del CANTIERE.

 

“Credete proprio che gli uomini che hanno gioito per la benedizione della libertà accetteranno serenamente di esserne privati?”
Toussaint de l’Ouverture, Haiti, 1795

“Siamo tutti Abba”
Scritto sui muri, Milano, Settembre 2008

Le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale.”
Karl Marx, Grundrisse

Cosa è successo il 20 Maggio a Milano lo hanno detto già in tanti (anche noi qua), alcuni lo hanno già dimenticato e molti lo dimenticheranno presto. Non fuggiremmo questo destino nemmeno se fossimo in grado di scrivere un testo capace di restituire il senso di una epopea. Preferiamo ragionarci su.

Per chi non c’era, riepiloghiamo i fondamentali: una grandissima manifestazione della Milano meticcia, una composizione moltitudinaria e dunque piena di diversità, una chiara radicalità nei contenuti (che è sempre la manifestazione di piazza di un radicamento sociale). II movimento antirazzista (superando di molto i suoi consueti confini) ha trasformato la manifestazione “Milano come Barcellona”, che qualcuno voleva per “l’accoglienza, la legalità e la sicurezza”, in un grande corteo contro tutti i razzismi, con il vero slogan usato a Barcellona: “Nessuna persona è illegale”

La memoria di Milano
Le metropoli hanno una memoria stratificata e dunque carsica; anche Milano, piccola metropoli che si sente grande, risponde a questa regola. E’ antirazzista, ma spesso lo dimentica e parecchi, amici e nemici, sarebbero pronti a negarlo già domani, anche in buona fede.

Non si trovano molti milanesi doc, nemmeno se ci si accontenta di cercare chi abbia 4 nonni nativi; costoro sono così pochi che costituiscono un pezzetto tra i più rari del meticciato cittadino: quelli che parlano il dialetto. E’ per questo che talvolta una composizione sociale meticcia prende parola vigorosamente a Milano e ci si accorge, con naturalezza, che l’umanità è una e molteplice. Ad esempio, nel Settembre del 2008 dopo l’omicidio di Abba e le manifestazioni che ne seguirono numerosi sociologi scoprirono l’esistenza dei giovani neri: eppure sarebbe stato sufficiente guardarsi attorno. Anche in questa settimana qualche giornalista ha detto che la manifestazione ha fatto uscire i migranti dalle catacombe: come i sociologi dell’epoca, era convinto di fare un complimento a qualcuno.

Come allora, quello che non si coglie è la potenza costituente, autonoma, vera di una parte di città (ampia e piena di differenze) che ha saputo partire dai bisogni radicali e urgenti (inclusi quelli di rimare la swag e di cambiare il mondo) per dare vita a reti sociali, consuetudini e persino “istituzioni del comune” consistenti, resilienti, resistenti, indipendentemente dal fatto che in TV alla sera non se ne parli spesso.


Antifascismo e produzione sociale.
Crediamo che vi siano due aspetti indispensabili per capire il meticciato di Milano: l’antifascismo e la (ri)-produzione della vita. Essi ci parlano, probabilmente, di molte altre metropoli europee, ma non siamo in grado di dire in che misura e attraverso quali differenze sostanziali.

1) Milano è una città antifascista. Quando il fascismo si presenta senza infingimenti non c’è quartiere, non c’è scuola, non c’è pezzo della società in cui non sia rifiutato con sdegno. Il tema dell’antifascismo diviene dunque il tema dell’ipocrisia: le organizzazioni neofasciste che si nascondono sotto mentite spoglie, o sotto la gonna dei partiti di destra, l’ideologia securitaria spacciata come realismo politico, l’ipocrisia della memoria condivisa che diventa occasione per cancellare la storia etc…
2) A Milano il meticciato è una condizione fondamentale della produzione e quindi della vita, da sempre: niente fabbriche senza terroni, niente metropoli senza immigrati. Non si fa la logistica, nemmeno della settimana della moda, senza lo sfruttamento del lavoro nero (soprattutto migrante), non si fa la narrazione di una città internazionale con le retate in Stazione Centrale, non si può vivere e lavorare nei quartieri multietnici se si lascia spazio solo ai predicatori di odio siano essi devoti a Trump o ad Al Bagdadi.

 

