di SIMONE PIERANNI.

«Recuperare i racconti per tornare a parlare di chi comanda e di chi obbedisce», sostiene Juan Carlos Monedero, uno dei fondatori di Podemos, poi uscito dalla formazione «morada» a seguito di uno scontro interno con Inigo Errejon nel suo intervento in Vincere o morire. Lezioni politiche nel Trono di Spade (di Pablo Iglesias, Nutrimenti, traduzione di Amaranta Sbardella, € 18) in uscita nelle librerie italiane giovedì 16 febbraio.

Monedero lancia questa sfida accompagnandola a un’accusa ben precisa: «Siamo ostaggio dei nostri carnefici. Bambini rubati, impauriti di misurarci con la verità, cioè con il fatto che i nostri genitori sono in realtà gli assassini di chi ci ha messo al mondo. È giunto il momento di inventare storie nuove».
Del resto cos’è Podemos, se non il tentativo di «dare inizio a una nuova era», ovvero «lottare sempre contro i freni posti dai privilegiati»? Che tradotto ai nostri giorni significa «una Costituzione, il popolo per le strade e la garanzia che un colpo di Stato, con o senza esercito, non bloccherà le trasformazioni».
Legittimità e potere, politica nel senso supremo, come formazione di quelle dinamiche sociali dalle quali scaturisce una forma di dominio. Ineluttabilità dello scontro, il sopraggiungere della guerra, e il primato della politica: tutti argomenti di attualità. E per parlarne i giovani dirigenti di Podemos hanno scelto di confrontarsi con un fenomeno popolare come la serie tv Il Trono di Spade per provare a raccontare «la politica» a una generazione che viene definita anti-politica e che all’appuntamento elettorale, di recente, sembra privilegiare le forze definite «anti-sistema».

Tyrion_LannisterGià solo questo tratto costituisce un implacabile confronto con l’Italia dove i leader delle formazioni anti-sistema pubblicano libri nei quali descrivono la propria immagine allo specchio, come dimostrato di recente dal Di Battista «battente bandiera liberiana», mentre in Spagna i dirigenti di Podemos si cimentano con una sorta di trattato di scienza politica applicata alla popolare serie televisiva di Game of Thrones.
Vincere o morire utilizza la struttura della fiction di grande successo, ben nota anche al pubblico italiano, per indagare i meccanismi che permettono alla politica di creare quelle patine egemoniche in grado di caratterizzare le epoche del mondo. Un intento mirabile, effettuato non senza qualche necessaria ripetizione, che permette al volume di scorrere in modo agile anche per chi non è un esperto della serie tv. La scelta è ovvia: Podemos è un movimento che pesca soprattutto tra i giovani e non poteva che usare una popolare forma di intrattenimento per un’operazione di mimetismo culturale che insieme ai contenuti costituisce la cifra di Podemos.

E non può non balzare all’occhio l’influenza italiana: da Gramsci a Machiavelli, stracitati nel libro, fino alla «fenomenologia di Mike Buongiorno» di Umberto Eco; il volume è molto più di un divertissment che prende a prestito elementi popolari per elaborarli sulla base di una propria strategia politica. Pur essendo scritto per lo più da personaggi noti di Podemos, la formazione politica quasi non compare. L’obiettivo è chiaro: usare una fiction nella quale per lo più imperversano la forza bruta, la violenza e la guerra, per tratteggiare proprio l’importanza della «politica» come condizione in grado di creare e soprattutto mutare gli scenari. Un libro contro l’immobilismo, contro la democrazia liberale, contro il neoliberismo e l’ineluttabilità delle guerre come cambio del paradigma costituito.
Inigo Errejon, il giovane leader che ha di recente conteso la leadership del movimento a Iglesias, in questo senso è molto chiaro, forse più di tutti:

Il Trono di Spade rivela una chiara impronta politica, non tanto perché mostra la nuda verità che si nasconde dietro ogni politica, ovvero la sua propensione alla conquista del potere e alla guerra, quanto perché illustra come la lotta per istituire un nuovo ordine precede e determina la possibilità e i margini della guerra.

A questo proposito basti pensare a Gramsci, quando parla di crisi organica, riferendosi al fatto che «i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali», generando dunque «un’epoca di dislocazione e disgregazione, fertile per i mutamenti sociali». La crisi cos’è, infatti, se non la maturazione dell’ipotesi nella quale «il vecchio muore e il nuovo non può nascere?»

È in questa fase «che si verificano i fenomeni più morbosi». Non solo Antonio Gramsci, ma anche Lenin fa capolino in questa analisi che parte da dove comincia la serie: la fine di un’epoca di pace e l’inizio di un interregno di scontri, guerre e nuove paure esterne. A dimostrare che non è l’idea di un potere terribile il problema, «quanto l’assenza proprio di potere». Analogamente la khalessi Daenerys Targaryen, la regina che promette di conquistare il potere e consentire la liberazione dalla schiavitù al proprio esercito, non costituisce una soluzione «vera», perché contrappone al potere che vuole abbattere la stessa logica, la stessa «bomba nucleare», ovvero i suoi draghi. Non si combatte il potere con le sue stesse armi, ma scardinando il piano di gioco, ovvero utilizzando la politica. Non a caso Monedero scrive che «peggio di una regina cattiva, c’è solo una regina buona».

questo articolo è stato pubblicato sul manifesto il 15 febbraio 2017

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