di VERONICA GAGO, SANDRO MEZZADRA, SEBASTIAN SCOLNIK e DIEGO SZTULWARK.1

25/06/2012

1. Retoriche, processi, strutture

In America Latina in generale, e in Argentina in particolare, si assiste a un rinnovamento del ruolo dello Stato dopo oltre un decennio di lotte che hanno sfidato dal basso il neo-liberalismo. Presentiamo di seguito alcuni “appunti” con l’obiettivo di aprire la discussione su questa figura emergente dello Stato, collocandola all’interno di un contesto che ci pare caratterizzato da tre tendenze di fondo: una nuova legittimità ottenuta dai governi “progressisti” attraverso specifiche modalità di inserimento nel mercato mondiale, un’importanza crescente dei consumi “popolari” e una complessiva riorganizzazione del lavoro.

È nostra convinzione, del resto, che l’analisi del sistema istituzionale che prende contraddittoriamente forma in questa congiuntura debba risolutamente collocarsi al di là del campo concettuale e delle logiche che hanno caratterizzato la moderna forma Stato. La prospettiva deve allargarsi in direzione di un insieme di dispositivi di governo che comprendono al proprio interno lo Stato tradizionalmente inteso, ma che non si riducono a esso. La complessiva ridefinizione dei processi di governo che è stata descritta negli ultimi anni dalla letteratura sulla governance si manifesta in America Latina in forme del tutto particolari, ma non per questo meno reali. Proponiamo di analizzare il nuovo ruolo e le nuove funzioni assunti oggi dallo Stato dal punto di vista delle retoriche, dei processi e delle strutture eterogenee in cui questa ridefinizione si esprime. È questa specifica combinazione che ci interessa per comprendere l’innovazione che si sperimenta nel contesto latinoamericano all’interno dell’attuale crisi globale.

2. Oltre l’ipotesi dell’attraversamento?

Nell’ultimo decennio le lotte – sociali, “popolari”, di massa – hanno imposto, nelle loro diverse espressioni, una trasformazione dell’assetto istituzionale rispetto alla matrice strettamente neo-liberale che si era affermata negli anni del Consenso di Washington. Un’ipotesi molto suggestiva per pensare il rapporto tra Stato e movimenti sociali in questo contesto è stata quella dell’“attraversamento”, proposta da Toni Negri: i movimenti sociali potevano ora disporsi ad attraversare le istituzioni statuali per trasformarle dall’interno. Il presupposto di fondo di questa ipotesi (che si collocava oltre le teorie classiche  della presa del potere dello Stato) era che, nella misura in cui questi movimenti esprimevano una potenza eterogenea rispetto alla natura neo-liberale e coloniale dello Stato, le loro pratiche di “attraversamento” avrebbero aperto la possibilità di una radicale trasformazione della sua stessa costituzione.

Questo processo di “attraversamento” dello Stato da parte dei movimenti è stato sperimentato in molti Paesi latinoamericani. Certo: in modo sempre parziale, riluttante a ogni linearità. E, cosa ancora più importante, secondo uno spettro estremamente ampio di modalità, che oscillano tra l’apertura istituzionale “dall’alto” e il condizionamento “dal basso” delle dinamiche politiche. Ne sono indubbiamente derivate una moltiplicazione delle contraddizioni all’interno delle stesse strutture dello Stato, l’imposizione di nuovi temi nell’agenda politica e la prefigurazione di modelli originali di politica sociale, sempre più riconosciuti come centrali dal punto di vista delle dinamiche economiche e nei dispositivi di governo.

