di FANT PRECARIO.

1. Il capitale è un rapporto, si dice, e il pomeriggio del 7 novembre 1942 il rapporto era 52X15.
Milano, giornata di allarmi, fame, mercato nero. Il Codice di procedura civile – frutto di un comitato ristretto tra Dino Grandi, Francesco Carnelutti, Enrico Redenti e Pietro Calamandrei (si, proprio lui, il famoso anti, il presunto padre del cencio che ancor oggi finge di reggerci) – era entrato in vigore dal 21.04.1942, mancavano nemmeno tre mesi al fatidico 2 febbraio 1943 quando avremmo liberato Stalingrado e quattro agli scioperi torinesi. Ecco, quel rapporto non era solo un numero che legava moltiplica a pignone traducendo il valore della pedalata, era la potenza proletaria che ansimava veloce sul legno del Vigorelli, decomponendo il senso comune dell’Italia Liberal-Fascista. Non fu per il denaro, né per la fama, era l’affermazione dell’uomo nuovo, che dalla campagna piemontese (come tanti del resto) si spostava a Sestri Ponente (dove si sarebbe sposato a Liberazione avvenuta), e sembrava, lui sì, dire ai contadini curvi … fratello non temere che corro al mio dovere.

Sappiamo tutti come andò a finire nello stato costituzionale: la giustizia proletaria non ebbe a trionfare, i fascisti fuori i compagni in galera, Sestri ristrutturata avrebbe pulsato solo oltre 10 anni dopo sotto la spinta della new wave terrona, lui fatto a pezzi, la dama bianca in galera.
E su tutto la costituzione vigilava attenta ed incorruttibile; il tomo rivelava la propria insipiente presenza laddove al passo veloce ed elegante di Fausto si sostituiva l’andamento sgraziato di un toscano parolaio e papalino (eh, quante analogie con l’oggi…).
Fausto, mio papà lo ricordava più per il cappotto in pelo di cammello, anticipatore di Steve Mc Queen nell’uso elegante dei Persol, nell’amore per Carrea che preferì portare sacchi di cemento a Teglia anziché rifare il Tour de France, che per le grandi imprese (che disvelano sapore di grandi opere, tipo il ponte sullo stretto): dentro e contro il capitale, a forzare il rapporto e far saltare la legge del valore attraverso l’appropriazione di tranquillità e benessere (magari in cambio di una schiena spezzata e dei polmoni marci, ma tant’è, la rossa primavera si animava di un sole che aveva affissi una falce e un martello, mica un tavolo da poker).
Fausto era la costituzione materiale che emergeva dalle acque placide (e manganello-munite) del diritto costituito pre(ma ancor oggi)vigente e sospinto dal ribollir dei tini del movimento operaio. Quella volta la costituzione fu l’olio che placò la tempesta (ma anche Alexander e Togliatti qualcosa ne sanno) tuttavia il segno indelebile di quello spostamento nei rapporti (sempre più veloci e operai) non svanì. Il Fronte invece si.

2. Restava il Tomo. Volutamente trascurato per tutto il decennio dalla ricostruzione, riprese vigore per fronteggiare (probabilmente contro la propria stessa lettera) ogni tentativo di assicurare una funzione sociale alla proprietà, tanto che l’art. 42 Cost. nel “prevedere” tale contraddittoria alternativa assicurava lunga vita alla proprietà “in sé” e non all’uso pronosticato; che poi, l’articolo può essere letto in vari modi, tanto che l’inciso renderla accessibile a tutti (la proprietà, intendo) potrebbe essere invocato a discolpa da ogni finanziere inquisito per la crisi dei subprime (fenomenale strumento di welfare suicida).
Il Tomo era monolite, ma pur sempre avanguardia del capitalismo laburista. In esso questo si dispiegava, accrescendosi di fantasie. Ognuno ci vedeva quello che voleva (un po’ come in Song two dei Blur ai tempi di Blair). L’effetto non era nella validità dell’articolato ma nel “rapporto” di forze che ci stava dietro. Allorquando l’esercito dei diseredati, per vent’anni circa, inforcò nuovamente il 52X15, la costituzione sembrò vivificarsi, estendersi, servire a qualcosa. Invece no. Era quella bicicletta che ne spingeva in avanti la lettura ché [come ben rilevarono i (pochi) giuristi liberali (gli unici ad averlo capito, anche perché giuristi comunisti, a parte Vishinski e ammesso che questi fosse comunista, non ce ne sono mai stati)] la costituzione “di compromesso” non poteva permettere certi abusi (tipo il frigorifero e la 127 per tutti). Ecco, le lotte spingevano, il capitale bastonava (ma anche metteva bombe e inventava industrie, giacimenti di gas, apparizioni della Madonna), la costituzione “mediava”. Ma nel capitale che cresceva, illuminava di benessere le nostre vite, si dava potenza alla rivolta, consentendo l’illusione di un uso progressivo della costituzione.

