di DANIELE GAMBETTA e ALBERTO MANCONI.

 

Negli ultimi mesi, a più riprese, è tornato al centro del dibattito pubblico (e social) il tema dell’istruzione e dell’uso delle tecnologie nelle nuove generazioni, accompagnato dal ricorso a vari frame più o meno sensazionalistici, dai nativi digitali agli analfabeti funzionali (per non parlare dei webeti).

Nella settimana scorsa 600 professori universitari di vari atenei italiani hanno firmato chiedendo alle istituzioni di prendere provvedimenti per colmare le lacune linguistiche e grammaticali dimostrate a quanto pare da molti studenti universitari. “E’ chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente” affermano nel testo.

Al diffondersi della notizia non sono mancate le risposte di critica, sollevate da attivisti, insegnanti precari, studenti, ricercatori e ricercatrici, riguardo lo smantellamento progressivo che ha interessato l’istruzione pubblica, passato per tagli, privatizzazioni e giunto al culmine con l’alternanza scuola-lavoro prevista dalla Buona Scuola, palesando, se non fosse ancora chiara, l’intenzione istituzionale di svuotare l’istruzione del suo ruolo di produzione critica ma asservendolo alla produttività.

Si rimanda quindi la critica al mittente: dov’erano questi baroni mentre la pubblica istruzione veniva affossata? Questa – legittima – risposta prende per buona la “dequalificazione” generale dei giovani oggi. Ma siamo proprio sicuri che sia così?

C’è un cambiamento antropologico che si è generato nell’interazione dei nativi digitali con le nuove tecnologie. Ciò determina un modo diverso di imparare e di svolgere le funzioni essenziali della produzione oggi, che investono anche la comunicazione scritta.

Oggi consumiamo informazioni come mai prima. La scrittura è al centro delle nostre vite, ma in un modo profondamente diverso rispetto agli scorsi decenni. I giovani di cui parlano in tono catastrofico i 600 baroni riescono a comunicare messaggi minimi in più lingue, associando facilmente a questi delle immagini o dei video auto-prodotti o selezionati rapidamente. Tutte queste piccole operazioni, compongono messaggi e connessioni complesse, che strutturano il mondo in cui viviamo, nonostante quei 600 professori universitari non ne abbiano la stessa facilità di accesso.manconi1

Tutto ciò significa che “i nuovi media rendono stupidi i giovani”? O, al contrario, che dobbiamo fare un’apologia delle nuove forme di comunicazione che abbattono la tradizione letteraria?

Nessuna delle due visioni è avallabile. Ma non possiamo non prendere sul serio fino in fondo la novità di trovarci di fronte a dei ragazzi che utilizzano moltissimo la scrittura per la propria vita quotidiana (più di quanto sia mai avvenuto), ma che in questo utilizzo pragmatico trasgrediscono alcune delle fondamentali regole grammatiche e sintattiche della lingua italiana, tanto da far allarmare coloro che si considerano legittimi detentori della vera cultura italiana. Questi esprimono disprezzo, seguendo il maestro Eco che si arrabbiava di fronte alla stupidità a cui hanno dato voce i social.

Ponendoci dalla parte di chi si confronta ogni giorno con questi cambiamenti, vivendoli in prima persona, non possiamo semplicemente farci novelli portatori della cultura classicista, portando la critica alla scuola che non insegna la grammatica adeguatamente. Dobbiamo piuttosto rilevare che i progressivi tagli e la ri-organizzazione dell’istruzione al fine di creare innocui tirocinanti piuttosto che cervelli critici, hanno concorso a determinare la marginalità dell’educazione stessa nel percorso formativo dei giovani.

Le mutazioni tecnologiche hanno sempre spaventato quelli che oggi vengono definiti sui social “grammar nazi”, e non dobbiamo fomentare certe visioni.

L’inedita intensità dell’interazione uomo-macchina ha certamente ricadute sui meccanismi di apprendimento, e l’istantaneità della comunicazione e la contemporaneità della produzione scritta ed audio-visuale reinventa le regole con cui si esprime l’immaginazione, anche nelle forme più tradizionali come quelle del testo scritto.

Tale interazione può essere però vista in vari modi, da quello catastrofico che ritroviamo nella “neuro-plasticità” che per Bifo delinea ad oggi un linguaggio che “sempre meno appartiene agli umani e sempre più alla macchina” a quello ottimista, attento alla potenza che forniscono le reti, che Negri rintraccia e chiama “incorporazione del capitale fisso”.

In ogni caso, questa intensa interazione produce novità sotto il profilo delle forme di comunicazione che necessariamente modificano il modo in cui si scrive, queste novità hanno bisogno di maggiori sforzi per essere decodificate oltre il paradigma della mancanza e della nostalgia, siano essa riferite all’istruzione nel senso classico o addirittura all’intelligenza.

*apparso in una versione più breve su il manifesto del 9 febbraio 2017.

 

 

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