di SIMON LE BON.

Caro Fausto Amodei, non è vero che il solo vero amico che abbiamo al fianco adesso è sempre quello stesso che fu con noi in montagna /ed il nemico attuale è sempre ancora eguale a quel che combattemmo sui nostri monti e in Spagna: ora che brillanti storici hanno decriptato il fenomeno resistenziale, lo sappiamo bene; i veri partigiani erano Mike Bongiorno e Indro Montanelli, i veri partigiani votano SI, ci insegna il ministro Boschi con il plauso di Bobo (mai la vergogna per il mio essere stato M-L potrebbe essere più grande) e di Togliatti. È, quindi, in questa nuova prospettiva che bisogna analizzare l’impressionante messe di elogi registrati “in morte” di Marco Pannella, e provenienti dall’intero arco costituzionale, per dirla all’antica, ma tutto quello che seguirà, vi avviso, è retrò, come del resto il nostro, da tempo – a dispetto dell’anagrafe che diversamente opina – defunto (quello che negli ultimi giorni godeva della visita di tanti protagonisti della società civile era il fantasma di Andy Warhol che cercava di vendere l’ennesima scatola di fagioli).

Mattina presto, testa con criceto che scorre la sua ruota, la vita messa al lavoro è sempre più lavoro e sempre meno vita; l’occhio cade su Musica Jazz. Non è un numero recentissimo (maggio 2014) ma non leggo mai le riviste appena le compro. Pagina 74, leggo: il jazz che ama mescolarsi – Stanley Clarke – The complete 70’s: nelle quasi cento canzoni presenti non si può fare a meno di notare le partecipazioni di giganti quali Freddie Hubbard, John McLaughlin (l’uomo che introdusse Santana all’uso del cloroformio), Jeff Beck, Billy Cobham (un metronomo per tutte le stagioni), Jeff Porcaro (ogni commento è superfluo), Stan Getz e tanti altri protagonisti che ne impreziosirono la produzione in quegli anni, è un cofanetto veramente prezioso per chi ami (e amore lo si sa è non dover mai dire mi dispiace) gli anni Settanta e le sue aperture totali [ndr. godete perchè (i) vi hanno evitato “globali” e/o il riferimento alla “fusion”; (ii) non vi costringono ad ascoltare il cofanetto]. Stanley Clarke nei settanta era porcheria (come prima e dopo, del resto), basso triste (non malinconico, proprio triste) ovvio come un massaggio sulla tastiera di un pc, che mise in comune il suo nulla con altri venditori di fumo (magari!) e, sfruttando l’arte preziosa di edulcorare ogni respiro di sovversione, la resero miele per api affamate di capitale (e mi pare che di questo ne venne a palate, per loro cash, per noi precarietà e miseria, ma questo è un altro discorso). Però Clarke fu effettivamente gli anni ‘70, come Linda Ronstad e appunto Marco Pannella. Ecco il primo indizio. Incuriosito vado a pg. 48 dello stesso numero della stessa rivista. Navigazioni senza bussola, Company 1, Altena-Honsinger-Parker-Bailey; ecco [all’insaputa di (meglio, nonostante) Stanley ma anche di tutti gli Ollio che servirono il padrone, da Napolitano a Chick Corea, entrambi destinati a inneggiare alla 7th Galaxy della repressione] l’altra faccia dei settanta, quelli nati dal fracasso (come implorava Pietrangeli, fracass-andoci varie parte del corpo): perchè, lo sapete, partendo da Kind of blue si può arrivare (n)ovunque (no south, no north, no east, no west, si intitolano le composizioni di Company 1) ma anche tra le braccia di Morfeo o di Marchionne.

partito_radicaleGenova, non ricordo bene che anno, ma non c’era ancora la statua di Guido Rossa. Atmosfera tesina, Marco Pannella arringa una sparuta folla di fans colla solita marmellata (neanche fosse l’interno di Volunteers) di fascisti rossi (anticipando di qualche attimo il Pertini rampante), due chiese, libberale e libbertario; mi ricordo anche di un banchetto radicale leggermente sospinto e di qualche parola vetero (fascisti di minchia) forse di troppo. Per amor di verità e prima parziale discolpa del nostro, dirò che il PCI era veramente un chiesa con il pope Enrico a stendere la propria man sarda a padroni e democristiani; a Genova, poi, la Special(e)ità dell’organigramma e dei riti consociativi (che attraverso il sottopasso di Burlando ci hanno portato a Paita) avevano reso il partito di Gramsci (per fortuna) e Togliatti (purtroppo) un accozzaglia di latranti cani da delazione e assessori in calore in attesa di poltrone che, da quel momento (e salva la parentesi della Genova da mangiare – meglio, da mangiarsi – di D’Alessandro e Magnani) non sarebbero state loro lesinate e allora? perchè tanto (mio, perlomeno) astio verso quest uomo? quale il solco che divideva la mia vita dalla sua, il sentire opposto e inconciliabile?

