di SIMONE PIERANNI.

 

Come si è arrivati al 26J

Il primo comizio di Podemos cui ho assistito – poco prima delle elezioni del 26 giugno – si è svolto in un quartiere nella parte sud di Madrid nei pressi della fermata della metropolitana di Aluche. Presenti nella zona del parco adibita all’incontro un centinaio di persone, sul mini palco allestito c’erano alcune sedie in attesa dei relatori. Un paio di banchetti «informativi» circondavano il perimetro dell’evento. Il comizio è stato gestito da quelle che potremmo definire «seconde linee» di Unidos Podemos: nessun big, consiglieri comunali e dirigenti meno in vista, ma attivi sul territorio. Scoprirò da lì a poco che un paio di relatori sono originari di quel quartiere e che poco distante dal luogo del comizio c’è un centro di detenzione temporanea di migranti. E non a caso il tema dei rifugiati sarà uno dei principali dell’incontro, sottolineato poi dai leader nel comizio finale di Rio a Madrid. Ad attendere i relatori c’è un pubblico composito: molti giovanissimi con i genitori, una costante dei comizi di Podemos, e in generale una popolazione varia dal punto di vista anagrafico e sociale. Un pubblico che ho immediatamente catalogato identico a quello che poteva essere presente durante iniziative pacifiste in Italia anni fa. Ma qui siamo tutti per una cosa diversa: non stiamo per muoverci. Aspettiamo che qualcuno parli e ci racconti il futuro: il cambio.

Sono arrivato in Spagna – un paese che per motivi diversi conosco e seguo da tempo – con una preparazione su Podemos basata sui loro testi, i loro documenti e su quanto scritto e pubblicato sulla storia di questo giovanissimo partito. La mia principale curiosità era capire – osservandoli in presa diretta – come si muovessero sul campo. Come affrontassero il pubblico e le loro dinamiche interne, in un momento così delicato come le seconde elezioni in poco più di sei mesi. E se – e in che modo – fossero eventualmente radicati nei territori e quali contatti avessero ancora con quei movimenti nati dagli indignados che avevano finito per diramarsi in tante direzioni diverse. E come con eventuali di questi, come ad esempio Las Mareas, continuassero a lavorare anche in funzione di una tornata elettorale così importante come quella di giugno. Allo stesso tempo ritenevo molto importante capire che paese avessero di fronte, quali pulsioni potessero emergere a pochi giorni dalle elezioni, in un contesto in cui tutti i media erano contro Podemos e nel quale gli stessi media continuavano a pubblicare sondaggi estremamente positivi per Unidos Podemos. Infine, volevo saggiare la reale forza di un’alleanza con Izquierda Unida che – per quanto apparentemente logica – mi pareva contraddittoria. Nei mesi precedenti le elezioni del 20 dicembre, Podemos aveva avuto un rapporto molto turbulento con Izquierda Unida. Basta leggersi i commenti, sia nelle interviste sia nelle pubblicazioni, di Iglesias e compagnia, per comprendere che Podemos era nato proprio in contrapposizione a una sinistra che veniva considerata «infantile nel suo estremismo» e «conservatrice nelle sue dinamiche»1. Iglesias aveva detto – senza tanti giri di parole – che quelli di Izquierda Unida erano degli «sfigati». A sua volta Izquiera Unida rispondeva con scetticismo alla crescita di Podemos. Garzon, il neo segretario uscito da un profondo scontro interno, anche a seguito dello scandalo della banca di Madrid (alcuni nominati da Iu si arricchirono personalmente), sosteneva che Podemos avesse «copiato il programma di Iu», salvo virarlo verso una maggiore moderazione nell’occasione elettorale2.

Molte delle prime campagne comunicative di Podemos avevano come scopo proprio quello di creare uno scarto con la sinistra. Da qui uno dei primi concetti che i media mainstream hanno dovuto affrontare: non più una contrapposizione tra destra e sinistra, ma tra casta e gente, tra maggioranza e minoranza, tra «patrioti» e «usurpatori». Una narrazione che nasce dai riferimenti politici e culturali «italiani» dei fondatori di Podemos, come vedremo più avanti. L’alleanza con Izquierda Unida, dunque, appariva contraddittoria perché Podemos si era presentato agli spagnoli come la novità, il «cambio» contro i «vecchi» partiti. Per questo un’alleanza con un partito che per quanto rinnovato aveva anche avuto, specie a Madrid, recenti problemi, contribuiva a rendere le elezioni del 26 giugno ancora più interessanti.