È intanto dall’interno di questi processi che hanno preso forma nuove funzioni dello Stato, che corrispondono a strutture istituzionali specifiche e che hanno assunto un’importanza crescente in Paesi come l’Argentina. Non vi sono tuttavia soltanto le strutture istituzionali che gestiscono le politiche sociali. Altrettanto importanti sono ad esempio quelle che “governano” l’interdipendenza economica e l’inserimento nel mercato mondiale: queste ultime costituiscono il punto di congiunzione attraverso cui la specificità del capitalismo latinoamericano si articola con le logiche unitarie del capitalismo globale. Parallelamente alla crescente complessità della figura dello Stato si manifestano nuove tensioni e potenzialmente vere e proprie rotture tra le strutture che la compongono, i processi politici che vengono avviati e le retoriche attraverso le quali si punta a consolidare la legittimità dello Stato stesso.

Questa nuova situazione ci conduce alla necessità di approfondire l’analisi del rapporto tra il capitalismo contemporaneo (uno e molteplice al tempo stesso) e il nuovo ruolo giocato dallo Stato in molti Paesi “emergenti” (non soltanto in America Latina). Questa analisi, tuttavia, impone preliminarmente di liberarsi di una certa immagine “metafisica” dello Stato, considerato – nella forma da esso assunta nella modernità – come se fosse un’essenza eterna e immutabile. Si tratta di un punto per noi molto importante, come già abbiamo detto, soprattutto a fronte delle forme che spesso assume il dibattito sul “ritorno dello Stato”.

3. Istituzioni aperte: una teoria dell’improvvisazione

Se esiste una nuova forma di Stato, essa si caratterizza precisamente per il fatto che – a differenza di quanto sostenuto dalle teorie tradizionali, giuridiche e politiche, dello Stato moderno – la sua unità non può essere assunta come presupposto della sua azione, della sua legittimità e della sua efficacia. All’interno dello Stato convivono segmenti parzialmente “denazionalizzati” (Sassen) e strutture che si organizzano attorno a competenze e compiti specifici, dando origine a una vera e propria istituzionalità “a progetto”.

Nel caso argentino, ad esempio, lo Stato mostra una capacità straordinaria di gestire l’inserimento nel mercato mondiale attraverso l’economia estrattiva, l’amministrazione di una parte della rendita generata dal commercio di materie prime (minerarie e transgeniche) e la costruzione di rapporti diretti con nuove fonti di finanziamento (ad esempio le banche cinesi).

Le strutture, i processi e le retoriche che fanno capo alla figura dello Stato operano tutti a partire da queste circostanze e da queste fonti di approvvigionamento di risorse. In questo contesto, la presenza molto forte di un discorso “sovranista” e nazionale come criterio organizzatore di uno scenario “neo-sviluppista” (con l’enfasi sulla cittadinanza, sulla scienza e sull’industria nazionale che lo caratterizza) coesiste e si rafforza con l’assunzione della crescente interdipendenza globale.

Ne deriva, ed è questo il punto che maggiormente ci interessa, un modello di “istituzioni aperte”, costruite su un principio di permanente improvvisazione rispetto alle loro modalità di azione e intervento nonché ai loro parametri di efficacia. All’interno di questo schema viene anche gestita la continua sovrapposizione di scale (locale, nazionale, regionale, globale), con i conflitti che ne conseguono.

Anziché attribuire questi caratteri peculiari alla “transizione” verso il tradizionale “Stato del benessere” (o verso un suo “ritorno”), ci sembra più produttivo assumerli come elementi di una nuova figura statuale, in cui l’efficacia dell’azione di governo riproduce continuamente una fragilità di fondo, relativa tanto alla unità complessiva delle sue strutture quanto al fatto (fondamentale) che questa istituzionalità intrattiene un rapporto costitutivo con processi di mobilitazione sociale da cui in ultima istanza dipende la sua stessa efficacia.

4. I piani sociali: il consumo sganciato dal lavoro?

In Argentina, come in altri Paesi latinoamericani, è oggi in atto un processo, per quanto limitato e diseguale, di redistribuzione della ricchezza sociale. C’è indubbiamente un rapporto molto stretto tra questo processo e la pressione esercitata in questi anni dalle lotte sociali, che sono state un elemento essenziale del regime di legittimità degli stessi nuovi governi “progressisti”. Come si vedrà, tuttavia, ci sono anche altri fattori in gioco.