Provo a spiegarmi. Prima di piazza Navona: dopo il debutto fra gli amici alla Bussola, per De Andre arrivò anche il primo bagno di folla: piazza Navona, 3 giugno 1975 .. Scopro che Marco Pannella ha conosciuto Fabrizio De Andrè nei primi anni Cinquanta, ai tempi della Baistrocchi, la compagnia goliardica di Genova, una sera che c’erano pure Bruno Lauzi (poffarbacco), Marcello Simoni ed Enzo Tortora (e non è un caso, come vedrete) “e ti dirò di più: fui io a regalare a Dalida il primo disco di Fabrizio, quando stavo ancora a Parigi. Sai chi era un altro che amava molto Fabrizio? Coluche, il comico francese che si candidò anche all’Eliseo e che fondò les restaurants du coeur, i ristoranti per i poveri che esistono ancora oggi.

Capito, compagni del Donbass? (i) la bussola!?! Per me la bussola era – e resta – questo: quella notte davanti alla Bussola/nel freddo di San Silvestro/quella notte di Capodanno/non la scorderemo mai/ Arrivarono i Signori/ sulle macchine lucenti/e guardavano con disprezzo/gli operai e gli studenti. Eran gli stessi Signori/che ci sfruttano tutto l’anno/ quelli che ci fanno crepare/ nelle fabbriche qui attorno. Evidentemente, al Faber quei locali non dispiacevano. [Dopo un occhiata tra il compassionevole e il rammaricato ai poveri del centro storico (trovami una canzone di De Andrè sul giro del vento o su via Leone Vetrano), un salto dagli amici della bussola (una sorta del circolo del golf per musicanti ammaestrati) e poi vvvia di corsa ai bagni di folla con i libberalibbertari; (ii) la baistrocchi , covo di fasci, riccastri e aspiranti tali (mentre noi, parafrasando il vate della Via Gluck, aspiravamo il cemento del CIGE); (iii) i ristoranti per i poveri? ma minchia, siamo ancora all’elemosina?] Insomma, un tutti di noi, baciati dalla fortuna, dalla cultura, dall’ignoranza della vita del proletario di periferia che, tra un bagno (di petrolio) a Vesima e due salti al Lavagello, della gentilezza dei nostri amici liberali (ancorchè venati di anarchismo dorato) non sapeva che farsene.

