di GISO AMENDOLA. È difficile scrivere qualcosa su Stefano Rodotà, in questi giorni che seguono la sua scomparsa. Le testimonianze che ho potuto ascoltare, o leggere in rete e sui giornali, sono impressionanti per come tengono insieme affetti e saperi, e rendono superfluo aggiungere qualsiasi parola. Del resto, i pensieri forti continuano sempre a dare i loro frutti nei tempi lunghi, in quei confronti che la morte non interrompe: sentimus experimurque nos aeternos esse.

D’altro canto, i libri di Rodotà dovremo studiarli ancora a lungo, e non solo per l’immenso patrimonio di sapere sul diritto e i diritti che contengono. Li studieremo non perché costituiscano un corpo concluso, una sorta di «dottrina Rodotà». Al contrario, ci torneremo spesso su perché il suo magistero resta costitutivamente aperto, in forza delle tensioni che lo animano, dei nodi che ha fatto emergere, per la portata della crisi storica davanti alla quale la stessa forza del suo pensiero ci pone. L’energia della sua straordinaria «difesa» dei diritti, quella per cui tutte e tutti, alla notizia della sua scomparsa, abbiamo avvertito un senso, più ancora che di solitudine, di fragilità, di esposizione ancora più nuda al nemico, non è mai stata fondata, infatti, su un’ipervalutazione della forza del diritto, su un elogio «classico» della capacità del diritto di forgiare ordini, e dei diritti di creare scudi impenetrabili. Rodotà non ha mai costruito macchine giuridiche infrangibili. Al contrario, il primo movimento del suo stile di pensiero è essenzialmente critico: per poter davvero far funzionare i diritti come strumento di presa di parola, di allargamento degli spazi della cittadinanza, di trasformazione sociale, occorre smontare la logica complessiva che informa il diritto della modernità, che è la logica proprietaria.

Non si tratta semplicemente di rispondere a un problema redistributivo, di estendere il più possibile la proprietà, di trasformare tutti in proprietari. Rodotà ricordava, in uno dei saggi raccolti ne Il terribile diritto, che era stato il governo della Thatcher ad esultare perché il numero dei titolari di azioni delle società aveva superato quello degli iscritti al sindacato: la questione proprietaria non è (solo) una faccenda di più equa distribuzione della proprietà, ma di superamento di una logica che tende a informare di sé la totalità dei rapporti sociali. Anche pluralizzare la proprietà, fare emergere la differenza delle diverse situazioni proprietarie al di sotto della tendenza del diritto moderno alla riunificazione in un unico schema proprietario, aiuta certamente a relativizzare il terribile diritto, ma non affronta il nocciolo della questione. Il nucleo duro della logica proprietaria sta nell’appropriazione stessa: è questo specifico rapporto tra i beni e i soggetti a rendere terribile la proprietà.

Rodotà farà emergere così con forza la categoria dell’inappropriabile: ciò che si sottrae all’appropriazione , così come all’alienazione, apre a relazioni non proprietarie, fuori dalla semplice alternativa tra proprietà dei privati e proprietà pubblica. La forza dei beni comuni sta appunto in questo: sostituire la centralità della titolarità, e del rapporto appropriativo con i beni, con la centralità della gestione dei beni. Interessa come si governa il bene, come lo si usa, ben più che chi ne sia il titolare. L’emersione di una relazione non proprietaria con i beni comporta, allo stesso tempo, una critica di quel soggetto giuridico, che è il cardine di quella relazione appropriativa: se sono fondamentali la gestione e l’uso, e non la titolarità e l’appropriazione, il soggetto viene in buona misura «detronizzato» da quella funzione portante che gli è stata attribuita, nella modernità giuridica, dalla logica dell’individualismo possessivo. In questa logica, proprietà e soggetto giuridico si sostengono a vicenda: l’individuo è centrale perché è capace di appropriazione, allo stesso tempo la proprietà è il perno dell’intera costruzione giuridica perché essa sola esprime pienamente l’essenza dell’individuo.

