di  FRANCESCO FESTA.*

 

“Raccontare altrimenti” consiglia Wu Ming 2 quando si usa la letteratura e la storia: una modalità per maneggiare verità storiche con la consapevolezza che il riferimento del romanzo non coincide con il mondo reale. Il télos è l’invito a ragionare sul significato degli eventi, senza cercare verità di comodo, ma esaltando la distanza che proprio un romanzo storico cerca di percorrere. Che è un allontanarsi dalla vulgata storica, infarcita di cliché, che cerca di negare la distanza tra il discorso e i fatti. D’altronde la vulgata storica vuole che la Storia sia scritta dai vincitori, con parzialità, inganni e censure; e abbia come contrappunto complottismo e disillusione. Così chi si discosta dall’ordine del discorso è messo al muro dell’autenticità. La Storia di Elsa Morante non venne accusato di veridicità nel rapporto fra narrazione e riflessione critica?

Altro fattore con cui fare i conti nel romanzo storico è quel rapporto con il testimone, per cui la sua memoria diviene il fatto in sé. E quando la memoria è il frutto di tante individualità che ricordano come un corpo collettivo? Allora la memoria funge da ingranaggio collettivo che aggredisce il presente: come l’Angelus Novus di Klee, dove l’angelo della storia procede in avanti con lo sguardo rivolto all’indietro, alle macerie del passato, poiché la storia non è il luogo del “tempo omogeneo e vuoto, ma dell’adesso”.

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La generazione di Genova è l’ingranaggio collettivo. Si coniuga al singolare il molteplice che sente collettivamente, che interpella l’adesso, con gli occhi fissi sulle giornate di luglio 2001. In questi quindici anni tanti hanno parlato di Genova: hanno scardinato gli archivi della memoria singolare, alla ricerca della verità, come avventura collettiva per l’affermazione di una storia altrimenti. Una ricerca che non è stata la missione impossibile di inchiodare uno, cento o mille alle sbarre, affare oltretutto non propriamente italiano, né tantomeno borghese e del potere costituito: l’ammissione di colpa e l’espiazione della pena. Piuttosto è stata una ricerca ostinata, una lotta collettiva, eterogenea per non cancellare il sangue e consolidare la storia di coloro che camminano verso il vero e il giusto. Il romanzo di Domenico Mungo, Avevamo ragione noi. Storie di ragazzi a Genova 2001, Eris, Torino, pp. 251, 13€, procede lungo il solco dell’ingranaggio collettivo alla ricerca della verità che non si concilierà mai coi carnefici di quelle giornate, né tantomeno con la giustizia o gli apparati dello Stato, per cui i picchiatori del G8 nei giorni scorsi sono stati multati di un pugno di euro per quanto accaduto nella scuola Diaz. La verità dell’autore è un processo collettivo che è affermazione della generazione dell’adesso e del suo sguardo sul passato.

Un episodio dopo l’altro, inframmezzati da illustrazioni di Paolo Castaldi, Mungo ripercorre a ritroso le giornate di Genova. Dalla “macelleria Diaz” al 19 luglio, quando un corteo colorato e festoso introduceva un contro-vertice di persone convinte delle proprie ragioni e niente di tutto quello che è successo sembrava possibile. E poi l’incubo: le urla che si confondono con i manganelli che battono contro gli scudi, l’uccisione di Carlo e la furia cieca dei carnefici di Stato. La prosa ha tempi composti di linguaggio crudo e dolce poetica. Una narrazione che trasuda un discorso sentito, ragionato in una memoria collettiva: l’unica narrazione in grado di rendere giustizia al peso delle parole e ai tempi delle pagine. Ogni capitolo è introdotto da un corredo di tracce musicali a mo’ di guida alla lettura.

Gli archivi statali custodiscono le fonti dei vincitori. I vinti da lì ne sono espunti. Foucault v’identificava “la legge di ciò che può essere detto”. E l’autore vi rifugge per immergersi nelle parole, nelle emozioni e nel terrore di chi in quei giorni c’era e non potrà mai più dimenticare. Avevamo ragione noi racconta il trauma collettivo e i sogni infranti di una generazione che dopo quelle giornate non è stata più la stessa. Una generazione iniziata col ferro e col sangue alla politica. Il pensiero critico e le lotte sociali, anch’esse globali che ha animato, hanno illuminato anzitempo le catastrofi del neoliberismo. Per il mainstream no global, il movimento invece era radicalmente altermondialista. Con materialismo geografico ha preconizzato la crisi infinita, il finanzcapitalismo e la regressione dell’umanità; l’iperconcentrazione della ricchezza e le nuove forme di accumulazione originaria, dal land grabbing al biopolitico; l’incalzare della guerra, di lì a poco globale e permanente; l’esodo di massa e le migrazioni forzate. Temi che sono oggi programmi di lotta della generazione ormai matura che cammina ostinatamente in avanti con lo sguardo verso Genova, verso il giusto e il vero.

*articolo pubblicato da il manifesto il 20 luglio 2016

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