3. Anche l’istituto del referendum non si sottrasse all’onda, consentendo a berlingueridi di ogni foggia e misura di accampare pretese al tavolo dei vincitori […per tre anni nel bosco coi 40 ladroni eravamo convinti diventassero buoni… per i miscredenti cfr. qui].
Infatti.

referendum_divorzioa) La costituzione – e con esso il suo art. 75 che ci occupa – è entrata in vigore il 1.01.1948, non è un caso che l’istituto del referendum sia stato attivato solo con L. 352/70 (nel momento del massimo mulinare della bicicletta operaia).
Si partì con il divorzio e la difesa della legge 898/1970 (che è successiva alla 352, della cui portata preventivo-repressivo non è lecito dubitare), e i ciclisti si gettarono a testa bassa affinché la Chiesa del Concilio Vaticano II (sapete, quello democratico) non riportasse la costituzione materiale indietro di vent’anni, come cantava un altro Fausto (Amodei): e al referendum rispondiamo “NO!” Voglion portarci indietro di vent’anni, ma ai loro inganni rispondiamo “NO!” … Sono i fascisti che ce l’han proposto, ma ad ogni costo rispondiamo “NO!” … I petrolieri li hanno già corrotti, agli Andreotti rispondiamo “NO!” … A Gabrio Lombardi rispondiamo “NO!” … A Luigi Gedda rispondiamo “NO!” … E ad Almirante rispondiamo “NO!” … Contro le bombe di Ventura e Freda, su quella scheda scriveremo “NO”. La canzone, invero piuttosto Pop e di valore stilistico discutibile, spiega il rapporto che stava dietro alla contesa: la bicicletta non ne voleva più sapere di girare in tondo nell’anello di un circuito, i ciclisti della nazionale autonoma volevano individuare i nemici, batterli, liberare la vita, correre… il balzo in avanti de noantri, insomma (con un po’ d’invidia per chi legge nel futuro, qui).

b) Poi venne il referendum sull’aborto, siamo già nel 1981, il ciclista è stanco, il padrone ha iniziato a ristrutturare il circuito, strade strette, non ancora autostrade telematiche ma comunque difficili da comprendere…. un Airone ormai stanco disse no al quesito del Movimento per la Vita (quello che l’aveva tolta a Giorgiana Masi, per intenderci) volto all’abrogazione di alcuni articoli della legge 22 maggio 1978, n. 194, recante “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza” ma parimenti si espresse a favore della legge Reale ed abortì l’estensione della legge 194/78. Anche qui c’è una canzone, che dimostra la reale portata della legge che nell’occasione ci si proponeva di abrogare con il contributo del “popolo”: la terza volta cerca di strapparselo da sé, centomila sono troppe, dall’ospedale in galera è lei che ci va…… Dentro il ventre di Rita c’è un bel rischio caldo che si contendono in molti: marito, giudici, medici e preti, ma Rita adesso decide per sé. Questa squallida storia qui sarebbe già finita, ma ci vuole un finale per il riscatto del libero aborto, ed è per questo che Rita farà un folle gesto di nobile accusa, un pasto vivo alla morte darà.