Da wikipedia apprendiamo che Pannella è il primogenito… e cresce in un ambiente bilingue (molto trendy la cosa, dove a Bolzaneto le due lingue, se c’erano, erano il genovese e il calabrese) frequentato da fascisti e da antifascisti, ebrei e stranieri, maturando idee liberali e antirazziste, [(i) perchè per diventare antirazzista devo frequentare i fascisti?; (ii) segno della forte opposizione al fascio che in quell’evidentemente ampia magione si forgiava] formandosi sui testi di Benedetto Croce e della cultura idealistica dell’epoca (anche Geymonat, se è per questo, ma pare che le strade, per il resto, divergano). Studia alle elementari col metodo Montessori. Ancora giovanissimo, studia violino (all’ILVA era il passatempo preferito, a quanto mi consta, pur con l’accompagnamento di scatarramento da silicosi, però) col professor Righetti, antifascista, che con lui inizia a parlare di politica. Nel 1938 viene a sapere (così, per caso, un po come della vittoria ai mondiali di calcio, con tutte quelle belle braccia romanamente tese) delle Leggi razziali fasciste dal suo professore, che gli spiega le ragioni per le quali una sua compagna ebrea era stata costretta a fuggire dalla scuola (tranquillo professor Righetti, a tanti è andata peggio, restando sempre in Valpolcevera, ricordiamo il 16 giugno 1944, ah, ma quello non conta, erano comunisti). Per i bombardamenti a Roma, poi, è con la famiglia tra gli sfollati a Teramo, dove ascolta per radio della caduta del fascismo (veramente un 25 luglio di lotta, beh direte voi, poteva esplodere la radio e il nostro ferirsi all orecchio, e poi sempre meglio stare lontano da Roatta e Adami Rossi) e assiste alla ritirata dell’esercito tedesco (probabilmente da molto lontano).Torna quindi a Roma nel 1944 (evidentemente a cose fatte). A parte il facile umorismo crasso da M-L, come direbbero gli Stadio, dimmi chi era Benedetto Croce. Liberale? boh. Antifascista? No, vi prego. E quanto tempo è occorso per scorticare la sua impronta schifosa dalla cultura italiana? Però Pannella era con lui e quindi ecco scatenata un orgia di libero liberalismo, per la gioia dei Corrieri della Sera di sempre. Andiamo avanti: …fonda,…il Partito Radicale assieme a Ernesto Rossi, Leo Valiani, Mario Pannunzio ed Eugenio Scalfari (un plauso per il grand uomo). In vista delle elezioni politiche del 1958 si decide di organizzare liste unite con i repubblicani: la coppia PR-PRI (la Smith & Wesson della libertà) ottiene l’1,37% dei voti (e 6 seggi) alla Camera. Non è inutile ricordare che nell’occasione il segretario del PRI era l’ottimo Oronzo Reale, sissì quello della legge omonima.

A parte che, stando all’agiografia, il Mondo (che per inciso non si è fermato mai un momento) aveva una redazione che la panchina del Barcellona è corta, a parte che il solo nome di Eugenio Scalfari mi fa saltare i nervi, mi permetto di ricordare che nel 1958, precisamente il 18 marzo, allorquando il nostro e il suo partito erano a gingillarsi con il compagno Oronzo (perchè i radicali tra loro si chiamano compagni, e per fortuna che Buranello e Fillak sono morti, altrimenti stasera quando passo da Via Leon Pancaldo sarebbero cozzate per il paragone), Vincenzo Di Salvo (e chi ne parla mai? mica era un magistrato, mica era un liberale?) era trovato, riverso al suolo, in una pozza di sangue, nelle vicinanze di una scalinata che da Via Marconi porta a Via Santa Maria, cioè nelle immediate vicinanze del centro abitato. La vittima lascia la moglie e due figli in tenera età, che senza il suo sostegno vengono così a trovarsi nella miseria più nera…in qualità di dirigente sindacale, il Di Salvo era alla testa, da una settimana circa, dello sciopero dei dipendenti dell’impresa, non essendo riusciti i lavoratori ad ottenere dal 1 febbraio, il pagamento dei salari e degli assegni familiari maturati (da L’Unità, 19 Marzo 1958): evidentemente ci sono vari modi di impegnarsi politicamente.

Per concludere, anche perchè, il resto già lo sapete e se non lo sapevate ve lo hanno senz’altro spiegato per benino, ricorderò l’adesione del nostro all’exploit del primo Berlusconi (anch’egli liberale e libertario) e le di lui contorsioni Prodiane (con o senza rosa nel pugno); nè mi dilungherò nella ricostruzione delle battaglie referendarie che appartengono alle intere moltitudini fordiste stanche di privazioni e non certo sono esclusiva di quella sporca dozzina.