E poi naturalmente il resto: un Pp guidato da un rabbioso Rajoy ferito nell’orgoglio di non aver potuto fare un governo e spinto dalle dinamiche economiche e di austerity e un partito socialista in gravissima crisi: dilaniato da perdite di voti e da scontri interni. E un partito, infine, nato proprio nel momento di maggior notorietà per Podemos, Ciudadanos. Uno spazio che si apre, vede subito il sistema tentare di occuparlo con qualcosa di più congeniale alla propria natura: ed ecco comparire sulla scena politica anche Alberto Rivera e il suo movimento arancione. Un Pp vagamente più a destra, legalista, conservatore e tutto sommato poco chiaro nella sua proposta politica. Ciudadanos sì che assomiglia ai Cinque Stelle.

La sensazione con la quale sono arrivato al primo comizio era la seguente: rischiavo di assistere a un evento storico. Più che l’eventuale «sorpasso», tutti pensavano che le elezioni del 26 giugno avrebbero seppellito il bipartitismo spagnolo, per sempre. Di Podemos sapevo che era un partito nato solo nel 2014, che aveva ottenuto un risultato insperato alle elezioni europee prima e a quelle politiche dopo, e che per molto tempo era considerato dai sondaggi, addirittura, il primo partito. Ho sempre avuto la percezione di una costruzione a tavolino: alcuni professori che pianificano un partito elettorale, mettendo insieme alcune componenti di quel movimento degli indignados che ancora nel 2013 aveva convinto l’80 per cento degli spagnoli. La maggioranza della popolazione era d’accordo con chi stava in piazza. La risposta del governo era stata quella che ha raccontato Iglesias in un’intervista a Repubblica subito dopo lo straordinario risultato elettorale europeo: «Il movimento degli indignados ha dimostrato che esisteva un consenso sociale: il rifiuto verso la casta e la rabbia per la corruzione erano forti ma non si erano ancora tradotti in una risposta elettorale. Infatti i grandi partiti prendevano in giro il movimento: “Siete indignati? E allora presentatevi alle elezioni”. Ora non scherzano più»3.

La sensazione della preparazione a tavolino, come in effetti fu, è chiara a tutti e contrassegna Podemos. Un attivista di Iu di Madrid, off the record, mi spiegava che dal suo punto di vista «loro studiano tutto a tavolino: hanno un team per ogni cosa, dai discorsi, agli scontri televisivi. Pianificano tutto». Tutto in funzione dell’attività del leader, perché nella campagna per le elezioni del 26 giugno, Iglesias è apparso ovunque, in televisione. È una delle critiche che verranno fatte dopo l’esito elettorale del 26J: troppa tv, pochi comizi. Tanto che qualcuno degli attivisti di Podemos, in una delle moradas di Madrid, mi racconta: «Pablo è stato solo una volta a camminare tra la gente, a Guadalajara, una città dove a dicembre abbiamo perso un seggio per 800 voti. È andato lì due giorni prima del voto». La verità è che – nonostante tutti i dubbi di parte della base – non ci sarebbe Podemos senza la scelta di muoversi subito su un terreno tabù per la sinistra: la televisione e la sfera allargata della comunicazione. E non ci sarebbe stato Podemos senza Pablo Iglesias. La nascita del partito prevede proprio il coleta al centro di tutto, come pietra angolare di tutta la proposta politica di Podemos: dal programma politico al «posizionamento». Tutto passa dalla capacità di Podemos di consentire a Pablo Iglesias di conquistare voti con le sue apparizioni televisive. Perché gli spagnoli conoscevano più Iglesias di Podemos. «Nei primi mesi di vita Podemos è stata segnata dalla mia popolarità mediatica al punto che i responsabili della comunicazione della campagna elettorale hanno scelto di mettere la mia faccia sulla scheda elettorale, cosa che ci ha procurato molte critiche (in molti casi giuste) ma, visti i risultati, si è rivelato un successo e un chiaro indicatore del nostro stile politico; uno stile che provocatoriamente potrebbe essere riassunto nel motto: se vuoi vincere, non fare quello che farebbe la sinistra»4.

