di DIEGO SZTULWARK.1

15/04/2013

“Los conceptos son cócteles molotoff contra la realidad,
armas con las que intervenir en el combate en el que todos estamos metidos”
Santiago López Petit

1. Tre nomi per descrivere una mutazione

Partiamo da tre termini imprecisi per descrivere un passaggio, un movimento, delle circostanze. Prendiamo tre nomi ben noti della narrazione politica argentina: gli anni ’90, la crisi del 2001 e il modello (della crescita con inclusione). Come sappiamo, gli anni ’90 sono ricordati soprattutto come gli anni in cui il “clima” propizio per gli “affari” (l’apertura al flusso dei capitali) ha eroso buona parte dell’infrastruttura pubblica, finendo per gettare nella miseria una buona parte della popolazione. Si tratta di una sintesi parziale ma efficace. Sono stati anche gli anni di una rivoluzione capitalistica nell’agricoltura, con l’incorporazione di nuove tecnologie, licenze, tecniche di gestione. Come vedremo, non si tratta di un dato secondario.

La crisi del 2001 è frequentemente ricordata come un’esposizione generale delle miserie e delle sofferenze che il neoliberalismo ha significato per le maggioranze popolari. La distruzione di posti di lavoro, dei diritti sul lavoro, dei mercati, dei servizi sociali e del patrimonio statale. Il momento della crisi coincide certamente con il consolidamento di nuovi movimenti di resistenza sindacale e sociale, di una nuova ed estesa soggettività politica. Tuttavia si pensa generalmente alla crisi del 2001 come a un momento interno al neoliberalismo degli anni ’90, caratterizzato come crescita con esclusione, sviluppo senza sensibilità, puro movimento di denaro incapace di generare/distribuire nuove ricchezze. Da questo punto di vista, il valore delle lotte emerse durante la crisi è puramente negativo, mera contestazione. Non possiedono la formula per annunciare un tempo nuovo, e dispongono della forza appena sufficiente per la chiusura di un tempo ingiusto.

Tutte queste percezioni, memorie, concezioni appartengono alla prospettiva attuale, caratterizzata come un periodo di trasformazioni secondo un modello di crescita con inclusione. A differenza degli anni ’90, le retoriche dello sviluppo del presente non si autorappresentano più come esterne al mondo popolare, alle ragioni della comunità. L’idea di inclusione è diventata fondamentale. Al di là della retorica che pone enfasi sulla riparazione, sulle politiche sociali e l’estensione dell’occupazione, si verifica un ampliamento di diritti per mezzo dell’ampliamento del consumo. L’effettivo inserimento di un’Argentina produttrice di alimenti ed energia nel mercato mondiale provvede – attraverso la mediazione finanziaria – le risorse per l’intervento dello stato nelle politiche sociali. E una nuova volontà statale, radicata in un contesto nazionale, regionale e internazionale che la favorisce, promuove l’attività economica come variabile principale del processo politico in corso.

La situazione è cambiata rispetto al passato recente. Il sistema politico si è approssimato al sociale. Dal 2003 una nuova articolazione tra politica e società ha cominciato a costituirsi. Al di là dei giochi pirotecnici tra partito di governo e opposizione, nell’ultimo decennio la società ha goduto di un nuovo periodo di stabilità, consenso e convivenza sostenuti da un iper-attivismo dello stato, della politica, della giustizia, dell’economia, dei media.

2. Addio al neoliberalismo?

Vale dunque la domanda: ci stiamo lasciando alle spalle il neoliberalismo? Se prestiamo attenzione alle retoriche governamentali così come a certi attori di peso in diversi ambiti – dall’accademico a quello dei diritti umani, al sindacalismo, le organizzazioni sociali e i mezzi di comunicazione – sembrerebbe di si, che il mutamento si orienti verso una nuova direzione. Questa impressione si consolida se gettiamo uno sguardo all’ambito regionale (la pratica dei nuovi governi progressisti) e persino internazionale (il contrasto tra la crisi dell’Europa e l’attivazione di un’economia sud-sud costruita intorno all’asse BRIC).

È da ogni punto di vista incoraggiante verificare come le antiche élite, legate tanto alle dittature come alla selvaggia applicazione delle politiche promosse dagli organismi finanziari internazionali, sembrino sprofondare nell’impotenza in quei luoghi del mondo dove ancora governano, mentre perdono la loro egemonia in intere regioni del pianeta che si riappropriano della loro capacità di autogoverno e della produzione di ricchezza.

Senza dubbio stanno emergendo critiche, se non vere e proprie lotte, che per lo meno relativizzano la potenza di questa retorica post-neoliberale. Non può sfuggire a nessuno che la produzione di ricchezza, nei nostri paesi, dipende sempre da una “neo-liberalizzazione” di massa rispetto ai modelli di consumo. E dobbiamo dire lo stesso circa i parametri che articolano le esportazioni di alimenti e di energia.