La natura, la composizione e lo sviluppo delle politiche sociali sono aspetti cruciali per comprendere almeno tre grandi questioni: il modo in cui il governo “legge” e gestisce il conflitto e la cooperazione sociale, il rapporto tra governo e movimenti sociali e le trasformazioni “soggettive” che si determinano a livello sociale. In questo senso, rappresentano una lente particolarmente efficace per mettere a fuoco i momenti di sconnessione tra retoriche, strutture e processi di governo.

Anche limitando la nostra analisi esclusivamente all’Argentina, risulta molto difficile parlare dei “piani” sociali in modo unitario e sistematico. Al contrario, l’elemento fondamentale da sottolineare è la loro varietà. Così come esistono piani sociali che tentano di adeguarsi alla complessa mappa sociale tracciata dai movimenti degli ultimi anni (decisiva, a questo proposito, è l’implementazione del piano di cooperative Argentina Trabaja), ve ne sono altri che presentano caratteri più o meno universali (Asignación Universal por Hijo, Jefas de Familia, etc.), ma anche interventi di finanziamento ad hoc per micro-imprese che agiscono all’interno dell’“economia sociale”.

Ciò detto, è certo necessario pensare complessivamente gli effetti di queste molteplici ramificazioni dell’“assistenza sociale” unificate sotto la retorica dell’“inclusione” dell’“impiego”. La cosa più importante, tuttavia, è analizzare il modo in cui queste retoriche si articolano con i seguenti processi:

1) modalità di relazione estremamente complesse con i movimenti sociali: tra la negoziazione, la subordinazione, il riconoscimento e l’intervento “riparatore”, l’allestimento di strutture parallele e lo scontro più o meno diretto.

2) La disgregazione delle reti collettive: siamo in presenza di una combinazione tra finanziamento ai movimenti e prestazioni individuali, ma anche di una penetrazione di questo mix all’interno degli stessi movimenti. Da una parte si affrontano problemi “uno a uno”, istituendo strutture di comando e controllo territoriale che gestiscono l’incorporazione individuale (e negoziata) all’interno del singolo piano sociale e delle agenzie statuali (municipi, Ministero dello sviluppo sociale e del lavoro). Dall’altra, ci sono complessi canali di negoziazione collettiva e interlocuzione istituzionale (dall’ottenimento di risorse alla gestione diretta di un progetto).

3) Produzione di sapere come forma di governo: i piani sociali permettono di sviluppare una “intelligibilità” del mondo “popolare”, uscito profondamente trasformato dagli anni del neo-liberalismo e dalla crisi del 2001. È una sorta di censimento e classificazione delle forme di vita che non si possono considerare interne né al mondo del lavoro salariato formale né ai canoni classici con cui opera lo Stato. Il reclutamento all’interno dell’apparato statale di funzionari provenienti dai movimenti e dalle scienze sociali è stato un presupposto essenziale in questo senso. La loro conoscenza dei gruppi e il loro sapere operativo, territoriale e organizzativo sono alla base di nuove forme di interlocuzione – ma anche di un nuovo sistema di esclusioni.

4) Politica della sicurezza: la conoscenza e il controllo territoriale resi possibili dai piani sociali garantiscono un’accumulazione di informazioni su gruppi e movimenti su cui non può realisticamente contare nessuna forza di sicurezza. La recente nomina del funzionario storicamente responsabile delle trattative con i movimenti sociali a Vice-ministro della sicurezza parla molto chiaramente di una realistica riformulazione delle concezioni e della stessa nozione di sicurezza.