La radicalità del discorso di Rodotà qui si fa decisamente evidente: non si tratta solo di far vacillare i tratti più egoistici, possessivi e appropriativi del soggetto «liberale», ma di interrogare l’idea stessa di soggetto giuridico, come si esprime nella tradizione giuridica moderna. Andrebbe usata molta cautela nel definire «liberale» il pensiero di Rodotà, come vediamo spesso fare, per meglio ignorarlo, da molta sedicente «sinistra-sinistra» tutta di un pezzo, o, dall’altro lato, da liberali che ne esaltano esclusivamente il tratto di militante dei diritti, mettendo tra parentesi il nocciolo di critica all’individualismo possessivo che caratterizza tutto il suo pensiero. L’inesausta passione per la libertà non fa di un pensiero necessariamente un pensiero «liberale»: quando si parla del liberalismo di Rodotà occorrerebbe ricordarlo. Marx ironizzava ferocemente sul regno esclusivo di «Liberté, Egalité, Proprieté e Bentham»: in un autore come Rodotà, che, pur non marxista, fa della critica della proprietà il problema fondamentale, la lotta per la libertà sta proprio nel rompere quel nesso «benthamiano» tra eguaglianza e libertà da un lato, e proprietà dall’altro, nell’offrire alla libertà la possibilità di esplicarsi oltre la gabbia costruita da proprietà e identità. In questa operazione di liberazione della libertà dalla macchina proprietaria, dicevamo, la critica di Rodotà mette in questione, in un modo che è andato facendosi sempre più esplicito, la stessa costruzione del soggetto giuridico moderno. Quest’idea del soggetto giuridico «neutro», astratto, è stata di certo il motore del superamento dei particolarismi, ha fatto funzionare l’idea di eguaglianza formale, con tutto il suo portato emancipatorio: ma si è mostrata incapace di accogliere il movimento effettivo della vita delle soggettività, le differenze, le parzialità che hanno tessuto lo sviluppo storico della lotta per i diritti.

La separazione prodotta dal femminismo dall’idea di soggetto giuridico neutro ha interrogato profondamente il pensiero di Rodotà, spingendone la forza critica fino a mettere in discussione quella stessa idea di astrazione, il modello stesso della «grande divisione» tra norma e fatti sociali, tra diritto e vita. La riflessione sulla vita, sui problemi del suo inizio e della sua fine, annoda tutti questi punti critici: il corpo è non a caso citato continuamente da Rodotà come immagine dell’inappropriabile, contro ancora una volta quella tradizione «proprietaria», che, con Locke, aveva esordito proprio affermando la proprietà sulla propria persona come prima e fondamentale proprietà. Differenza e corporeità nutrono la critica del soggetto giuridico astratto e sempre più fanno emergere un’idea alternativa di centralità della persona e della sua dignità, concetti capaci di trattenere e potenziare tutti quegli elementi trasformativi e relazionali della vita, che l’astrazione del soggetto giuridico rischia di bloccare.

Il pensiero di Rodotà si inoltra così, sempre più intensamente, nel mondo delle intensissime trasformazioni delle soggettività che appaiono «dopo» il moderno. Dalla critica alla proprietà, all’emersione della rete, fino all’attenzione – centralissima nel suo pensiero più recente – per l’interazione uomo-macchina, fino all’universo cyborg: il «garante della privacy» ha colto in profondità come, nelle nuove reti comunicative, la questione non fosse tanto la protezione dell’idea classica di «soggetto» e della sua «privatezza», ma comprendere come la stessa relazione con la macchina comportasse una modifica cruciale del senso stesso dell’identità personale, dei suoi stessi confini. Differenza, corporeità, rete, macchina, da un lato: dall’altro lato, la necessità di ripensare la norma giuridica fuori dalla sua trascendenza, di immaginare una giurisprudenza capace di leggere questo divenire delle differenze e delle soggettività in modo da riconoscere, senza soffocare, le nuove forme di vita.

Questa relazione, esposta in tutta la sua criticità, tra forme di vita e norma, probabilmente è l’interrogativo fondamentale che unisce le riflessioni antiproprietarie sui beni comuni a quelle su vita e diritto, sulle trasformazioni della soggettività, su genere e famiglia, su reti e tecnologie. Le forme di vita non sono più trattenibili dentro le mediazioni normative tradizionali: il diritto «legislativo» e «sovrano» della tradizione moderna è completamente spiazzato. La strada di Rodotà è quella di una lettura dei diritti fondamentali tutta attraversata da una tensione che definirà come «costituzionalismo materiale dei bisogni»: ma dove questa materialità è il segno dell’intensificazione qualitativa delle forme di vita, dell’irrobustimento della forza delle differenze e del dinamismo delle soggettività. Una nuova intensità – soggettivamente qualificata – che nasce nel centro dell’effettività sociale e che produce una tensione dinamica – non pacificabile – con la macchina astratta della validità giuridica. Questa tensione tra forme di vita e invenzione giuridica, in Rodotà, è pienamente riconosciuta e, soprattutto, mantenuta sempre aperta. Ogni tentazione pangiuridicista qui è lontanissima: non si tratta di pretendere di giuridificare anche l’amore, secondo la facile obiezione che possono muovere a questa tesissima riflessione sul diritto i mistici delle forme di vita «in purezza», i retorici e teologi dello sganciamento assoluto tra vita e norma, tra divenire e istituzione, tra processi sociali e «costituzione». Si tratta, al contrario, di mettere in discussione le forme canoniche del diritto moderno – i suoi soggetti, la sua macchina ordinamentale, la sua potente ma ambigua astrazione – per riaprire la discussione sulla «forma» che le forme di vita possono produrre per se stesse.

