di GIUSEPPE ACCONCIA. Il discorso politico sui populismi guarda soprattutto verso l’Europa e gli Stati Uniti. Eppure veri maestri di populismo governano importanti Paesi del Medio Oriente. Sebbene si tratti di regimi militari o autoritari, questo non allevia gli effetti devastanti sulle società civili locali e nel dibattito politico dei populisti in Nord Africa e in Medio Oriente. Iniziamo con il populismo, finto post-nasserista del presidente con le mani macchiate di sangue, Abdel Fattah al-Sisi in Egitto. Quando l’esercito egiziano ha capito che, una volta ottenuta la fine del regime di Hosni Mubarak l’11 febbraio 2011, sarebbe stato necessario il ritorno al nazionalismo e la contro-rivoluzione, ha avviato una strategia populista molto precisa, culminata con il colpo di stato militare del 3 luglio 2013.

Come funziona il populismo egiziano?

All’indomani delle rivolte del 2011, per la grande partecipazione di operai, venditori di strada, poveri e migranti, e il gran numero di scioperi nelle fabbriche, si andava alla ricerca di un populista che rimpiazzasse Mubarak. Gamal Abdel Nasser era tornato a primeggiare tra i gadget nelle strade del Cairo, mentre il candidato alle presidenziali, Hamdin Sabbahi, definito dalla stampa come “neo-nasserista”, ottenne un ottimo risultato nelle urne.

Eppure a sei anni dalle proteste, ha prevalso il populismo di destra del presidente con le mani insanguinate, Abdel Fattah al-Sisi. Ottenuto il potere, l’ex generale, ha cercato di promuovere se stesso come un leader nazionalista, indipendente dagli aiuti militari degli Stati Uniti, per poi abdicare completamente alle richieste di Washington dopo l’elezione di Donald Trump. Eppure anche al-Sisi all’inizio della sua presidenza ha cercato di rappresentare se stesso come un nuovo Nasser. Ha coinvolto nel suo primo governo uomini della sinistra egiziana. Ha descritto il golpe del 2013 come contrario agli interessi promossi da Obama nella regione. In altre parole, secondo il suo discorso politico, l’ex presidente Usa avrebbe sostenuto l’ascesa politica dei Fratelli musulmani. Se anche Obama ha lasciato fare dopo le rivolte del 2011, non ha certo difeso l’ex presidente Mohammed Morsi e la leadership politica della Fratellanza dopo il golpe del 2013. Al-Sisi ha poi voluto mostrarsi come il braccio destro di Vladimir Putin, sostenitore di al-Assad in Siria, e impegnato ad agire negli interessi dell’Arabia Saudita nella regione, per esempio con il recente trasferimento della sovranità delle isole egiziane di Tiran e Sanafir ai sauditi, nonostante le proteste in corso. Il suo predecessore, Gamal Abdel Nasser seppe invece scontrarsi duramente con gli interessi sauditi nella regione.

Al-Sisi si è poi mostrato militarmente aggressivo, con attacchi in Libia (ha trattato la Cirenaica come un’estensione egiziana), in Yemen (a sostegno degli interessi sauditi), e per l’appoggio che ha assicurato alle autorità israeliane durante l’Operazione Protective Edge nel 2013. Al-Sisi ha infine fatto appello a una forma radicata di nativismo (per esempio in relazione alle migliaia di migranti siriani e palestinesi, residenti in Egitto o emigrati in seguito alla guerra in Siria, che hanno visto strappati i loro documenti e sono stati costretti a lasciare il Paese). E perciò, secondo al-Sisi, “gli egiziani dovrebbero venire prima di tutto”. Eppure i suoi tagli alla spesa pubblica, per rispondere alle richieste di Banca mondiale e Fondo monetario internazionale (Fmi), gli arresti di massa di islamisti ed esponenti della sinistra egiziana, il controllo sulle organizzazioni non governative, sulla stampa indipendente, su tutte le forme di opposizione, il divieto di scioperi e gli arresti di operai, sono il vero volto della sua gestione politica.