c) Venne poi il tempo di andare al mare, dismessa la bicicletta, più comodo parve il cambio a 5 velocità dell’Arna, ottima vetturetta che traghettò l’Alfa alla Fiat, Napolitano da Craxi, Craxi da Berlusconi. In quest’orgia di terziario avanzato si inserisce (e come dimenticarlo?) il referendum del 10.06.85 (a 45 anni dalla consegna della dichiarazione di guerra agli ambasciatori di Francia e Inghilterra, parafrasando l’uomo della provvidenza) allorquando gli Italiani vennero chiamati a validare o meno il Decreto di San Valentino (che più che all’amore il richiamo è ad Al Capone, battuta ritrita ad uso dei più giovani).

3. Il potere costituente fu cosa del capitale, la progressione quella di Armstrong (non per nulla intimo dei Bush), dopata dalla collusione di partiti di sinistra e sindacati. Ogni iniziativa contraria derelitta o dirottata; il rifiuto del lavoro salariato divenne erosione del salario, la potenza del lavoro cognitivo oggetto di esproprio per legge o di fatto, la costituzione oggetto da portare sotto il braccio all’apertura dell’anno giudiziario da parte di giudici con la sindrome di NOTAV.

4. (scelto di trascurare i mille referendum che dopo quelli citati si svolsero, omesso ogni riferimento a quello “sull’acqua” perché troppo connesso a quanto di seguito) Arriviamo al presente: il referendum sulle trivelle si svolgerà il 17 aprile 2016 (per un giorno ci siamo scansati la coincidenza con il triste sessantottesimo anniversario della vittoria della mafia su Garibaldi), nel quesito referendario si chiede: “Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?”.
Il quesito riguarda solo la durata delle trivellazioni già in atto entro le 12 miglia dalla costa, e non riguarda le attività petrolifere sulla terraferma, né quelle in mare che si trovano a una distanza superiore alle 12 miglia dalla costa (22,2 chilometri): se vincerà il sì, sarà abrogato l’articolo 6 comma 17 del codice dell’ambiente, dove si prevede che le trivellazioni continuino fino a quando il giacimento lo consente. La vittoria del SI bloccherà tutte le concessioni per estrarre il petrolio entro le 12 miglia dalla costa italiana, quando scadranno i contratti. Tra gli altri saranno interessati dalla misura: il giacimento Guendalina (Eni) nell’Adriatico, il giacimento Gospo (Edison) nell’Adriatico e il giacimento Vega (Edison) davanti a Ragusa, in Sicilia. Non saranno interessate dal referendum tutte le 106 piattaforme petrolifere presenti nel mare italiano per estrarre petrolio o metano (questo l’ho copiato da Internazionale, no, non l’inno che comunque ci sta sempre bene).

a) A leggere le dichiarazione dei fronti contrapposti si tratta di questione fondativa del futuro d’ognuno: espansione e crescita, capacità decisionale, autonomia (autarchia?) energetica, attivazione di una filiera produttiva atta a rigenerare aree depresse (come le chiamavano i senatori democristiani ai tempi di She loves you e una certa affinità tra lo stato piano di allora e lo stato appiattito, anzi funzionale, al capitale finanziario c’è) per taluni; inquinamento, espropriazione delle potestà degli enti locali, esclusione delle popolazioni dalle scelte afferenti l’economia e lo sviluppo, mancata considerazione dei beni comuni, per gli altri.

