di GIACOMO PISANI. Il libro di Federico Chicchi, Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli, “Logiche dello sfruttamento” (ombre corte, 2016), apre un importante campo di riflessione che, legando le forme di sfruttamento ai processi di soggettivazione, ci permette di mirare al cuore del funzionamento del capitalismo contemporaneo.

L’assunzione fondamentale del volume, da cui prendono le mosse i contributi dei tre autori, è la dissoluzione di quel rapporto salariale che aveva costituito un fondamentale fattore di mediazione “collettiva” fra capitale e lavoro. È la rottura di tale rapporto, infatti, a favorire, secondo gli autori del volume, il pieno dispiegamento della ragione neoliberale. Come scrive Emanuele Leonardi, “affinché il capitale umano possa diventare un dispositivo di governo pienamente dispiegato, occorre che il salario sia leggibile in termini meramente reddituali, cioè che la sua dimensione istituzionale sia stata cancellata, che la sua capacità di mediare tra acquirente (individuale) e venditore (collettivo) di forza lavoro sia esplosa, venuta meno. E’ il tramonto del salario come forma egemone della mediazione che permette al capitale umano di innestarsi saldamente nel cuore della razionalità di governo neoliberale, di diventarne l’ancoraggio antropologico”[1].

Ci sembra questo un passaggio particolarmente importante, che ci consente di fare un passo indietro per ricostruire alcuni elementi fondamentali della “rottura postfordista”, indispensabili per cogliere pienamente le sfide teoriche e politiche che abbiamo di fronte.pisani1

Nel capitalismo industriale, la stabilità e la generalità del rapporto salariale hanno poggiato, in termini marxiani, sull’omogeneità del “lavoro astratto”, frutto della determinazione unilaterale della forza lavoro ad opera del capitale. Scavando fra le categorie del giovane Marx, salario, proprietà privata e divisione del lavoro possono essere intese come mediazioni di “second’ordine”, che sottomettono il lavoro vivo alle condizioni imposte dal capitale, rompendo al contempo il rapporto dialettico fra uomo e natura.

La cittadinanza moderna ha avuto come soggetto di riferimento il lavoratore salariato, attorno a cui si sono costruiti, nel Novecento, i sistemi di protezione sociale di tipo assicurativo, oltre che, com’è noto, un diritto del lavoro avanzato, frutto della mediazione fordista, che ha reso le soggettività collettive nate sul terreno della produzione parte attiva nello sviluppo istituzionale del paese. In questa mediazione, un nodo di rivendicazione fondamentale era stato proprio il salario, data la sua relazione diretta coi tempi di lavoro, che aveva fornito un metro di misurazione diretto delle condizioni di sfruttamento.

Oggi quella mediazione è completamente saltata, forzata in più punti e in numerose direzioni. Gli autori del volume si concentrano in maniera pertinente sul ruolo del salario, vista la sua centralità non solo nell’architettura istituzionale fordista, ma anche quale fattore di determinazione e omogeneizzazione dell’attività lavorativa stessa. Al di fuori di quella dimensione “istituzionale”, che ne aveva garantito stabilità e generalità, il salario si riduce ad un rapporto individuale e, soprattutto, ad un fattore di attivazione differenziale dell’individuo entro la compatibilità coi parametri del mercato.

Il rapporto salariale, allora, ci offre un buon angolo visuale da cui guardare i mutamenti avvenuti nella società postfordista, come sia cambiata la relazione fra il capitale e i processi di soggettivazione, nonché, ovviamente, le forme dello sfruttamento. Gli autori utilizzano il concetto di “imprinting” per descrivere il capitalismo come “macchina assiomatica”. La logica dell’imprinting ha “il suo rapporto sociale di produzione fondamentale nella soggettività investita da un’ingiunzione alla concorrenzialità, alla libera iniziativa, all’investimento sulle proprie qualità di autonomia professionale e alla re-incorporazione progressiva dei mezzi di produzione”[2].

L’imprinting, insomma, viene presentato dagli autori come dispositivo di governo delle vite, che incide sulle traiettorie del desiderio, accrescendo il margine di autonomia del soggetto entro i parametri del mercato. Esso segnala l’iscrizione della libertà soggettiva entro le possibilità potenzialmente funzionali all’accumulazione capitalista, attraverso forme di ingiunzione sia negative che positive.

L’imprinting, insomma, identifica “un nuovo focus che insiste direttamente sul processo di individuazione e garantisce l’estrazione di plusvalore dall’eterogeneità non pianificabile degli esiti del processo stesso”, declinando la critica foucaultiana al capitale umano entro il modello di produzione postfordista. È da evidenziare che l’imprinting non esaurisce lo spettro dei modi dello sfruttamento contemporaneo, la cui complessità oggi poggia sulla compresenza di diverse logiche di sfruttamento. In particolare, l’imprinting affianca la logica sussuntoria, che viene dagli autori ricondotta alla centralità del rapporto salariale.

Al di là della continuità fra sussunzione formale e sussunzione reale, fatta risiedere proprio nella centralità del salario, che sembra forzare in parte l’interpretazione delle categorie marxiane, il merito del libro è sicuramente quello di riportare al centro del dibattito il rapporto fra capitale e produzione di soggettività. L’analisi di tale rapporto non può prescindere dallo studio dell’ambivalenza delle tecnologie governamentali, che incidendo sull’ambiente di vita e di relazione favoriscono l’adesione di progetti e desideri agli obiettivi del mercato, impedendo una riappropriazione della decisione che si faccia autodeterminazione ed eccedenza.

Il libro approfondisce bene le dinamiche di sfruttamento proprie dell’attivazione auto-imprenditoriale, in cui il salario, divenendo una conseguenza delle attitudini, delle competenze o – in una parola – del capitale di ciascun individuo, diviene “leggibile in termini meramente reddituali”. È in quest’ottica che può essere letta anche la nuova frontiera del lavoro gratuito (proposto in forma di stage, tirocini, etc.) come forma di auto-investimento sul proprio capitale umano in vista di un successivo, sperato riconoscimento economico e lavorativo.

Uno spazio di riflessione importante, oltre le indagini condotte del volume, si apre però per quegli spazi di relazione in cui i processi di soggettivazione eccedono l’obiettivo della remunerazione. Basti pensare ai social network, oppure alle comunità di utenti con cui i privati includono questi ultimi nel circuito produttivo permettendo loro di scambiarsi pareri, gusti, preferenze. Tali comunità fungono da serbatoi di identità virtuali, in cui i privati modificano sistematicamente le possibilità di interazione e i modi di relazione, neutralizzando le possibilità ermeneutiche degli utenti.

Un altro campo di ricerca, che pure si sta facendo spazio negli ultimi tempi anche in Italia, è quello sul cosiddetto “capitalismo delle piattaforme”[3], in cui la contraddizione fra libertà e inclusione “dal basso” e dispositivi di cattura e di controllo biopolitico ad opera dei privati si fa particolarmente evidente.

La sfida del libro allora, va accolta tutta intera: disvelare la complessità del potere, scoprirne “astuzie e fragilità” per aprire spazi di coalizione, conflitto e rovesciamento.

 

 

[1] F.Chicchi, E.Leonardi, S.Lucarelli, Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale, ombre corte, Verona, 2016, pp.70-71.

[2] Ivi, p.28.

[3] https://www.euronomade.info/?cat=406

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