di ANTONIO NEGRI.

È un libro complesso, questo Da fuori. Una filosofia per l’Europa di Roberto Esposito (Einaudi, Torino 2016, pp. 256) che si vuole una summa del pensiero europeo a partire dalla sua crisi novecentesca. L’ipotesi è che, per uscire dal “declino”, il pensiero filosofico europeo abbia dovuto scegliere un “esodo”, abitare un “esilio” e da quel “fuori” ritornare, capace di produrre una nuova proposta di rinnovamento civile sul terreno globale.

La crisi: Esposito la insegue dalla fine dell’Ottocento, ricostruendo quel “nihilismo passivo” che ha caratterizzato, fra Valéry, Husserl e Heidegger, l’aprirsi del sentire filosofico contemporaneo – un sapere sul “declino” che ha avuto una narrazione efficace nel rapporto stabilito da Adorno tra nemesi dell’Illuminismo, crisi della Ragione e l’affermazione egemone di una dialettica del negativo, di una dialettica senza soluzione. O, peggio, nel pensiero politico, una percezione della crisi che da Weber, passando per Jünger e Schmitt, si perde nella disperata assunzione di un’impossibile rifondazione. Di contro l’America. Un’America che a fronte della crisi europea – crisi che è ossessione di una perdita di “origine” – afferma, ad esempio con Hannah Arendt la solidità della propria fondazione: origine e contemporaneità qui si sovrappongono. “Solo il passaggio per il “fuori” poteva restituire una sorta di egemonia a quella filosofia europea incapace ormai di ritrovarla nella propria origine greca”: così Esposito. Attenzione, tuttavia: la nostalgia dell’origine ha spesso come risvolto il desiderio della supremazia. Comunque, secondo Esposito, quella vicenda si è realizzata: a partire dall’esodo degli intellettuali tedeschi dopo il ‘33, il passaggio attraverso il “fuori” americano, si è generalizzato – è negli USA che il pensiero europeo si rinnova, è da quel “fuori” che si propone un vero e proprio salto di paradigma del pensiero europeo.

Il libro di Esposito sviluppa in quattro capitoli la sua ricerca di una nuova filosofia della e per l’Europa di cui abbiamo già colto la condizione: uscire dalla crisi del riconoscimento dell’“origine”, dal nihilismo passivo nel quale la crisi era stata vissuta. Ed è attraverso il “fuori” (non semplicemente l’emigrazione verso l’America degli anni Trenta ma la circolazione transatlantica del pensiero) che potrà darsi un processo ricostruttivo. German philosophy, ovvero la ripresa di una radicale critica filosofica che riempie il proprio procedere di contenuti sociologici e di un’eccezionale capacità critica della realtà contemporanea. Un lavoro di riterritorializzazione che rifiuta – con Adorno, “di confondere la questione del “fuori” con quella del “fine”” – e trasforma dunque radicalmente la filosofia continentale, strappandola ad ogni esito metafisico. French theory: un pensiero che esalta la differenza e interpreta in maniera completamente originale il linguistic turn, facendo della “critica della parola” l’ambito di una pratica di scrittura priva di intenti normativi. (Notiamo tuttavia che qui il discorso si restringe su Derrida. Ben diverso è l’andamento del pensiero foucaultiano: critica dell’“ordine del discorso”, e promozione della “presa di parola”). In entrambi i casi, tedesco e francese, il pensiero va oltre l’affermazione e la negazione dialettiche, è un “anti-Hegel” ma nel contempo mira a “neutralizzare” quel conflitto insolubile dal quale ci si era mossi, ad anestetizzare la crisi. Un’immanenza senza pieghe. E poi l’Italian thought: è “pensiero affermativo” che avendo attraversato l’immediatezza del politico e la durezza della crisi, sviluppa un pensiero costitutivo, oltre la teologia politica, un’istanza biopolitica radicale.

Difficile sarebbe qui dare una chiave di lettura di questo libro che andasse oltre quanto accennato, oppure ripercorrerlo criticamente individuandone forza o aporie. Ci permettiamo di attraversarlo, di stabilire anche noi un “fuori”, notando come questo lavoro sia attraversato da due paradossi e, forse, da un’illusione.