b) Ecco, siamo al punto. Tra i tanti che alzano la voce (alcuni addirittura il pugno) si mette forse in discussione: (i) il sistema di produzione capitalistico? (ii) lo sfruttamento del territorio? (iii) il sistema delle concessioni? (iv) la sicurezza sul lavoro? Non mi pare, non è forse inutile chiedersi il perché.
Contrariamente ai casi di divorzio, aborto e, per certi versi (pur guardando già al passato e in odore di consociativismo) al referendum sulla scala mobile, laddove lo strumento referendario (x) si installava su una costituzione materiale estremamente avanzata, costantemente sospinta dalla generalizzata insorgenza (y) coinvolgeva, ineriva un capitale (industriale e produttivo) in espansione o, comunque ancora alla ricerca di una soluzione all’insorgenza di cui sub x), cosicché le questioni dedotte attraverso i quesiti esorbitavano la singola questione e ratificavano un sentire “comune” (questo sì) azzerando la volontà del legislatore (e questo sia per il caso di conferma della legge, così sostituendovisi, sia per il caso di rimozione “popolare” del provvedimento sgradito). Così inteso, il referendum perde un po’ di romanticheria radicale (nel senso di partito) ma contestualizza la situazione, lo stato della costituzione (quella con la c minuscola, ma che è poi quella che regge le nostre povere vite) tutta costretta tra asservimento e captazione.

c) Ebbene, come per ogni istituto “laburista” (tale fosse solo perché inserito in una costituzione siffatta e circoscritto a questa esperienza) il quesito che si pone è sempre il medesimo: quale spazio può trovare lo strumento quando l’intera vita è stata messa al lavoro, quando la produzione di soggettività che procede dall’attività ininterrotta e precaria è espropriata sin dal proprio dispiegarsi? E quale rilievo assume il “voto” (anche se espressione di assenso o dissenso verso una legge data e non nella convinzione, spero ormai venuta meno in chiunque, di una modifica del governo dello stato e/o degli enti locali) nei confronti del capitale finanziario ormai completamente “autonomizzato” e in continua modificazione e ristrutturazione in conformità della valorizzazione (orrenda e criminale) precaria che l’autonomizzazione ridetta attua?
Referendum_trivelleIl referendum – nelle condizioni date – è, al più, un esito, non certo l’avvio di un percorso che deve trovare ragione d’essere nell’organizzazione (della vita) dei precari. Cos’è una legge? Quali limiti incontra se non quelli della disapplicazione della stessa? E questa la puoi raggiungere con un referendum, certo, ma anche con una mobilitazione che modifichi il rapporto di forza tra le parti e soprattutto nella convinzione che il provvedimento è sbagliato. Il referendum è, nella situazione attuale, asettica decisione su una norma, soprattutto laddove è omesso ogni riferimento concreto alla gestione della vita (al contrario di quanto avveniva per “il divorzio”) o perlomeno questo è l’ambito in cui si vuole circoscrive all’espressione popolare.

Si potrebbe obiettare: il referendum è strumento di democrazia diretta. Le parole non debbono trarre in inganno: non è che votare per uno specifico argomento renda la partecipazione “popolare e di massa” (salvo delirare con il marito di Ombretta Colli, libertà è partecipazione), è la stessa cosa che apporre una X sul nome di un aspirante assessore o deputato. Anche in questo caso la X è l’adesione di chi non sa scrivere, come dal notaio, e il notaio è il capitale).
La misura del voto è il peso del cambiamento che da questo può procedere. Il cambiamento non può partire dal voto, come se la scelta di un tizio o di un altro, di rendere le concessioni “automatiche” ovvero soggette al verificarsi di condizioni, potesse cambiare la governance del nostro affannarci terreno. Il voto è comunque adesione, azzera la potestà di scelta. Nè si può affermare che il cambiamento della costituzione importerebbe una perdita di sovranità (e qui siano passati al referendum sulla riforma costituzionale voluta dal Bartali odierno), la sovranità s’è persa – se mai s’è avuta – nella repressione, negli sgomberi, nello sfruttamento del lavoro, in quasi 40 anni di cartolarizzazione delle vite attraverso il debito e la creazione di moneta fittizia, che è poi la stessa che è creata con le grandi opere e le “trivellazioni”.