E Iglesias in televisione è un fenomeno. Su youtube ci sono addirittura le «compilation» di tutte le sue schermaglie, nella quali quasi sempre esce «vincitore», come quando a un noto giornalista conservatore che sosteneva che una sua ora di lavoro fosse «pagata molto meno di quella del professor Iglesias», el coleta aveva risposto: «E anche di quella del suo maggiordomo».
Su quali basi nasce dunque Podemos? Sull’analisi dell’esistente, sulla crisi e il movimento degli indignados, sulla consapevolezza di poter conquistare una parte del potere vincendo le elezioni, sulla convinzione che tutto quanto arrivava dal 15M poteva diventare egemone sfruttando le capacità comunicative di una leadership forte. Ci sono già molte cose, in queste semplici affermazioni, che stridono con la storia della sinistra come siamo abituati a conoscerla. E lo strappo sarà ancora più imponente durante il congresso di Vistalegre, che vedrà passare la linea del nuovo segretario Pablo Iglesias, e del suo gruppo di riferimento: l’attuale numero due Inigo Errejon e il fondatore Juan Carlos Monedero.

Patria, ordine e legge. E Izquierda Unida

A contrapporsi a Iglesias nella prima parte della storia di Podemos, è stata senza dubbio Sinistra Anticapitalista, già costola di Izquierda Unida con il nome di Espacio Alternativo. Questa componente si era definitivamente staccata da Iu già nel 2008. Anche per queste confluenze nel partito, Podemos arriverà a un primo compromesso. Nel 2014, dopo l’ottimo risultato alle europee, passa la linea del gruppo dei professori: una leadership forte, partito verticale, vocazione maggioritaria. Si compiono due primi strappi: Podemos ha un «liderazgo» marcato. A questo proposito un simpatizzante di Izquierda Unida esponendomi i suoi dubbi sull’alleanza elettorale, mi diceva: «Alla fine se li analizzi bene, sono peronisti». Il secondo strappo è l’espressa volontà di vincere le elezioni e di nominare quindi la parola proibita: «potere». Sul potere Podemos ha prodotto molti documenti, primariamente da parte dei suoi teorici. Ha posto il tema nelle sue riflessioni, nei suoi comizi e ne ha discusso con un chiaro riferimento anche ad un elettorato nuovo. L’opera che ad oggi racconta meglio la concezione di «potere» di Podemos, insieme a temi come legittimità, diritto, sono raccolti in Ganar o morir, un’opera collettiva dove si spiega la scienza politica, utilizzando l’esempio della popolare fiction, specie tra i giovani, Games Of Throne. Queste incursioni in territori marcatamente generazionali, costituiscono il cuore del tentativo egemonico di Podemos: un posizionamento sulla scacchiera, nella lunga «guerra di posizione»5. Ma il programma di Podemos è molto di sinistra.

È prevista anche l’uscita dalla Nato. Poi via via le parole si attenuano, c’è da conquistare un elettorato. Podemos ha un programma sul lavoro, le banche, l’economia e le migrazioni, che ricalca in pieno quello di un partito di sinistra, ma ha una metodologia comunicativa completamente diversa. E durante la campagna elettorale del 26 giugno punta tutto su un alleggerimento dell’aspetto «politico», in nome di una campagna rassicurante e tesa a giustificare l’alleanza con Izquierda Unida. Via i riferimenti alla Nato, si parla meno di «classe», il lavoro non è praticamente presente in nessun discorso. La questione monarchia-repubblica «non è rilevante e non ne parliamo»6, sulle autonomie si apre, un minimo, ma non abbastanza per gli indipendentisti, troppo per i centralisti. La campagna del 26 giugno è incentrata contro il Pp: contro la corruzione, l’austerità, i paradisi fiscali («questi hanno i conti in Svizzera e a Panama» è una delle espressioni più ascoltate durante i comizi di Podemos). Nell’ultimo comizio della campagna Iglesias ha suggellato le tre parole d’ordine di tutti i mesi precedenti: «patria, ordine e legalità».

Si tratta di «contenitori» che Podemos ha deciso di riempire, partendo dalla partecipazione e dallo studio di tre aspetti, in particolare: l’esperienza dei Disobbedienti e delle tue bianche in Italia, l’esperienza latino americana dei governi bolivariani, presso i quali molti di Podemos hanno lavorato, lo studio dell’egemonia da parte di Gramsci e naturalmente l’opera dell’argentino Ernesto Laclau. «La patria è la gente», recitava uno strisicone, ad un raduno di Podemos. Ed è quanto spiega Iglesias, e tutti i leader e gli oratori di Podemos: la patria diventa l’ambito politico identitario di tutti quegli spagnoli che vogliono il «cambio». Podemos ha in mente ancora gli indignados. Ha in mente quel 80 per cento di popolazione che ne condivideva le ragioni. Ma forse oggi le cose stanno in modo diverso, come vedremo nell’ultima parte di questo articolo.

