europei.

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