5) Il piano sociale come produttore di una nuova forma di cittadinanza: una parte dei requisiti dei piani consiste in un certo tipo di iscrizione legale dei “beneficiari” in aree sociali in cui predomina l’informalità – scolarizzazione, vaccinazione e documentazione obbligatoria diventano contropartite necessarie per accedere alle prestazioni e ai sussidi. Tuttavia, qui vediamo in atto un’ulteriore novità: le istituzioni classiche dello Stato non sono in grado di rispondere alla domanda di massa che deriva da questo genere di prestazioni obbligatorie. Conseguentemente, spesso lo Stato si serve di iniziative autonome per supplire all’impossibilità di una soluzione istituzionale. Facciamo un esempio: lo spettacolare aumento della scolarizzazione, da quando quest’ultima rappresenta una condizione per accedere alla Asignación Universal por Hijo, ha obbligato lo Stato a fare ricorso all’esperienza autogestita dei “bachilleratos populares”, che praticano l’educazione popolare nelle fabbriche recuperate dal 2001, e contemporaneamente a riconoscere la loro esistenza a partire dall’erogazione di salari al di fuori dei contratti collettivi della scuola.

Questa sintetica descrizione di alcuni aspetti del funzionamento delle politiche sociali ci consente di sottolineare un punto chiave: la retorica dominante del ritorno dell’impiego convive con sussidi che, pur erogati secondo questa retorica “lavorista”, sono destinati direttamente al consumo. Vale dunque la pena di domandarsi: che scenario configura questo modello di finanziamento dei consumi?

Sembra di capire, analizzando le retoriche del governo, che l’idea sia quella di una sorta di “politica dei due tempi”: prima il “decollo” dei consumi attraverso piani e sussidi; poi la generalizzazione dell’impiego, immaginata secondo modalità classicamente industriali e “fordiste”.

Ma a noi pare che non sia questa la tendenza in atto all’interno del mercato del lavoro argentino, e che sia più realistico pensare la seconda fase della “politica dei due tempi” secondo altre direttrici: una proletarizzazione eterogenea e precaria che non configura una “sala d’aspetto” per il pieno impiego “fordista” bensì la condizione di possibilità di un massiccio ricorso al credito individuale, secondo dinamiche di indebitamento che hanno come correlato la coazione a un lavoro comunque definito e comunque regolato.

Se questa ipotesi ha qualche plausibilità, l’espansione dei consumi “popolari” annuncerebbe un approfondimento di processi di mobilitazione e sfruttamento capitalistico della cooperazione sociale nelle sue forme sempre più diffuse e variegate. E le retoriche dei diritti, oggi così diffuse in Argentina, verrebbero a intrecciarsi con l’approfondimento di processi di finanziarizzazione del  mondo “popolare”.

5. Capitalismo popolare ed esteso

Questa svolta, o questo “secondo tempo” della politica assumerebbe come proprio modello la rendita finanziaria, con le specifiche forme di estrazione e cattura del valore prodotto dalla cooperazione sociale che la caratterizzano. Il termine “estrattivismo” acquisirebbe così un ulteriore significato: non si riferirebbe più soltanto alle risorse naturali e transgeniche, ma si estenderebbe per questa via a molteplici forme di sfruttamento dei modi di vita contemporanei.

Come già abbiamo detto, la “reinvenzione” dello Stato in un Paese come l’Argentina si gioca, in primo luogo, nella produzione di una mediazione con il mercato mondiale. Nei Paesi che vengono definiti “emergenti”, tuttavia, questa mediazione si lega a sua volta con un’ampia attività autogestita e informale, sempre più presente nell’attività economica, riconoscendone la potenza produttiva e al tempo stesso catturandola. Il mondo dell’economia informale e autogestita ne risulta così rigenerato, in salute e fluido, ma al tempo stesso subordinato e iper-sfruttato.

La nascita di un mondo capitalistico “popolare” è strettamente legato alla capacità di recuperare esperienze e pratiche di autogestione a fronte di relazioni, transazioni e politiche non statali all’interno di una società sempre più eterogenea. Quello a cui assistiamo è un processo di continua rigenerazione di queste e esperienze e di queste pratiche in relazione diretta con il mercato.

