di VERONICA GAGO e DIEGO SZTULWARK.1

04/12/2012

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Il mese di novembre ha disseminato di interrogativi la congiuntura politica argentina a partire da due episodi fondamentali. Prima un nutrito cacerolazo ha percorso alcune città del paese (particolarmente grande nella città di Buenos Aires). Pochi giorni dopo si è concretizzato un primo tentativo di sciopero generale da parte di vari nuclei sindacali, politici e sociali oppositori al governo di Cristina Kirchner. Con queste brevi note ci proponiamo di riaffermare alcune impressioni riguardo i cacerolazos (dato che i cacerolazos del chiamato “8N” ripetono quelli del 13 settembre, si veda http://www.uninomade.org/cacerolas-bastardas/) e di aggiungere alcune linee di interpretazione sullo sciopero. L’obiettivo è duplice: risaltare tanto il mostrarsi di alcuni segni di una nuova mobilità sociale e politica, quanto l’impossibilità di posizionarsi davanti a questi diversi eventi in termini di entusiasmo o adesione. Per comprendere lo sciopero del “20N” è fondamentale tenere in conto, seppure a grandi linee, la sua composizione, ovvero gli attori organizzati che sono confluiti in questa particolare congiuntura. In primo luogo, un elemento centrale è la presenza del sindacato – strategico – dei camionisti, guidato da Hugo Moyano, fino a pochi mesi fa guida della CGT ufficialista e pezzo centrale del peronismo al governo per tutto l’ultimo decennio. La sua recente rottura con il governo, con la conseguente spaccatura della CGT, ha riconfigurato il panorama della protesta sindacale e sociale, riunendo intorno a sé tanto i sindacati della destra peronista (che non hanno mai comunicato con i Kirchner), quanto la frazione antikirchnerista della Central de los Trabajadores Argentinos (vecchia scissione della CGT che negli novanta ebbe un ruolo importante nella lotta contro il neoliberismo e le sue conseguenze) e altre componenti sindacali, sociali e politiche della sinistra partitica e indipendente.

Secondo gli stessi mezzi informativi del governo, lo sciopero – che è stato sostenuto da piquetes agli ingressi della città e che non è stato accompagnato da una mobilitazione centrale in Plaza de Mayo come si lasciava intendere fino a poche ore prima – ha avuto un notevole effetto, con il congelamento dell’attività lavorativa a Buenos Aires città, pur essendo stata più irregolare la sua adesione nel resto del paese. Tuttavia, questa e altre descrizioni di quello che è successo non ci dicono niente di ciò che è in gioco in questa specifica congiuntura.

A livello sindacale, si tratta di una dura risposta alla concorrenza dei gruppi sindacali che oggi appoggiano il governo – maggioritari per il numero di affiliati –, tra i quali si trovano la maggior parte ella CGT, con importanti sindacati della produzione fordista tradizionale, ma anche dei servizi (soprattutto di trasporto: autobus e taxi), una frazione della CTA e nuovi sindacati dal carattere combattivo, con un’influenza kirchnerista e di sinistra (come il corpo dei delegati della metropolitana di Buenos Aires, che si è divisa tra chi ha scioperato e chi cercava di opporsi allo sciopero). Le domande fondamentali – sull’esistenza di un’imposta sugli alti salari e la richiesta dell’universalizzazione ai salariati dell’assegno per figlio – si espandono o riorientano a seconda di come variano i gruppi che le espongono, ma il ruolo centrale resta occupato dal reclamo nei confronti di un’inflazione annua di più del 20%, mai interamente riconosciuta dal governo.

A livello politico (elettorale), le differenti correnti sembrano essere d’accordo tra loro – e implicitamente con i cacerolazos – nel rifiuto di un modo di governare che considerano “settario e superbo” e della forma in cui si gestisce la restrizione dei mezzi dovuta alla crisi globale (si suole criticare il governo per il controllo del cambio della valuta, per la retorica polarizzante e per la disattenzione per le questioni di “insicurezza”).Tutto sembra indicare che l’effetto di questa serie di proteste punta meno a creare un’organizzazione politica alternativa nell’immediato che non a frenare ogni tentativo di riforma della costituzione diretto a rendere possibile un nuovo mandato presidenziale per Cristina Kirchner (che fa sì che vari si chiedano se non sia in gioco in questa congiuntura l’inizio della fine del kirchnesimo). In questo senso, è particolarmente rilevante che il settore maggioritario dei sindacati – peronisti – cerchino di far valere il loro capitale sociale all’interno del peronismo promuovendo la figura di Daniel Scioli, governatore della Provincia di Buenos Aires e alla destra del Frente para la Victoria attualmente al governo.

Il governo interpreta questo stato di protesta come parte di un conflitto più ampio contro settori privilegiati della società (concepiti indistintamente come “corporazioni”), nel contesto di una vera e propria guerra aperta contro il monopolio dei mezzi di comunicazione più importante del paese, il Grupo Clarín, verso cui cerca di imporre una chiusura antimonopolistica che entrerà in vigore con il prossimo “7D”.