5. Ed è dall’ora che bisogna ripartire, dalla triste condizione attuale per verificare, comunque il senso del referendum e della, eventualissima, partecipazione allo stesso. Per farlo è giusto indagare sull’oggetto del referendum, che è anzitutto territoriale, e quindi agente direttamente sulla vita degli abitanti.

a) Si sono già individuati i siti interessati dalle “trivelle”, raccontare una storiella a proposito di uno tra essi (storiella ancor più significativa alla luce dello scandaletto del ministro Guidi che ci dimostra l’estraneità del problema alla disciplina legislativa, inerendo, invece, lo sfruttamento “naturale” del territorio per favorire la gestione del territorio politicamente, economicamente – si badi “economicamente” trascende abbondantemente la produzione di energia e i relativi guadagni, che non sono mai esistiti):

Liquichimica di Tito Scalo. Settembre 1959. Nella futura zona industriale di Potenza arriva la Montecatini. Il famoso gruppo Montecatini in Basilicata? Sì, grazie al Ministro dell’Industria Emilio Colombo. In buoni rapporti con il patron della società: l’anziano cattolico Carlo Faina. Si costituisce un’impresa ad hoc. È la Chimica Lucana spa. Lavora materie plastiche impiegando  250 persone. L’inaugurazione, con  la benedizione del vescovo Augusto Bertazzoni, si tiene il 20 ottobre 1961 (a cadavere di Tambroni ancora caldo, e forse per questo), vigilia delle elezioni amministrative.
Primavera del 1971. Va in crisi prima di entrare in produzione la più grande azienda sorta nell’area industriale della piana di Tito Scalo. Trattasi della Chimica Meridionale spa. Ha ottenuto dall’Isveimer 12 miliardi di lire a fondo perduto. L’origine della crisi è finanziaria e dirigenziale. Il suo principale dirigente risulta invischiato in strane vicende riconducibili al senatore siciliano Graziano Verzotto, di lì a poco latitante in Libano. La Chimica Meridionale è costituita nel 1967 a Milano, col proposito di fabbricare e vendere prodotti chimici, in primis i fertilizzanti. Mille i dipendenti da occupare, fra diretti e indiretti. In realtà la cifra delle unità lavorative oscilla da 87, di cui 30 provenienti da Avigliano provincia di Potenza, a 350. Presidente della società è l’avvocato Pasquale Russo di Venosa. La Chimica Meridionale spa è strettamente collegata alla Orinoco Chimica di Seveso. Hanno in comune la sede amministrativa milanese e parecchi dirigenti. Il direttore generale della Orinoco, Ulisse Seni, è consigliere delegato di Chimica Meridionale e, dopo l’arresto dell’avv. Russo, ricopre la carica di presidente. Il dr. Seni è insieme all’avvocato Russo nel consiglio di amministrazione della compagine siciliana Chimica del Mediterraneo spa, il cui presidente è il senatore Verzotto. L’avvocato Russo, tra l’altro, “… è proprietario di un castello nella zona di Imola, abituato a muoversi con auto di gran lusso; titolare di un ufficio fastoso il legale amava mostrare le fotografie che lo ritraevano in compagnia di un uomo politico di primo piano, suo conterraneo. Non meraviglia, quindi, che agli amministratori della Falconi spa il Russo apparisse come l’uomo del destino”. Chimica Meridionale spa a Tito Scalo occupa 500.000 metri quadrati, con un investimento di 25 miliardi e 600 milioni di lire. A fine 1978 si trova in gravi difficoltà produttive e di mercato. Non resta che venderla alla Liquichimica del Gruppo Liquigas di Raffaele Ursini. Arriva il 1979. Con il fallimento del Gruppo Ursini chiude i battenti anche la Liquichimica spa di Tito Scalo.
Oggi, dicembre 2012, si contemplano le macerie inquinanti del perimetro ex Liquichimica, la cui bonifica ambientale tarda ad essere ultimata (Quando i lucani si fecero “liquichimizzare”, qui).