3. I nostri paradossi

Ci troviamo, dunque, davanti una serie di paradossi che vale la pena esplorare e che dobbiamo tenere in conto soprattutto nella misura in cui condizionano e determinano i nostri modi di vita e le nostre pratiche discorsive.

La conquista di una maggiore autonomia nella regione rispetto al sistema imperialista normalmente rappresentato dagli USA coincide con una nuova integrazione subordinata nel mercato mondiale. Questo inserimento suppone violente dinamiche di mercantilizzazione della terra, del regime di produzione e circolazione degli alimenti e dell’energia, con un correlato di sofferenze sociali nella campagna (inquinamento, distruzione di economie regionali, dislocamenti forzati di comunità), e nella città (inquinamento, perdita della qualità degli alimenti, perdita della sovranità alimentare).

La costituzione di una nuova volontà politico-statale (che non si da solo in argentina, ma adotta diverse forme nella regione e in molte parti del mondo) si è dimostrata efficace al momento di riconoscere attori e processi storici nell’ambito della produzione di diritti, di legittimare il sistema istituzionale e politico nazionale, di includere contingenti sociali nell’ampliamento della sfera del consumo, di generare processi di inserimento – soprattutto neo-estrattivi e di produzione di alimenti – nel mercato mondiale e di integrazione politica regionale. Tuttavia, il suo attivismo non è riuscito a sostituire (né “dall’alto”, né “dal basso”) il potere della ragione neoliberale2. Dall’alto, perché i disegni degli attori globali – come i mercati finanziari e le grandi imprese multinazionali – non sono stati spiazzati da una nuova spazialità sociale e istituzionale capace di regolare i processi strategici (come la determinazione dei prezzi e la regolamentazione dei contratti; la creazioni di dispositivi tecnologici e di modelli di consumo); dal basso, perché l’ampliamento del consumo e dei diritti non è andato di pari passo con una nuova capacità pubblica di comprendere e regolare le pratiche depredatorie legate alla promessa dell’“abbondanza” (dalla speculazione immobiliare alle reti del narcotraffico; dall’economia informale al riciclaggio del denaro; dal lavoro neo-schiavista alla tratta di persone).

Questi paradossi determinano le pratiche discorsive e al tempo stesso si alimentano di esse. Per comprenderli è necessario considerare la complessità con cui dobbiamo fare i conti, prendere coscienza delle tendenze biopolitiche (che finiscono per riconfigurare la vita in comune) rese possibili da questi stessi paradossi,  che diventano, a loro volta, oggetto di inchiesta politica.

4.  Tre elementi per l’inchiesta politica

Il cambiamento di paesaggio è evidente. Basta gettare uno sguardo sul mondo del lavoro, sulla campagna, sui territori, sui discorsi intellettuali e politici (Mezzadra)3. Tuttavia l’energia comunicativa, i dibattiti della sfera pubblica sembrano esaurirsi nell’immediata contesa per il controllo della decisione politica. Il compito dell’inchiesta politica resta confinato dal dibattito pubblico e sospettato di operare in funzione diretta di questa contesa. In questo modo, la prima vittima della polarizzazione politica è la pratica del discorso politico non specializzato, sopraffatto dal sistema dell’opinione, caratterizzato da un linguaggio pre-elaborato dal mondo dei media.

Questo è un altro dei nostri paradossi: l’iper-polarizzazione dell’opinione (regime giornalistico, militante, giuridico, ecc.) accompagnata da una perdita relativa della capacità di elaborare linguaggi e domande in modo autonomo. Chiamiamo inchiesta politica l’invenzione di processi di recupero di potenza in relazione alla capacità dei non specialisti di elaborare domande, linguaggi, saperi sull’esistenza collettiva.

Un primo orientamento è diretto a riconoscere un’indispensabile disposizione per la prassi dell’inchiesta politica: ciò che potremmo chiamare l’“arbitrarietà” (parola su cui insisteva León Roztichner), vale a dire le forme dell’autorizzazione che ci diamo per avvertire pericoli. Per avvisare sulle connotazioni negative che determinate pratiche, pur nascendo da luoghi cari della nostra esperienza, possono assumere.

Un secondo orientamento fondamentale si riferisce alla direzione della nostra attenzione verso ciò che potremmo chiamare, ispirati dalla filosofia di Nietzsche, le “zone oscure” dell’esistenza sociale, quelle in cui si elaborano le forze che poi ci condizionano, forzandoci a pensare. Questa dimensione opaca può riferirsi a zone della soggettività, della politica e dell’economia, a quello che si sottrae alla legalità e alle soglie di visibilità fissate dal regime dell’opinione4.