La «patria» di Podemos – dunque – è posta in continuità con un concetto di resistenza ai poteri soverchianti della tradizione spagnola. Da Napoleone a Franco: Podemos si inserisce in un contesto di narrazione storica e tradizionale, che piace anche a Izquierda Unida. Quando chiedo a un dirigente della segreteria se non costituisce un imbarazzo per loro questo reiterazione della parola «patria», mi spiega che «per la sinistra spagnola il concetto patriottico di “Spagna”, si è sempre scontrato con quello di “stato spagnolo” che venne proposto da Franco. Poi quasi si sono invertiti i termini, ma i riferimenti di Podemos sono perfettamente in linea con la storia della sinistra spagnola in questo senso, ci piace la parola patria».

Sul concetto di «ordine e legge», un altro paio di significanti vuoti di Laclau, Podemos appoggia tutta l’esperienza studiata e vissuta tra Disobbedienti italiani e governi bolivariani. A questo proposito va sottolineato l’influsso del teorico argentino e le sue tesi del populismo, e non solo perché Podemos finisce per unire la teoria dell’egemonia di Gramsci a quella del populismo di Laclau, come dimostra Errejon nella sua tesi di dottorato7. Si tratta di spunti teorici non esenti da critiche: «figura e funzione dell’egemonia in Laclau ci sembrano equivoche: piuttosto di analizzare come funziona il capitalismo, stabiliscono come noi vorremmo che funzionasse una società politica che non conosce il capitalismo – o lo confondono con una necessità. Credo che si potrebbe dire la medesima cosa per “popolo”: breccia nel blocco egemonico che Laclau chiama “significante vuoto”, il popolo rappresenta l’occupazione da parte di un gruppo capace di determinare una nuova universalità – ma questo non è del tutto chiaro»8.

Per Podemos dunque la «legge», e in questo senso c’è un’affinità con il Cinque stelle, sebbene con toni decisamente meno manettari, c’è già: basterebbe applicarla per il popolo e in difesa del popolo e molte ingiustizie finirebbero di esistere. C’è, volendo provocare, una chiara intenzione a un controllo molto ferreo dello stato, magistrati compresi. L’ordine è quanto emerge da rapporti di forza e dunque sarà – anche questo – a favore del popolo, dei patrioti. Per capire quanto sia profondo l’impatto dei Disobbedienti su Podemos, basti questo passo che illumina la base del pensiero comunicativo del partito di Iglesias, ovvero contrapporre un «noi» (la patria, la gente, la maggioranza, ecc.) a un «loro» (corrotti, privilegiati, la minoranza, ecc.): «parlando di nuova legalità dal basso, non facevano che prefigurare il carattere costituente delle loro pratiche. (…) Per i Disobbedienti la chiave della prassi antagonista era la creazione di un quadro di senso collettivo (la costruzione del “noi” e del “loro” nella più pura tradizione del frame analysis, se si vuole)»9. Una prima deviazione, uno spin off, di questo articolo potrebbe essere proprio l’analisi di queste confluenze. E del perché la stampa mainstream, fatte le tara della difficoltà di analisi giornalistica, ha completamente rimosso questo link (e in parte lo ha fatto anche la sinistra italiana). Forse, ricordarlo, significherebbe ammettere anche che, al di là dei Disobbedienti, quel movimento anti globalizzazione – sconfitto sul campo a Genova – aveva prefigurati alcuni scenari oggi più che mai reali, consentendo anche di pescare da una cassetta degli attrezzi che in Spagna, oggi, pare offrire parecchie soluzioni.

La Spagna, la destra e i socialisti tra il 20D e il 26J. Dopo il voto: Fracaso o tenuta?