Senza muri, con i muri, contro i muri.
Oggi nell’economia della cooperazione sociale il capitale ha bisogno di abbattere e ricostruire i confini, continuamente. Senza muri e con i muri, nello stesso tempo. Non c’è produzione fuori dalla cooperazione sociale e senza produzione mancano sia la vita, sia il valore. Senza produzione non c’è tutto ciò che amiamo, ma il capitale, che è da sempre un rapporto che ha bisogno di noi, rischia di non avere più nessun valore da estrarre: non si sfugge a questa regola marxiana.
Il mantra “competizione e solidarietà” è una ambigua trappola che tenta di recuperare le energie sane di questa Milano meticcia alla causa dell’economia neoliberista. Si propongono programmaticamente di estrarre valore dall’investimento nella società come incubatrice di capitale umano, ma nella competizione c’è sempre chi soccombe e, in questi termini, la solidarietà di cui parla il sindaco al massimo può essere carità. Serve anche a loro una città che sia habitat possibile di chi lavora nelle nuove schiavitù del lavoro nero e di chi, precario, fa funzionare il cervello della metropoli.
Vuol dire questo che i poteri della città getteranno alle ortiche la competizione e si schiereranno dalla parte della cooperazione? Ne dubitiamo.
Come si può, nella città che si candida ad ospitare la City di Londra, praticare politiche che sovvertono i paradigmi discriminatori, antisociali e dunque razzisti della governance europea?
Come si può dare una proposta sociale dentro all’androne soffocante della “comunicazione politica pigliatutto” in cui si sfidano 3 parti in commedia?. Esiste un mondo in cui le imbecillità Di Maio sulle Ong, le efferatezze di Minniti con i suoi accordi oltremare, il nuovo sodalizio tra Salvini e Serracchiani e la legge del taglione (purché notturna) fa somma zero (tra voti presi e persi). Dubitiamo che, dentro a quello spazio-tempo irreale, la memoria del 20 Maggio sia capace di durare più di una settimana.

Esiste però un mondo in cui i personaggi citati nel precedente capoverso generano sofferenza e rabbia: ad esempio la città che esisteva anche prima e che ha reso possibile il corteo. E’ li che sapremo (o non sapremo) costruire la forza per abbattere i confini ed impedirne di nuovi.

Nessuna persona è illegale, o “della legalità impossibile”

La grande differenza tra il mondo artefatto della retorica politica e quello reale della vita esplode da sempre sul tema della legalità. Ancora, a nostro parere incredibilmente, essa è presentata con disinvoltura (e sfacciata ipocrisia) come un punto di riferimento assoluto.
Non è forse la legalità l’insieme di regole che ha dettato, in ciascun momento storico, il potere costituito?
Lo sciopero fu illegale ed ancora oggi lo è in date condizioni ed in molte parti del mondo; lo stesso si può dire del divorzio e del matrimonio eguale, dei libri messi all’indice e dell’obiezione al servizio militare.

“L’obbedienza non è più una virtù”, diceva Don Milani.
“Disobbedire alle leggi ingiuste”, diceva Thoreau.
“Per ogni cuore che senta coscienza”, diceva una famosa canzone nel cuore del mattatoio della prima guerra mondiale.
“Diritto di resistenza”, praticavano migliaia di persone nel 2001 per le strade di Genova.
Oggi una in-cultura grigia e a-storica vuole fare della legalità un argine a difesa dell’ingiustizia, perché senza un processo di critica dialettica questa è l’unica funzione che essa può assumere.

La vita migrante conosce più di qualunque altra questo imbroglio. E’ quasi certo che un migrante regolare abbia una storia di clandestinità alle spalle, la ragione è semplice: il fatto stesso di migrare è fuorilegge, a causa di un intreccio crudele di leggi ingiuste e burocrazie severe (come si vuole che sia la legge).
Ciò che accade ai migranti è ciò che accade agli esseri umani, nella vita. Non esiste persona libera e appassionata della giustizia che non abbia una storia di illegalità alle spalle o, al massimo, di fronte a sé, in un futuro probabile in cui dovrà scegliere tra la legge e giustizia, obbedienza e coscienza. L’onestà con tutto ciò c’entra poco, se mai, è in gioco la dignità.
La legalità è un confine e il movimento antirazzista serve a superarlo.

Stop War Not People – (patrioti europei o cittadini del mondo?)

I confini vengono dunque dislocati: le retate a caccia dei clandestini, la Gare du Nord come imbuto della mobilità parigina, i campi di detenzione, di concentramento e persino di morte, (come ha osservato anche il Papa). I confini interrompono dunque anche la vita di chi sta fermo, ma certo sono micidiali soprattutto per chi si sposta: come accade nel deserto del Sahara e nel Mar Mediterraneo, fosse comuni che proteggono l’Europa dalla realtà.
Le “classi dirigenti” europee si gingillano in uno stucchevole dibattito tra piccole patrie nazionali e la grande patria europea, che assume tratti credibili solo quando si fa lotta antifascista (e però contemporaneamente la corrompe). Nel frattempo nel mondo alcuni miliardi di persone che provengono dai paesi oppressi, colonizzati e ancora oggi sfruttati in maniera inaudita si battono per la sopravvivenza ed una piccola parte di loro sceglie la strada (più antica dell’homo sapiens stesso) della migrazione.

L’idea di nazione nutre una dialettica che ha caratterizzato gli ultimi secoli della storia umana. E’ impossibile immaginare di piegare l’idea di sovranità nazionale alla causa dell’emancipazione, nemmeno l’idea di Patria Grande latinoamericana riesce a sfuggire a questa strettoia dialettica, figuriamoci se noi possiamo rivendicare con fierezza l’appartenenza al continente che con vele e cannoni ha dominato e dissanguato il mondo ed oggi alza le sue frontiere.