b) Quindi, latamente (ma s’è già detto, il senso referendum è sempre stato più ampio dell’oggetto immediato), l’iniziativa del 17 è completamente attuale e congrua, interessando una “scelta” che la trascende, avvalorandola. Come ci avverte Bascetta sul Manifesto, «ci sono infatti due modi ben diversi per affrontare il riassetto di un’area metropolitana disastrata. Quella di coinvolgere la popolazione e le forze sociali che la abitano e la animano, modulando il progetto sulle esigenze che da queste soggettività provengono, o, ritenendo il tessuto sociale affetto da inclinazioni camorriste, l’imposizione di un modello già confezionato tramite agenzie e commissari».
Illudersi che vietando le trivellazioni – divieto che non è oggetto di referendum, si badi – si possa (i) fermare la mafia cinese; (ii) ridurre lo sfruttamento del territorio; (iii) ottenere leggi decenti da un parlamento analfabeta è illudersi che il precariato possa trovare una via attraverso l’espressione di un rappresentante. A pensarci si tratta di un grande equivoco, dove il finto non parlarne (questa è la principale accusa degli abrogatori) – finto perché se ne parla e spesso a sproposito, soprattutto da chi, appartenente a qualche cosca perdente, cerca visibilità e di accreditarsi presso i movimenti (e questo solo perché l’hanno cacciato dal Rotary), è consacrazione dell’attuale regime di utilizzo dell’intervento dello stato (in alcun modo censurato).

Però il referendum potrebbe essere un modo (uno tra i tanti, si badi) appunto di coinvolgere la popolazione e le forze sociali che la abitano e la animano, modulando il progetto sulle esigenze che da queste soggettività provengono, in quanto la ristrutturazione delle aree dismesse (e tali saranno quelle trivellate, con o senza concessione) e la gestione delle aree comunque interessate da interventi “provvidenziali” sui siti “strategici” è il vero luogo del confronto, il sito, appunto, dove tentare di modificare il rapporto tentare di riprendere la corsa.
Questo, però, va fatto non ignorando che (i) l’iniziativa imprenditoriale è solo un feticcio (diceva ieri una pidina alla televisione che alcune concessione risalenti agli anni ’70 non sono stati ancora attivate, ma allora perché tanta voglia di perpetuare il nulla?), (ii) la vita espropriata, le malattie, il territorio malmenato un accessorio, (iii) il rapporto si spiega altrove nell’affascinante mafia finanziaria che – anche modulando quel quantitative easing for the people che è la corruzione – continuamente rigenera l’oppressione e lo sfruttamento.
Ben venga quindi il referendum, come ogni altro momento di “riflessione” laddove agisca un movimento precario esistente e riferito alla difesa e all’affermazione dell’intera vita e del comune realizzato dal lavoro, magari anche la difesa e l’affermazione dei beni comuni, che proprio nella verifica e costante elaborazione della “nuova” natura si rivelano frutto del primo.

c) Conclusivamente, e riprendendo le parole di un cicloamatore: la scelta del rapporto più adatto è un po’ il cuore dell’arte di andare in bicicletta; occorre sempre scegliere il rapporto adatto alla strada e soprattutto alle gambe del ciclista; un errore molto comune da parte di cicloamatori e cicloturisti sta nel voler spingere rapporti troppo duri per le proprie gambe, magari per imitare i rapporti usati da corridori professionisti che hanno capacità polmonari e potenze muscolari di tutt’altra categoria. Ma come stabilire se un rapporto è adatto alle nostre gambe e alla strada che stiamo percorrendo? Con un po’ di tentativi si può trovare il rapporto ideale….E se la bici non ha rapporti più agili? Bene, anche se costerà qualche qualche soldo, conviene sostituire i pignoni con altri che abbiano più denti, o le corone della moltiplica con altre che abbiano meno denti; se non l’avete già, è opportuno passare alla tripla moltiplica.
Ancora una volta, dobbiamo riprendere la bicicletta correre da Pinerolo a Cuneo, da Milano a Sanremo modificando, rompere quel rapporto che si è evidentemente grippato, senza aspettare un principe (o una consultazione) che di riporti la scarpetta così da sconfiggere le sorellastre del PD.

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