Il primo paradosso è implicito nel cammino stesso che Esposito ci propone. Quell’andare “fuori” per rientrare e, nel rientro, riscoprire un orizzonte di valori “affermativi”. Ed è nell’italico “pensiero vivente” che questo esito si trova. È un piacere sentirselo dire! Se non che la via che va da Machiavelli a Spinoza, dai repubblicani veneziani a Harrington è senz’altro percorribile – difficile invece cogliere una strada di ritorno, per esempio da Jefferson a Gramsci, che non sia quella che passa dal piano Marshall. È vero però, senza più scherzare, che nel sapere filosofico l’egemonia si gioca su un asse transatlantico. Su di esso hanno ondeggiato german philosophy e french theory, ma questo “ondeggiare” che comincia (hegelianamente) a diventare un “dentro” l’Europa, è troppo vago. Esso trama “contro” la modernità un disegno post- e contro la dialettica un progetto decisamente anti-hegeliano – ma diventa più credibile quando lo si qualifica come un italico “indomabile pensiero vitale”? Più facile da definire è un certo oscuro pensiero italiano (fra Tilgher, Rensi e forse anche Colli) che addobba questa forza piuttosto di essere capace di esprimerne la potenza produttiva. E poi – ben conoscendo il pensiero di Esposito – quel vitalismo non assomiglia piuttosto che ad una lontana e profonda origine italiana, a quello che fu proprio di Bataille nella crisi europea dei ’30? Qui Machiavelli rischia di esser preso come una sorgente e non come un potere, una potenza senza conflitto. Il primo paradosso consiste dunque nel voler placare quella crisi che aveva cercato salvezza in un drammatico esodo; che in Germania s’era risolta nell’ostracismo della speranza; che in Francia si era perduta in un labirinto di differenze: di placarla su un orizzonte vitalista che non va oltre la proclamazione retorica della vitalità. Messa giù in questo senso la carta dell’italian thought è davvero debole.

Esposito lo sa. Eccolo dunque ricorrere ad un secondo paradosso. Alla figura biopolitica che, posta come irriducibile forza vitale, non riesce a mordere il reale, vuol dare forza ontologica, attribuendole una qualificazione naturalista. L’implicazione diretta di politica e vita si scopre come implicazione di vita e natura. Il biological turn (che caratterizzerebbe una nuova dimensione globale del pensiero filosofico dopo il linguistic turn) gli permette di ripulire la scena di ogni esperimento filosofico esterno o antecedente la qualificazione naturalista del bios. La french theory ed alcune correnti dell’italian thought vengono così sospinte a lato: son quelle che non sono riuscite a liberare la biopolitica dalla tentazione tanatopolitica (Tronti, Cacciari) o a trasformare la biopolitica in biologia (Agamben). Ma l’operazione è anche inclusiva. Vi sono pagine, ad esempio, nelle quali Esposito, confrontandosi con gli autori della french theory, li vuole assolutamente con sé. Così Esposito introduce l’operazione: “…basti confrontare gli ultimi tre testi di Foucault, Deleuze e Derrida. Pubblicati a dieci anni di distanza l’uno dall’altro, essi convergono sul tema della vita, a testimonianza del biological turn ormai al centro del pensiero contemporaneo, sia continentale che analitico, lungo un tragitto che va dalla biopolitica alle neuroscienze”. Così Esposito ci ricorda una delle ultime considerazioni di Foucault: “dar forma a dei concetti è un modo di vivere e non di uccidere la vita; è un modo di vivere in una relativa mobilità e non un tentativo di immobilizzare la vita”. Di Deleuze quello straordinario scritto L’immanence: une vie: “…diciamo che la pura immanenza è UNA VITA e nient’altro. Non è l’immanenza alla vita ma l’immanenza che non è in niente, è una vita”. Di Derrida: “la morte è originaria: la vita è sopravvivenza. Sopravvivere in senso corrente significa continuare a vivere, ma anche vivere dopo la morte”. Ma questi tre brani che dovrebbero introdurci alla natura e alle neuroscienze, non sono in realtà che tre feroci affermazioni, per Foucault, contro ogni tentativo di rendere immobile la vita (tanto più di naturalizzarla), in Deleuze un’affermazione di singolarità contro l’universale della morte – ed in Derrida non è quella domanda di sopravvivenza una ribellione contro ogni heideggeriana anticipazione della morte? In questi casi il biological turn è meglio lasciarlo alla fisica biologica. Il paradosso di Esposito lo si vede qui bene: per dar contenuto alla “forza vitale” deve toglierla alla vita, alla libertà, alla politica e ridurla alla natura.

Per finire. Esposito non cede a queste difficoltà. C’è ancora un progetto da perseguire. Nel ritorno dal “fuori” è incarnata l’idea, meglio, la speranza di Europa. Per la german philosophy la modernità europea è un “progetto incompiuto”, per la french theory l’Europa è “esausta” – nell’italian thought la speranza è riaccesa. Perché quell’idea di Europa che nel modello Habermas doveva fondarsi sull’invenzione di un nuovo “patriottismo costituente” (e non ci è riuscita), che nel modello di Derrida pretendeva di esportare la crisi, e di dare così forza critica all’idea di Europa nel decentrarla per farla rinascere (e in parte, negli studi postcoloniali, vi è riuscito) – bene, all’italian thought è affidato il nucleo affermativo e costituente del progetto europeo. Reinventare la nostra civiltà nel rispetto della vita comune. Un’illusione?

Questa recensione è stata pubblicata sul manifesto del 17 maggio 2016

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