Questo universo di pratiche informali ha ormai una presenza sempre più importante ed esplicitamente riconosciuta all’interno dell’economia argentina. Al tempo stesso costituisce uno “specchio” che consente di leggere alcune tendenze generali che stanno ridefinendo il “lavoro” in Argentina: sia per la precarietà che lo caratterizza sia per la sua capacità di gestire e negoziare il rapporto con un mondo in rapida trasformazione.

Esiste ovviamente un rapporto diretto, e di fondamentale importanza, tra forme del lavoro, della cittadinanza e della statualità. Quello che vediamo in questo “specchio” è che il lavoro (formale, salariato, “in bianco”) cessa di essere la mediazione centrale, che le forme della cittadinanza si organizzano ora necessariamente in altro modo, e che conseguentemente cambia il ruolo dello Stato: il suo stesso “protagonismo” in un Paese come l’Argentina è continuamente costretto a fare i conti con forme di lavoro e cooperazione sociale irriducibilmente eterogenee, al cui interno le logiche mercantili e la rendita finanziaria impongono direttamente i loro criteri di regolazione sociale. È questa tendenziale sconnessione tra lavoro e Stato che può essere la base per una riorganizzazione delle modalità politiche tanto dello sfruttamento quanto delle lotte sociali

6. Integrazione regionale, asse BRIC e ritorno del nazionale

Abbiamo detto che il capitalismo contemporaneo è uno e molteplice. Nella misura in cui la sua logica (l’accumulazione senza limiti del capitale) organizza e comanda i rapporti sociali in tutto il pianeta, trovando espressione in particolare nei mercati finanziari globali, si approfondisce l’eterogeneità dei processi di produzione del valore, delle figure soggettive del lavoro, dei tessuti sociale e culturali in cui si determina la cooperazione tra queste ultime. La fortuna che in questi ultimi anni stanno conoscendo, in America Latina come in Asia, le teorie delle “modernità alternative” e dei “diversi capitalismi” acquisisce tutto il proprio significato sullo sfondo di questi processi. Rischia al tempo stesso, ci pare, di far perdere di vista il problema essenziale, ovvero quello – per riprendere i termini appena utilizzati – dell’articolazione tra eterogeneità e unità all’interno del capitalismo contemporaneo. Questa articolazione è assolutamente concreta, e il ruolo dello Stato (o di singole strutture “statali”) è decisivo nel determinarla – soprattutto nei Paesi “emergenti”.

La stessa cronaca delle ultime settimane ci offre significativi riscontri in questa direzione. Il viaggio recente di Cristina Fernández de Kirchner in Angola è molto importante, sia per il rapporto tra questo Paese e la Cina sia per la sua possibilità di costituire un polo di aggregazione “regionale” in Africa. È inoltre il caso di sottolineare che la delegazione di imprenditori e uomini d’affari che ha accompagnato la “presidenta” in Angola includeva al proprio interno un rappresentante del grande mercato informale “La Salada”, ubicato nel conurbano di Buenos Aires e luogo chiave dell’economia “popolare”, con significative ramificazioni regionali e transnazionali (sia per la componente migrante del lavoro che ruota attorno a “La Salada” sia per la circolazione e la commercializzazione dei prodotti). L’apertura di linee di credito dalla Cina, orientate a garantire il finanziamento di infrastrutture e trasporti essenziali per il modello fondato sull’esportazione di materie prime agrarie e risorse naturali, è un’altra delle notizie rilevanti degli ultimi tempi, mentre l’integrazione regionale latinoamericana, che è stata comunque essenziale per l’uscita dalla crisi dopo il 2001, è passata un po’ in secondo piano nel dibattito pubblico.

