di ALBERTO MANCONI e BRUNO MARTIRANI

Nuove forme di organizzazione ed incursione nello spazio mediatico

 

Nel panorama dell’attivismo sociale in Italia viene oggi continuamente sottolineata “l’importanza della comunicazione”, la necessità di mettere in piedi “campagne virali”.

Queste esigenze che emergono sempre di più, sono a nostro avviso il frutto acerbo di una diffusa rilevazione di quella “seconda natura”[1] determinata dal Web che vede la sostanziale coincidenza del  mondo virtuale con quello reale, modificando radicalmente il funzionamento del campo delle relazioni sociali, e dunque le strutture fondamentali dell’economia e della politica. Infatti, tanto l’ambito della valorizzazione quanto quello della decisione non possono oggi venir separati dai meccanismi della trans-mediale produzione di senso nell’opinione pubblica, cioè quel di lotta in cui proviamo a stare ogni giorno singolarmente e collettivamente.
Pensiamo che comunicare oggi significhi sostanzialmente osservare bene questa “nuova realtà” e azzardarne connessioni, capendo e costruendo così allo stesso tempo l’immaginario di cui abbiamo necessariamente bisogno.
In questa prospettiva, il rischio è che mentre sottolineiamo ossessivamente l’importanza della comunicazione per la creazione di campagne che incidano dal basso nell’opinione pubblica, continuiamo ad intenderla come mera descrizione delle cosiddette lotte reali. Non perché questa funzione descrittiva non sia una parte del ruolo che la comunicazione necessariamente assume per i movimenti, ma perché è essenziale considerare anche l’innovazione politica che la creazione di nuove maschere comunicative[2] può retroattivamente alimentare.

Abbiamo un’urgenza viscerale di innovazione politica – sottolineata sempre più spesso anche dai soggetti più insospettabili – ma sancito ciò dobbiamo interrogarci, e cominciare a fornirci di alcune risposte parziali, sul metodo per adempiere a tale innovazione.

Dobbiamo, insomma, distinguere i problemi e capire dove siamo – come soggettività organizzate – più solidi e dove invece abbiamo bisogno di accrescere la nostra potenza produttiva comune.
Di continuo si abbozzano risposte alla sempreverde domanda “Che fare?”. In questo vantiamo un alto grado di specializzazione, che vediamo esplicarsi in ognuno dei cosiddetti “incontri di movimento”. Ma come viene inteso il “Che Fare?”: principalmente come attività per cui la risposta alla domanda è funzionale a determinare il Chi-Soggetto a cui è attribuibile – egemonicamente – una risposta, piuttosto che il Come.
Interrogarsi sul “Come” è invece evidentemente fondamentale nel contesto italiano, dove un’altra comune constatazione negli incontri nazionali tra realtà di base è la grave mancanza di una grande sollevazione sociale generale negli anni del cosiddetto “ciclo Occupy”. Dicendo ciò dobbiamo però sfuggire al sinistro pessimismo per indicare nelle Maschere-Segno portate dalla Rete in Piazza, degli esempi positivi da cui ripartire con l’analisi e l’immaginazione.
Tale “Come” infatti, non può che essere il frutto odierno di un’immaginazione politica che metta a in moto le capacità creative dei circuiti militanti al fine di uscire dagli stessi. In questo senso, la competizione egemonica soggettivista dei gruppi – spesso ridotta a banale gara a “chi sceglie prima che fare”- risulta non solo inutile rispetto alle sfide dell’esistente ma controproducente.
Insomma, se vogliamo accettare una qualche forma di competizione nella formulazione delle differenti strategie politiche, varrebbe la pena che questa vertesse sul “Come” anziché sul “Chi” prima arriva a legittimarsi come attore all’interno di un panorama mediaticamente inesistente ma che al contempo si annovera come “universale” tra le lotte.

Il nostro “Che Fare” deve trovare risposta infatti nella capacità di costruire un senso dalla parte dei senza potere. E questo oggi si può fare solo con la comunicazione dal basso, cioè con la capacità creativa di inventare maschere in grado di aggredire le narrazioni tossiche dei potenti ed al contempo coinvolgere ulteriore potenza creativa.
Essere attivisti – e dunque necessariamente mediattivisti – oggi è difficile in un contesto in cui la pluralità degli strumenti da utilizzare confonde sia l’agente che l’utente, ma è necessario provarci.
E’ necessario tenere conto di ciò che accade nella realtà e sapere subito quale strumento utilizzare per raccontarlo e metterlo così in connessione con i soggetti ed i processi sociali.
Il linguaggio è fondamentale: basti pensare che oggi, nel mondo dei 140 caratteri, essere essenziali è vitale per farsi comprendere, e non solo: utilizzare neologismi, hashtag come parole chiave, è fondamentale per condividere il messaggio con quella generazione giovane oggi inascoltata.

 

La comunicazione – ed il lavoro che essa ci costringe a fare – dobbiamo dunque concepirla come forma di immaginazione politica. Un’immaginazione che certo è in relazione con le strutture logiche determinate dalle piattaforme utilizzate per la comunicazione – interna o esterna che sia.

D’altra parte siamo già animali politici con lo smartphone in mano, dobbiamo solo prenderne consapevolezza ed utilizzare tali supporti con cognizione. Evitando quindi che siano essi stessi a dominarci, trasformando la capacità politica creativa di cui ci dotano in ordinaria “funzione amministrativa”.

Per tutti questi motivi abbiamo un urgente bisogno di trovare dei metodi efficaci attraverso i quali coordinarci e avere la possibilità effettiva di immaginare e costruire strategie tecnopolitiche vincenti.

Questi metodi li possiamo apprendere, insieme, solo nella prassi. Una volta assunto però che essa è anche pratica di comunicazione.

 

Possiamo intanto analizzare ciò che facciamo, per scorgere esempi e controesempi, indagando insieme alcuni punti:

– Capire le specificità delle tante piattaforme che utilizziamo, per la comunicazione interna ed esterna.

– Utilizzare e potenziare l’utilizzo di piattaforme di comunicazione e organizzazione interna che siano filtro e catalizzatore di partecipazione di soggetti esterni, che siano stimolo per lo sviluppo di quell’intelligenza collettiva che messa in rete può esprimersi.

– Indagare come le forme classiche delle realtà di base, cioè gruppi con relativa identità e omogeneità, possono cogliere la sfida organizzativa dettata dalla nuova realtà tecnopolitica. Quali sono dunque i rischi e le opportunità nel nuovo contesto di organizzazione virtuale-reale.

[1]     B. Vecchi, La conversazione necessaria

[2]    Exploit, Su le maschere

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