Certo, una volta radicalizzata la critica, in Rodotà la scommessa sull’autoproduzione normativa, sull’autopoiesi, su un’idea integrale di riappropriazione della produzione di diritto, resta sempre circondata da dubbi e cautele: la sua sfida è che i diritti fondamentali, se finalmente fondati su un’idea ricca di uguale dignità della persona, possano in qualche modo rispondere alla crisi aperta dall’emersione delle nuove soggettività e delle nuove forme di vita. Sempre però nella consapevolezza che questa nuova mediazione deve davvero scontare completamente la crisi della vecchia: non a caso, alla crisi della cittadinanza tradizionale, Rodotà risponde individuando un diritto all’esistenza che si concretizza– in maniera ancora una volta materialissima – nell’idea di un reddito di base come espressione forte di una democrazia che si fonda direttamente sulla dignità della persona, fuori dalla necessaria mediazione della figura del «cittadino salariato». Così come è sempre tenuta in primo piano la consapevolezza che non saranno i diritti degli stati nazionali a poter rispondere alla sfida di questa crisi, e che, di conseguenza, il campo dell’immaginazione giuridica non può che essere (anche) sovranazionale: proprio perché è la forma stessa del diritto sovrano, con il suo tradizionale prevalere del «diritto legislativo» che non può reggere alla sfida di una nuova produzione di forma giuridica all’altezza della trasformazione.

Se questo esercizio di disincanto nei confronti del soggetto giuridico astratto, della cittadinanza nazionale «salariale» classica, della legge come espressione della sovranità nazionale, è così forte e lascia spazio all’emergere di nuove soggettività e forme di vita, la risposta è rintracciata, dicevamo, in una rilettura intensamente personalistica dei diritti fondamentali, in una nuova capacità della giurisdizione e della cultura giuridica, in quel nuovo «cartismo» internazionale avanzato la cui più matura espressione sarà la Carta di Nizza. La forza dell’autonomia dei processi normativi, la creazione di istituzioni dal basso, gli sono sembrate, probabilmente, sempre più il sintomo di problema aperto che la soluzione: la pressione delle forme di vita sembra sempre «richiedere» una risposta dal diritto e dal giurista, piuttosto che contenere anche le potenzialità di una soluzione alla crisi della mediazione tra soggettività e ordine normativo.

Però, la capacità di squadernare questa crisi è il suo grande lascito. Come dicevo in apertura, la sua grande tenacia di «difensore dei diritti» si è fondata sull’aver visto con chiarezza il margine della crisi del costituzionalismo liberale, nell’averne decostruito il cuore proprietario e identitario, ben più che nell’averne difeso le ragioni: mantenendosi sempre sulla linea di questa crisi, indagando ogni possibilità «estrema» della forma giuridica «costituita». Ma con un’attenzione incessante, anche se sempre critica e a volte scettica, per l’impazienza «costituente», per i tentativi di produzione di istituzioni dal basso e di contropoteri, messi in campo da chi vuole sperimentare strade che si spingano oltre quella crisi da lui magistralmente diagnosticata. Non a caso, mentre dalla politica «costituita», anche troppe volte da quella che si autoproclama a sinistra, fu spesso trattato da intellettuale liberal, irrimediabilmente lontano dalle ragioni del «popolo», negli esperimenti costituenti del movimento dei beni comuni trovò le sue forse inaspettate interlocutrici e interlocutori, allieve e allievi «irregolari» di un Maestro che seppe muoversi sul difficile limite tra le «regole» e l’autonomia delle soggettività.

tratto dal focus di OPERAVIVA MAGAZINE Il terribile diritto. Un omaggio a Stefano Rodotà

QUI il ricordo di Maria Rosaria Marella pubblicato da il manifesto

 

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