Tuttavia i Fratelli musulmani egiziani non sono stati meno populisti. Anche loro hanno fatto ricorso a nazionalismo e populismo sempre e anche nel periodo in cui sono stati al potere (2012-2013). Basta fare riferimento ai comitati popolari, organizzazioni di cittadini che sono nate spontaneamente dal basso in seguito alle rivolte del 2011, e dominate dalla Fratellanza. Questi gruppi hanno fatto ricorso a una forma di socializzazione politica populista che ha incluso migliaia di egiziani in un discorso politico islamista moderato che si è poi dimostrato politicamente poco capace di conquistare le istituzioni egiziane, di cambiare la struttura di potere e le relazioni economiche in Egitto.

Come funziona il populismo turco?

Il populismo del presidente turco Recep Tayyip Erdogan si richiama per molti versi a questa seconda visione, promossa dalla Fratellanza musulmana in Egitto. Per questo la leadership del partito Giustizia e Sviluppo in Turchia (Akp) ha fatto ricorso a grandi investimenti e appalti pubblici per giustificare qualsiasi forma di repressione politica. Dal referendum costituzionale che ha esteso i poteri presidenziali, alle purghe di giudici, insegnanti, poliziotti, decise dopo il golpe del 15 luglio 2016, fino alla guerra politica contro la sinistra filo-curda del Partito democratico dei popoli (Hdp), Erdogan ha mostrato la sua ricetta di populismo post-islamista che usa la “democrazia” come grimaldello per imporre la dittatura della maggioranza.

Eppure, a sua discolpa, Erdogan ha proprio il modello egiziano. Il fallito golpe turco del 2015, agli occhi del leader di Akp avrebbe potuto avere gli stessi effetti del colpo di stato che in Egitto ha marginalizzato e poi fatto tornare alla clandestinità la Fratellanza musulmana. E anche la lontana possibilità, forse inesistente e di sicuro esagerata in Turchia, che questo sarebbe potuto accadere, ha spinto Erdogan a mettere il pedale sull’acceleratore del populismo di destra e del ritorno all’autoritarismo.

La prima vittima del populismo post-islamista di Erdogan è stata purtroppo la sinistra turca. Il colpo che Akp ha dato ad Hdp con la fine dell’immunità parlamentare per i suoi politici, gli arresti dei leader carismatici, Salahettin Demirtas e Figen Yuksekdag, hanno mostrato una volta di più l’incompatibilità tra islamismo politico e sinistra in Medio Oriente. E denunciano i limiti di un discorso populista di destra che punta su nazionalismo turco, una politica estera aggressiva (contro l’esperimento di Rojava per esempio), leva sulla paura dell’invasione di migranti (si veda il disastroso accordo Ue-Ankara sui migranti) per affermarsi in politica interna.

Negli ultimi anni, il populismo non ha attecchito soltanto in Europa e negli Stati Uniti, ma anche in Medio Oriente. Qualcuno può argomentare che è fuorviante confrontare democrazie e regimi autoritari. In realtà in questo articolo abbiamo visto che ci sono molti elementi in comune (nazionalismo, austerità e neo-liberismo, politiche estere aggressive, razzismo) tra populisti nostrani (“America first”, Muslim ban, cancellazione Obama Care) e in Nord Africa e Medio Oriente. Le visite reciproche di Trump e al-Sisi a Washingotn e al Cairo lo confermano. I populisti si piacciono e si confrontano con i loro omologhi nel mondo. In alcuni casi si ispirano gli uni agli altri, come ha fatto al-Sisi nel dichiarare guerra agli islamisti rispolverando in Egitto la nota e disastrosa politica di lotta al terrorismo, inaugurata da George Bush. Infine e purtroppo, la deriva populista in Nord Africa e Medio Oriente non potrà che alimentare il terrorismo perché leader politici che non hanno legittimità nelle urne o sono eccessivamente divisivi hanno bisogno dell’instabilità e della violenza per affermare la necessità della loro leadership.

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