Tuttavia, l’attuale congiuntura finanziaria, in cui lo Stato argentino non ha accesso diretto al credito degli organismi internazionali, pone una domanda essenziale, ancorché paradossale: nel momento stesso in cui si insiste sul recupero della sovranità monetaria (con lo slogan della “pesificazione” dell’economia), l’Argentina non sta forse rischiando di assistere a una plateale perdita di valore della sua moneta in primo luogo nei confronti di quei Paesi rispetto a cui si parla di integrazione regionale su basi non neo-liberali?

A noi sembra, in ogni caso, che l’insieme delle questioni che vengono attualmente discusse a proposito del “processo BRIC”, inteso in termini più ampi che come semplice riferimento a un potenziale asse tra quattro Paesi, sia oggi di fondamentale importanza. La geografia difforme della crisi attuale non parla soltanto delle opportunità “congiunturali” che si aprono per singole economie “emergenti”, come quella Argentina. Più in profondità, dobbiamo saperla leggere come sintomo di processi di più lungo periodo, che stanno scuotendo dalle fondamenta il capitalismo come sistema-mondo. La crisi dell’egemonia statunitense, di cui si è fatta esperienza del tutto “positivamente” in America Latina negli ultimi dieci anni, costituisce uno dei temi di fondo della crisi attuale. Non ci azzardiamo a disegnare scenari per il futuro: certo è che è l’intera struttura dei rapporti tra “centro” e “periferia” a essere oggi in movimento, a scomporsi e a moltiplicarsi, tanto da rendere davvero del tutto inutilizzabili paradigmi concettuali come quelli costruiti dalle teorie della “dipendenza”.

Il profilarsi all’orizzonte di scenari “multipolari”, al di là di ogni retorica apologetica, è un elemento fondamentale per interpretare il processo di crisi e gli sviluppi a cui si assiste in Paesi come l’Argentina e più in generale in America Latina. E tuttavia, se registriamo l’opportunità che si apre, il problema che immediatamente va sottolineato è un altro: le basi economiche di questa nuova configurazione sono profondamente caratterizzate dall’interdipendenza a livello globale e dai processi di finanziarizzazione del capitalismo. Di qui derivano potenti coazioni, che ci sembra difficile aggirare con le retoriche del “ritorno a un capitalismo serio”, per riprendere le parole utilizzate da Cristina Kirchner al vertice G20 dello scorso novembre a Cannes. Queste retoriche rischiano anzi di funzionare come un velo ideologico, di occultare cioè le coazioni che abbiamo appena nominato, impedendo di aprire un dibattito – realmente “serio” – sul modo in cui farvi fronte.

Il “ritorno a un capitalismo serio” rappresenta del resto l’altro lato del discorso sul “ritorno dello Stato”, che caratterizza oggi il dibattito politico in Argentina così come in molti altri Paesi latinoamericani. Il metodo analitico che abbiamo provato a delineare in questi “appunti”, attento a evidenziare i momenti di sconnessione (oltre che, naturalmente, di articolazione) tra retoriche, processi e strutture, consente di cogliere gli elementi di novità che contraddistinguono il sistema istituzionale e lo stesso intervento dello Stato senza restare abbagliati dalle immagini prodotte dai governi per affermare la propria legittimità. Al tempo stesso, ponendo al centro dell’analisi il rapporto tra nuove funzioni dello Stato e capitalismo contemporaneo, apre una prospettiva critica sugli elementi di fragilità e sugli squilibri che segnano l’azione dei nuovi governi “progressisti” latinoamericani (e in particolare di quello argentino) tanto sotto il profilo delle politiche sociali quanto sotto quello delle politiche monetarie. Ma è in particolare sul terreno delle trasformazioni soggettive che si determinano all’interno della composizione sociale e produttiva, sui momenti di “incontro”, frizione e potenziale scontro tra queste trasformazioni e la nuova figura che sta assumendo l’intervento istituzionale che l’inchiesta andrà necessariamente approfondita.

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