Pannella è morto il 3.12.2014, appena approvato il Jobs Act; è morto con l’art. 18 tanto da lui odiato, odio non politico ma scelta di vita. Bisogna tornare alla Bussola, a Scalfari, al ricco De Andrè… l’art. 18 quando non esisteva, occorreva ricorrere alla tutela cautelare atipica, e quindi assoggettarsi al volere del pretore dirigente che poteva ordinare il tuo reintegro, ma non era certo scontato; il danno patito dal lavoratore è di natura economica e quindi ben può essere oggetto di tutela secondaria e risarcito, poi il contratto di lavoro va ricostruito in termini codicistici e allora, alla faccia di Napoleon (pessimo Cognac) e del Code, te lo meni. L’art. 18 era l’operaio che si prende la fabbrica contro il volere del padrone, la singolarizzazione dell’occupazione da estendersi con il sabotaggio, l’anticamera della rivoluzione. Addirittura consentiva l’utilizzo coattivo della forza verso il capitale che aveva escluso il dipendente; ce li vedete i celerini confusi nell’aiutare l’ufficiale giudiziario a far rientrare in fabbrica l’operaio? Ecco perchè il Mondo e i suoi patetici epigoni odia(va)no l’art. 18. Non perchè pastoia (come sempre ci hanno fatto credere), non perchè innamorati dell’american way of life, ma perchè temevano che la bellezza proletaria potesse emergere altra, differente da quella miseranda imitazione che il capitalismo e il liberalismo concedono; il proletario, per una volta non riproduceva (ovviamente, in scala ridotta) il ricco comprandosi la 600, il frigorifero, cotonando i capelli alla moglie (sempre più simil-carven sempre meno massaia rurale), NO. Il potere operaio, che l’art. 18 sprigionava (più simbolicamente che in modo concreto, da ultimo) era uno schiaffo ai ricchi, una modificazione radicale (questa si) dell’ordine costituito. La proprietà per un attimo, per una volta, non era più tale. Non era sufficiente sventolare i certificati azionari, la delibera del CdA, sguinzagliare i cani da guardia…c’era l’art. 18, il VII cavalleggeri del proletariato (con o senza passamontagna, ndr). Ed è questo che il de cuius non tollerava, non comprendendo una felicità altrove dal suo Mondo (appunto, cialtrone, oppressivo – poichè impeditivo della diversità e della soggettivazione operaia – e – anche, forse, magari – libbertario). Non c’era nulla di patetico o novecentesco (se non il fatto di essere norma codificata, emanazione dello stato assassino in un secolo di ossequi al diritto) nell’art. 18, anzi la sola evocazione era ragione di inconsulto terrore per il liberale; era autonomia, unica via che poteva condurre al comunismo, che non era quello di Mosca e Pannella (i) non lo sapeva e allora era fesso; (ii) lo sapeva e allora…

La scelta di Pannella – pacifica ed impossibile – era di pervenire a una legalità che ponesse l’individuo al centro dell ordinamento, il che comportava contraddizioni e difficoltà perchè la sua idea di rispetto della norma non afferiva l’esistente ma ad un progetto di ordinamento che non corrispondeva affatto a quello esistente in Italia; la speranza del cambiamento salvava quanto avrebbe dovuto essere cambiato, l’illusione di utilmente ricorrere ai Magistrati per questioni elettorali, di ottenere chissà quale rispetto (se non della forma) attraverso il raggiungimento della totalità del numero dei Giudici della Corte Costituzione, la stessa censura alla partitocrazia (come se la democrazia rappresentativa fosse da salvare) danno la prospettiva di un uomo completamente interno al sistema di produzione costituzionalizzato anche nelle norme che trovava riprovevoli, che proprio quel sistema produceva.

pannella_sofri_ferraraPannella si è impegnato in molte lotte (ad es., perchè qui rileva) contro la carcerazione preventiva (parlare della lotta alla fame nel mondo sarebbe ingeneroso, Pannella, nonostante tutto non era Bono, e questo gli va riconosciuto), contro la magistratura che agiva/agisce per teoremi. Pannella riteneva fossero state emanate leggi speciali liberticide , stravolta la costituzione e lo stato di diritto, con conseguente restringimento delle libertà costituzionali. Era vero, la denuncia forte e chiara, ma tutto restava muoveva sul piano istituzionale, quasi che un monarca pazzo (la partitocrazia, appunto) si fosse impadronito di strumenti tecnici che restituiti all individuo avrebbero dato ottima prova, restava la fiducia nell’individuo e nella complessiva contemplazione della democrazia liberale (un pò come quando Galgano discettava della scarsa democrazia nelle assemblee delle grandi società, magari quelle stesse che tifavano per i golpe). Era come se considerasse possibile tenere fermo quel regime che aveva posto gli orrendi divieti che aborriva, soltanto eliminando i divieti. Probabilmente, come tutti i Gainsbourg, Pannella odiava i Caselli però, tutto finiva in una compagna (nel senso di convivente) alla quale Hermes dedicava una borsa. Ecco, c’è la Jackie per la moglie di JKF (a questo pensò Gucci), la Kelly per la principessa di Monaco amica di Bing Crosby e c’è la Birkin a imperitura memoria di ogni Jane libbertaria. E a noi? A noi le mazzate, gli sfratti, le borse della standa, le finte adidas.