Non esiste una quota massima di umanità da accogliere, ha ragione chi dice che la migrazione è come la pioggia, inarrestabile La migrazione però la realizzano soggettività disperate e desideranti, in questo senso dunque la migrazione è come ogni lotta: fonte di vita.
La guerra, fonte di morte, è invece la ragione primigenia delle nazioni, la guerra si dispiega sulle navi di Frontex, si rigenera negli accordi del commercio delle armi, esplode sulle case della Siria e si fa strada fra le nostre case nella retorica di Marine Le Pen.
Stop war not People – No Border No Nations, Stop Deportation – No One Is Illegal. Possiamo dirlo come vogliamo, ma il significato profondo e al tempo stesso elementare è che soltanto l’idea di una “internazionale futura umanità” di liberi ed eguali può reggere a lungo termine l’urto della retorica fascista che propone e genera la guerra.

Del comune e dei comunisti.
Se questo è il campo, qui dentro si gioca la sfida. Non esiste mai un altrove in cui lottare, persino la fuga più famosa del mondo, l’esodo biblico, comincia con una lotta di liberazione.
Il movimento dovrà, come sempre, rivendicare libertà di muoversi e di non essere clandestini, dovrà conquistare spazi di libertà: per esempio le lotte che alla caserma Montello e altrove hanno trasformato i Centri di Accoglienza Straordinaria in centri di lotta politica. Dovrà saldare la lotta antirazzista con quella per il diritto alla casa, con quella che nasce nelle scuole e con quella sulla sanità.
Non c’è solidarietà dentro la competizione, fatta di meritocrazia imbrogliona, individualismo e ambizione. Non c’è comune se non nella cooperazione sociale, non c’è libertà se non nella costruzione del comune attraverso le pratiche del mutuo soccorso.
Il meticciato è un enzima della fabbrica sociale, accende il motore della vita metropolitana, è la condizione imprescindibile per fermare la guerra tra poveri e per resistere alla guerra contro i poveri: ovvero i tentativi neoliberisti di derubare e impoverire gli esseri umani cooperanti.
Questo significa per noi essere comunisti.

P.S. Del Comune, e del senso comune.
Ci si chiede: oggi il Comune di Milano ha oggi un consenso, un capitale politico, una fiducia da spendere di fronte alla città meticcia?
Ha senso questa domanda? Chi siamo noi per rispondere? Chi è titolato a rispondere se non la realtà?

Come è possibile, con realismo, rispondere di no?
E’ ovvio che gran parte della città meticcia ha riconosciuto e apprezzato un gesto coraggioso (e un po’ incosciente, se visto con occhi del “politico di professione”). E’ ovvio che oggi molti ripongano speranze legittime, al massimo ingenue, nel sindaco e nell’assessore che si è speso per il corteo (contro buona parte della sua giunta che il corteo lo ha boicottato, sconfessato e infine provocato partecipandovi).
Come è possibile, con realismo, rispondere di si?
Abbiamo già avuto il sindaco gentile e vile, che ancora oggi è alla ricerca di una riserva indiana per un pezzetto di ceto politico, senza rappresentare (figuriamoci praticare) una qualunque istanza di liberazione. Abbiamo in consiglio comunale una maggioranza consiliare che è un monocolore del partito che viene chiamato dal suo (ex?) intellettuale di riferimento la “Peggiore Destra”. Viviamo l’epoca della crisi definitiva dei partiti socialisti (neoliberisti) e, sebbene per molti versi l’epoca che viviamo sia cupa, non è certo il diradarsi delle ipocrisie a preoccuparci. A queste illusioni siamo vaccinati.
Al Sindaco Sala che il 20 Maggio ha dichiarato che, preso atto delle diverse opinioni espresse dalla piazza, si impegnerà al massimo a difendere i diritti di tutti e la solidarietà, promettiamo soltanto una cosa: che ci vedremo presto nelle piazze per continuare le nostre rivendicazioni: casa, reddito, diritti x tutti! Anche a lui chiederemo se si ricorda di quel Sabato pomeriggio, il 20 maggio, a Milano.

P.P.S. Dal 2001, sul Cantiere è scritto: sempre in movimento. Essere in movimento significa vivere e dunque conoscere, incontrarsi. Questo è stato, sopra ogni altra cosa, ciò che abbiamo fatto sempre, ciò che abbiamo fatto per costruire il 20 Maggio.
Molte delle persone incontrate le avremmo volute con noi in corteo, ma sono partite, magari su una astronave alla ricerca della ambigua utopia.
Altre le avevamo perse per strada e abbiamo brindato assieme, come si fa dopo un lungo viaggio.
Altri ancora ci sono molto vicini, anche da molto lontano.
Con più d’uno abbiamo camminato fianco a fianco, senza dovercelo dire e senza saperlo.
Tra questi ultimi una persona di cui abbiamo studiato i testi e di cui abbiamo conosciuto “l’opera viva” nella forma di un piccolo/grande sindacato antirazzista metropolitano senza cui il 20 Maggio sarebbe stato più difficile.
A tutti loro dedichiamo, non già la manifestazione, quanto i nostri sforzi per realizzarla e quelli per continuarla.

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