Una terza indicazione, che attribuiamo a Foucault, ha a che vedere con il metodo della “problematizzazione”, pretestuosamente extra-morale, che indaga tra le mutazioni delle pratiche (pratiche discorsive) per valutare tanto quello che, in contatto con nuove realtà, stiamo cessando di essere, come quello che stiamo cominciando a essere. Con Foucault apprendiamo a osservare al di là della distinzione legale/illegale per captare dispositivi e diagrammi.

Un quarta osservazione sorge da un insegnamento della filosofia di Deleuze ripreso da Jon Beasley Murray5 per la politica. Si tratta di prendere sul serio il mondo delle intensità, non solo quello delle significazioni discorsive. Di porre in primo piano gli “affetti” (e gli “habitus”, vale a dire l’articolazione tra gli affetti), in contrapposizione all’inflazione del “linguismo” che caratterizza l’idea di “egemonia” o “battaglia culturale” delle retoriche del cosiddetto “populismo” sudamericano.

Un quinto orientamento dell’inchiesta concerne la sua stessa vocazione di partecipare alle attuali forme di politicizzazione6, riferite in molti casi alle articolazioni meno visibili di ciò che in senso lato possiamo chiamare, seguendo Félix Guattari, la “macchina” del governo del sociale, di produzione di immagini, governo della moneta, sovranità nei territori, gestione del consumo, ecc.

5.  Semiologia per una trasformazione del paesaggio

Come insegna la antropologa Rita Segato7, l’inchiesta politica dipende da una sensibilità relativa ai segni. Di fatto, oscurità, nuove forze, pericoli, nuovi fenomeni sono tutte espressioni che richiedono un acuto senso semiotico.

In effetti, processi come la violenza contro le donne, l’organizzazione di bande legate agli affari che possono raggiungere dimensioni globali, l’accettazione del “vitalismo” che accompagna il godimento del consumo, la adrenalina del rischio son tutti motivi di una fine comprensione di quello che succede nei territori in cui il neoliberalismo pulsa all’unisono con le culture popolari, come indica l’espressione “capitalismo runfla”8.

Si tratta del mondo dell’eccezione permanente9, nel quale si coniugano l’habitus sociale, la forza fattuale dei poteri e dell’elaborazione del diritto e le istituzioni. Si tratta anche del governo della produzione di ricchezza a partire dai dispositivi finanziari10. L’ipotesi che tentiamo di aprire parte dal fatto che il potere del capitale finanziario è quello di governare il mondo della cooperazione dall’“esterno”11, che questa esteriorità della valorizzazione capitalistica rispetto ai processi di creazione del valore del comune (beni, infrastruttura, saperi) si trova nel cuore del sistema della depredazione.
E all’inverso, che questo mondo del comune è anche attiva produzione irriverente di immaginari12.

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  1. Traduzione di Maura Brighenti. Pubblicato su http://anarquiacoronada.blogspot.it/2013/04/cartografias-politicas-notas-para-la.html 

  2. J. Alemán, Neoliberalismo y subjetividad, «Página12», 14/03/2013. 

  3. S. Mezzadra, America latina: tra impasse e nuovo conflitto sociale. Note per riaprire la discussione, http://www.uninomade.org/america-latina-tra-impasse-e-conflitto-sociale/ 

  4. G. Debord, La società dello spettacolo, Miliano 2001. 

  5. J. Beasley-Murray; Posthegemonía, Buenos Aires 2010. 

  6. R. Walsh, Operación Masacre, Buenos Aires 2004 e E. Jozami, R. Walsh, La palabra y la acción, Buenos Aires 2011. 

  7. R. Segato, La escritura en el cuerpo de las mujeres asesinadas en Ciudad Juárez, Buenos Aires 2013. 

  8. D. Valeriano, Serie Capitalismo Runfla, blog Lobo Suelto, Buenos Aires 2012 (http://anarquiacoronada.blogspot.it/2013/01/serie-ano-nuevo-capitalismo-runfla-6.html). 

  9. G. Agamben, Stato d’eccezione, Torino 2003 e P. Virno, Grammatica della moltitudine, Roma 2001. 

  10. C. Marazzi, Capitale e linguaggio, Soveria Mannelli 2001 e C. Vercellone, Capitalismo cognitivo, Roma 2006. 

  11. Perché Toni Negri?, intervista a Toni Negri di V. Gago e D. Sztulwark (http://www.uninomade.org/perche-toni-negri/). 

  12. Si vedano in particolare i film: Machete di Robert Rodríguez, Bastardos sin gloria y Django sin cadenas di Quentin Tarantino e Estación Zombi del collettivo Barilete Cósmico.