Che paese è la Spagna tra la fine del 2015 e la metà del 2016? Secondo il Telegraph, a fine 2015, la Spagna è «l’economia superstar dell’eurozona»10. Ci sono segnali di ripresa dati da numeri in miglioramento. Tutta la stampa prova a esprimere fiducia. Ma i dati sull’occupazione sono ancora terribili: disoccupazione giovanile al 56%, disoccupazione totale 26%, disoccupazione a lungo termine 13%. Eppure i «segnali di ripresa» cominciano a diventare argomento comune e condiviso. Già nel 2015 si registravano dei numeri positivi (dopati da una riforma del lavoro ancora più flessibile della precedente e che assicurava sgravi fiscali alle aziende): «La crisi spagnola, legata soprattutto alla bolla immobiliare – molto simile a quella della tigre irlandese – aveva visto la distruzione di oltre 1,5 milioni di posto di lavoro solo nel settore della costruzione. Da 2,5 milioni di occupati del marzo 2008, il settore era caduto a poco più 940 mila occupati. Il consumo interno è ripartito grazie alla fiducia che sia la volta buona che il paese sia davvero in forte crescita. La Banca centrale europea nel suo bollettino mensile (relativo a dati raccolti fino al 14 aprile) ha affermato che in Spagna il miglioramento del clima di fiducia dei consumatori ha coinciso con un calo del tasso di disoccupazione»11. Questo nel 2015.

«L’economia iberica non solo tiene: l’ultimo trimestre del 2015 ha mostrato una crescita costante, con il Pil in rialzo dello 0,8%, come il trimestre precedente. Ma si può anche dire che abbia cominciato a correre considerata la media Ue: infatti su base annua l’incremento è stato del 3,2% contro l’1,9% della media europea» si legge sul Corrieredella Sera del gennaio 2016. Non mancano i problemi: «il governo spagnolo ha portato avanti un programma di spending review mettendo a dieta la pubblica amministrazione e ha riformato le pensioni. Poi c’è il capitolo banche. Madrid ha dovuto accettare nel 2012 il programma di assistenza finanziaria dell’Esm, il fondo salva-Stati della Ue, in cambio di 41,3 miliardi che il governo spagnolo ha usato per la ricapitalizzazione degli istituti di credito e per la creazione di una bad bank»12. Questi segnali sono stati sanciti dall’Economist che ha giudicato l’economia spagnola in buono stato, grazie alla diminuzione del prezzo del petrolio, alla riforma del lavoro, agli sgravi fiscali per l’apertura di aziende e grazie all’azione di Mario Draghi. Ma ne ha altresì segnalato i rischi nel lungo periodo13.

Mentre Podemos affrontava una campagna elettorale «rassicurante», era chiaro il campo di gioco: lo scontro era polarizzato. Da una parte Podemos, dall’altra il Partito popolare. Quest’ultimo ha mobilitato tutte le sue forze, le sue connessioni territoriali e tutta la forza di una vicinanza – quando non dominio assoluto – al potere. Un’eredità da giocarsi nei momenti di difficoltà, con un vantaggio non da poco: per quanto corrotto e rincorso da costanti scandali, il partito popolare poteva contare sulla sua assenza nelle decisioni che avevano buttato per strada migliaia di spagnoli. Le manovre peggiori le ha fatte il governo Zapatero. E questo è un elemento importante da tenere a mente, quando ci si chiede perché il partito popolare non sia deflagrato. Inoltre, di recente, El Pais – con un titolo eloquente, La Peste – ha proposto un interessante confronto con l’Italia14. Come è possibile, si è chiesto il quotidiano, che ampie parti della popolazione decidano di votare il Pp nonostante gli scandali e la corruzioni? Succede come in Italia con Berlusconi, è la risposta: votano quelle persone perché sono simili a loro. E la vulgata popolare, di strada, sembra confermare questa posizione. Parlando con alcuni votanti del partito popolare, ho ascoltato quasi sempre questa frase: «magari rubano, ma qualche briciola arriva anche a noi». Questa tendenza è riscontrabile nella leadership di Rajoy.