La corsa di Pannella, per tutti i ’70, fu anche la nostra, solo che i traguardi erano differenti ed incommensurabili; la libertà dell individuo, anche se raggiunta, così profilata non poteva che fermarsi al momento dell emanazione della leggina che abolisce un limite, riduce un termine, rimuove un divieto, tutto lì (e non è certo poco, ne convengo). La corsa del proletariato verso la propria liberazione vide Pannella sempre in affanno; qui il traguardo non era la coppa disciplina ma la rivoluzione. Del diritto, dello stato di diritto, del rispetto delle regole, quali che siano, proprio non interessava; volevamo e vogliamo i soldi – non perchè dello stato o delle banche (che restano banche anche se regolate da qualche ACT più o meno rooseveltiano) – quelli che giornalmente sottraiamo al capitale, evitandone l’espropriazione dall’orrendo modo di produzione esistente, verso il quale il nostro mai mostrò dubbio alcuno. Quindi, riconoscimento a chi volle, fino alla fine, sporcarsi le mani con i poveracci, (la richiesta di amnistia ed indulto, fu una delle ultime hit) sollevando l’unica voce sulla mai risolta questione delle carceri (a patto di non chiamarsi Nicolazzi), in tal modo fiancheggiando posizioni talvolta addirittura sovversive ma sempre irrorato da un flusso di individualismo che non può non essere proprietario e di sopraffazione.

Proprio nella massima comunanza, nella richiesta di riconoscimento della stessa pretesa, emergono massima distanza e distinzione, perchè proprio qui si comprende l’inutilità sostanziale dell’individuo liberale (proprio perchè individuo, proprio perchè liberale), anche se onesto e/o innocente (e questo ci dice molto dell’oggi intriso di polemiche legalitarie).

La carcerazione preventiva, il meschino ricorso alle più truci prassi (che tali non erano risultando novelle, inverate immediatamente dall’utilizzo strumentale della stampa) la dilatazione della stessa, furono scelta precisa e governamentale, presa d’atto dell’incapacità di pervenire ad una decisione, dell’impossibilità o dell’inutilità della sentenza (e qui Pannella era nel giusto rivendicando il senso del giudizio, obliterato dai picini). Il risultato da raggiungere non era l’esercizio del potere giudiziario o il dispiegarsi del diritto bensì la distruzione di ogni forma di contestazione alla ristrutturazione del capitale in atto. Il fatto che il protettore dei ragazzi di Salò abbia perso, sulle prime perlomeno, la partita nel governo del cambiamento con Bettino non deve distogliere da quello che realmente accadde. Ed è proprio la divergente considerazione del (certo, sicuro e condiviso nella percezione) supplizio della carcerazione preventiva che dà significato a quello che dico, concepito da un lato quale straziante distorsione del diritto (ottocentesco, eppertanto liberale), disprezzo dell’individuo (ma così non si va oltre Filippo Turati), dis-unamizzazione, dall’altro come condotta cosciente e necessitata del capitale onde escludere ogni alternativa all’ordine esistente tracciando la corretta via all’incipiente finanziarizzazione, che sarebbe stata ratificata proprio dalla legislazione resa in esito alla consolidazione del potere di quella classe dirigente così costituita e fortificata (perchè si sa è l’aratro che traccia il solco ma sono le manette che lo difendono).

Al cospetto di un innocente amico di Pannella che aveva patito stessa sorte e cercava di dare voce all’individualistica sollevazione contro la carcerazione preventiva, un colpevole affermava sono evaso, sono evaso da una prigione Italia governata da una magistratura indegna del nome di giustizia che mi ha tenuto in carcere per quattro anni e mezzo. Ma soprattutto, alla domanda su quale fosse stato il senso da darsi allo scranno parlamentare ottenuto, rispondeva che quello strumento era stato una lima. Una lima? si chiedeva il sussiegoso liberale. Certamente, io penso che la lima, come la falce ed il martello, sia più importante delle bandiere, le bandiere certe volte sono così squalificate (e che dire di quella rossa di Pecchioli?). Ecco, queste parole un (pur vero e onesto e combattivo e radicale) liberale non poteva capirle.

In ogni caso un grazie sentito per le buoni intenzioni la strada congiuntamente percorsa e un augurio di un buon soggiorno in un aldilà nel quale nessuno dei due crede(va).

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