Come manifestazione di una segreta complicità corporativa tra i contingenti sociali attivi e gli interessi del Grupo Clarín si segnala, soprattutto, il fatto che le mobilitazioni manchino di un discorso coerente, di un programma alternativo consistente o di un orizzonte partitico capace di esprimerle elettoralmente; sarebbero i mezzi del monopolio a dare “la linea” e a produrre una sintesi delle manifestazioni.

La stessa posizione del Governo, fino a questo momento, è politicamente complessa.

Carente di figure di ricambio, Cristina Kirchner sembra aver delegato la sua eredità politica a un nucleo militante di organizzazioni sociali e politiche “Unidos y organizados”, ancora in formazione. A metà strada tra il configurarsi come una nuova organizzazione politica indipendente dal Partido Justicialista e un dispositivo di controllo del peronismo al potere, l’organizzazione sembra ancora troppo debole per poter ricoprire interamente uno dei due compiti. Questa situazione ci spinge a interrogarci sulla capacità del kirchnerismo di tornare a prendere l’iniziativa, riprendere la strada e ampliare le sue basi di sostentamento, recuperando l’impulso che negli ultimi anni lo aveva portato a conquistare forti appoggi popolari in ampi settori, attraverso misure, riconosciute in generale, come l’assegno universale per figlio, l’apertura delle paritarie, la legge sui mezzi di comunicazione, ecc.

Di fatto, lo sciopero e le cacerolas esprimono la formazione di una nuova opposizione sociale e politica al governo. La loro eterogeneità non le permette di presentare una sintesi programmatica né organizzativa coerente, ma quest’ostacolo può forse rivelarsi un vantaggio insperato nel momento di aggregare scontenti in differenti settori della società (delle classi medie e alte, di parte dei sindacati e delle commissioni interne, di frazioni del sistema dei partiti e dello stesso peronismo), puntando al difficile compito di strutturare alternative partitiche per le elezioni legislative del 2013 e le prossime presidenziali del 2015.

Tuttavia – e nonostante che tanto gli uni come gli altri abbiano assunto le forme de lotta del 2001 (cacerolas e piquetes) – la situazione contingente non può essere posta in nessun modo all’interno del semplice schema di uno stato sovrano che reprime una moltitudine libertaria.

La moltitudine non esprime la sua potenza politica solo per il modo in cui occupa la strada, ma anche per la sua apertura a produrre il comune. Né l’egemonia neoliberale della ampia convocazione cacerola, né l’orizzonte politico del sindacalismo peronista che ha condotto lo sciopero (o il dogmatismo dei partiti marxisti-leninisti che lo hanno accompagnato) consentono di immaginare che questa apertura per inventare il comune costituisca il segno auspicato di tali movimenti.

Se qualcosa ci preoccupa in questo senso, e rivela la necessità di nuove iniziative sul piano politico-sociale, è il fatto che né il governo, né la grande maggioranza di coloro che gli si oppongono sono stati capaci di porre con forza la messa in questione della base neo-estrattivista dell’attuale modello di sviluppo, né tantomeno di rispondere alle espressioni di un nuovo conflitto sociale che si sviluppa in vari territori del paese intorno agli effetti violenti e impoverenti dell’estensione del modello neoestrattivo e dell’agro-negocio, e che si estende negli spazi urbani come proliferazione di episodi criminali legati alla generalizzazione dell’affare della droga nei quartieri, con la complicità di settori della polizia, della giustizia e del potere politico.

Questo nuovo conflitto sociale opera come il lato vergognoso e il volto oscuro del metodo di accumulazione neo-sviluppista, almeno per quanto riguarda due aspetti fondamentali: è parte della costituzione materiale di modi di vita e di sfruttamento della ricchezza comune con cui inevitabilmente si articolano le pratiche di governo e, al tempo stesso, condivide l’enfasi di valori concernenti la retorica della crescita e dell’ampliamento del consumo inteso in una prospettiva di generalizzazione delle pratiche mercantili.

Con questo vogliamo anche dire che non ha ancora la forza politica sufficiente la questione dell’articolazione tra i contropoteri per affrontare la problematica neoestrattivista nel suo legame positivo con le lotte per l’appropriazione attiva dei diversi sussidi (welfare) che, dispiegati come una dinamica sociale conquistata dal basso, possono ben funzionare, in questa congiuntura, come un modo di denominare il comune.

È questo il momento auspicabile per un nuovo tipo di iniziative? Forse sì, se assumiamo che tanto la dinamica populista (en el senso positivo che gli da Laclau), quanto la dinamica neoliberale si trovano momentamente in processi di riorganizzazione, con le loro retoriche un tanto logore e in tutti casi legate a una scomessa per rafforzare sogggettività legate puramente al consumo.

* Traduzione di Maura Brighenti.

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  1. per il Colectivo Situaciones