Personalità mediocre, «el viejo Mariano» è stato perfino in difficoltà dal punto di vista dell’immagine. È stato costretto a seguire i ritmi di due ragazzi, Iglesias e Rivera, molto più scattanti di lui. Ma ha tenuto, nonostante lo scandalo scoppiato alcuni giorni prima delle elezioni che ha visto coinvolto il suo ministro dell’interno. E probabilmente ha avuto un colpo di fortuna inaspettato: il Brexit. «Rajoy ne ha approfittato subito, perché ha detto: vedete se votate Podemos ci arriverà addosso la crisi delle borse, perderemo soldi, finisce che anche noi usciamo dall’Europa se vincono i populisti. Ha approfittato della situazione Rajoy, e molti hanno deciso di votare popolare», mi racconta un militante di Izquierda Unida. Il partito popolare ha contato poi su un altro fattore: seppure minimi, ci sono segnali di ripresa in Spagna. Questo viene percepito come un segnale di sicurezza e stabilità, contro i colpi di testa. La destra si riposiziona, va verso il centro. Direzione presa anche dai socialisti, che il 26 giugno vedranno materializzarsi un risultato incredibile: ottengono la seconda posizione, con il peggior risultato elettorale della propria storia. Ma anche il Psoe, che ha tenuto da parte alcuni scontri interni micidiali, su cui pesa ancora la figura di Felipe Gonzalez, con i felipisti parte importante del partito, ha fatto una campagna elettorale a senso unico: senza annunciare alcuna alleanza e dando addosso per lo più a Podemos. Il quotidiano che più di tutto ha supportato questa campagna è stato El Pais.

Sappiamo tutti come è andata a finire: Unidos Podemos ha ottenuto 71 seggi ma non ha sorpassato il Psoe. Un risultato che sarebbe clamoroso, se non ci fosse stato un ottimismo sfrenato dovuto ai dati dei sondaggi precedenti al voto. Quali possono essere le cause del risultato, del mancato sfondamento e della perdita di un milione di voti, costituirà l’analisi principale da effettuare. Bisogna innanzitutto capire chi sono quelli che hanno deciso di non votare l’alleanza e perché (da prime ricerche demoscopiche sembra che gran parte del milione mancante sia il voto dei giovani che hanno deciso di astenersi).

Ci sono molti aspetti da considerare, partendo forse dall’analisi dell’esistente. Al di là dell’alleanza tra Podemos e Izquierda Unida, che va sicuramente analizzata nelle sue conseguenze elettorali, credo ci sia primariamente da capire che paese ha di fronte Unidos Podemos: ovvero se corrisponde ancora a quello su cui ha basato la sua campagna elettorale che dura ormai da due anni. Inoltre va analizzata anche la campagna elettorale: Iglesias ha rincorso in mille modi il Psoe arrivando a definirsi socialdemocratico. Come ha sottolineato il professor Joan Subirats, a quel punto forse, molti elettori, hanno preferito votare i veri socialdemocratici15. C’è molto da riflettere e capire in che modo, eventualmente, operare un’analisi dell’esistente per capire come porsi sullo scacchiere politico spagnolo. Iglesias ha parlato di “nuova guerra di posizione”, in attesa di capire come le anime di Unidos Podemos cercheranno una sintesi in un ipotetico nuovo congresso. La discussione è aperta, fuori e dentro Unidos Podemos.

 

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  1. Pablo Iglesias, Democrazia anno zero, Edizioni Alegre 

  2. https://www.jacobinmag.com/2015/03/podemos-pablo-iglesias-izquierda-unida/ 

  3. http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/ole-ce-podemos-fare-levate-sangria-capo-anti-casta-89041.htm 

  4. Pablo Iglesias, Democrazia Anno Zero, Edizioni Alegre 

  5. Ganar o morir. Lecciones politicas en Juego de Tronos, Akal, 2015 

  6. Questa frase è presente nel documentario, Politica manuale di istruzioni, 2016 

  7. http://eprints.ucm.es/14574/1/T33089.pdf  

  8. https://www.euronomade.info/?p=4956 

  9. Pablo Iglesias, Disobbedienti, Rcs, 2015 

  10. http://www.telegraph.co.uk/finance/economics/11940977/Why-theres-no-easy-way-out-of-Spains-insurmountable-economic-mess.html 

  11. http://www.ilfoglio.it/articoli/2015/05/02/come-evolve-ripresa-spagnola-rajoy___1-v-128335-rubriche_c234.htm 

  12. http://www.corriere.it/economia/16_gennaio_29/standard-poor-s-ripresa-dell-italia-un-accelerazione-2016-a002ac0a-c6ad-11e5-bc00-4986562dd09c.shtml 

  13. http://www.economist.com/news/finance-and-economics/21660550-growth-has-returned-dangers-still-lurk-back-its-feet 

  14. http://elpais.com/elpais/2016/07/01/opinion/1467387903_079394.html 

  15. http://ilmanifesto.info/ora-podemos-deve-riorganizzarsi/