di MAURILIO PIRONE.

Il governo della mobilità tra militarizzazione del Mediterraneo, attacchi alle ONG e pratiche di sconfinamento.

È tutt’altro che una coincidenza o una pura corrispondenza simbolica il fatto che lo stesso giorno del sequestro della nave Iuventa della ONG Jugend Rettet il Parlamento italiano abbia approvato la missione libica fortemente voluta dal Ministro Minniti. Da alcuni mesi infatti il governo italiano ha accelerato notevolmente tanto nel restringere i margini dell’accoglienza quanto nel ampliare quelli dei respingimenti. Le navi delle ONG che invece operano attività di ricerca e soccorso in mare (SAR) rappresentano una spina nel fianco delle politiche migratorie messe in campo dagli Stati europei. Il Mediterraneo è diventato luogo di geometrie variabili fra pratiche umanitarie a sostegno dello ius migrandi e ansie securitarie che invocano il rafforzamento delle funzioni di confine. La missione libica del Ministro Minniti entra perfettamente nel solco razzista tracciato da quanti negli ultimi anni hanno invocato il blocco delle partenze dall’altra sponda del Mediterraneo.

Che il tema delle migrazioni sia uno dei nodi centrali attorno ai quali si sta ridefinendo la società europea è ormai ben chiaro. Sembra che la corsa all’erosione di diritti e valori dell’accoglienza abbia preso una piega inarrestabile, nell’illusione che muri e confini possano risolvere un fenomeno strutturale del nostro del nostro tempo. Come dimostrano i dati Istat e Idos, solo nel 2016 dall’Italia sono emigrate ben più di 100mila persone, forse addirittura 250mila: un paese di migranti economici che teme di essere invaso e cerca di blindarsi è un paradosso patologico.

Eppure, da una parte abbiamo assistito a importanti modifiche legislative con la recente legge Minniti-Orlando che ha diminuito le garanzie giuridiche per i migranti che richiedono asilo e contemporaneamente ha ripristinato la piena funzione delle strutture d’espulsione. Accanto a questa va inserito tutto il lavoro diplomatico svolto con paesi terzi per rendere effettivi i decreti di espulsione.

Dall’altra è stato messo in campo un bombardamento mediatico anti-migranti dalle chiare sfumature razziste e colonialiste. Dopo la propaganda sugli scafisti, è stato il turno dell’attacco alle ONG. In entrambi i casi vale la cosiddetta teoria del pull-factor: i flussi migratori esistono perché ci sono mezzi e persone disposte a trasferire i migranti. Come sempre il migrante è spersonalizzato, privato di una sua autonomia e decisionalità, di bisogni e desideri, oggettivato in una merce di scambio a disposizione, a seconda dello storytelling, dei trafficanti senza scrupoli o dei volontari ideologicamente umanitari. Dai “taxi del mare” di Di Maio: all’”aiutiamoli a casa loro” di Renzi, dallo “stop invasione” di Salvini alle inchieste del pm Zuccaro: il risultato di tutta questa propaganda è stato quello di ottenere, tra le varie cose, uno spostamento della percezione pubblica per cui le attività di ricerca e soccorso in mare non sono più un atto di solidarietà, una pratica dovuta che le ONG fanno laddove sono gli Stati a latitare, ma una forma di collaborazione con i trafficanti e di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. La solidarietà lentamente diventa una colpa da punire anche in maniera penale (basti citare i casi di Francesca o di Cedric Herrou). Nel frattempo gli attacchi ai centri di accoglienza o gli episodi locali di rivolta contro l’arrivo di richiedenti asilo si sono fatti più frequenti.

Oltre all’effetto corrosivo nei confronti di alcuni valori precedentemente condivisi, queste narrazioni tossiche hanno influenzato anche altri aspetti del dibattito pubblico.

Verosimilmente hanno contribuito al naufragio della discussione sullo Ius soli, legge sulla quale si è sgretolata tutta la patina umanitaria del PD. La connotazione “migrante” resta un tratto escludente rispetto alla piena cittadinanza.

Sicuramente hanno condotto all’elaborazione di un codice di condotta per le ONG che però solo alcune hanno deciso di firmare a fronte di una pluralità di problemi che questo nuovo strumento privo di valore legale introduce. Su questo punto la lettera di Medici senza frontiere al Ministro Minniti è chiarissima. Il rispetto del codice comporterebbe a) difficoltà maggiori nelle operazioni di soccorso (ad esempio, a causa dell’impossibilità di effettuare trasbordi tra navi), b) lo scivolamento verso finalità di controllo che non competono alle missioni umanitarie. Il rischio è quello di una progressiva militarizzazione e securitarizzazione delle attività umanitarie di soccorso.

Infine la narrazione di un Mar West preda del caos e dell’arbitrio delle ONG è servita ad accelerare la definizione di una missione italiana di supporto logistico ad attività di pattugliamento della marina libica. L’obiettivo dichiarato è quello di favorire il blocco delle partenze. Quello che viene coscientemente taciuto è il destino di queste persone respinte una volta tornate in Libia. Non esiste alcuna forma di garanzia sul trattamento dei migranti in Libia; anzi, è pienamente dimostrato che ad aspettarli ci siano carceri disumane e violenze sistematiche. L’Italia lo sa ma fa finta di nulla perché quello che per gli Stati conta, come scriveva Andrea Segre sul suo blog, è “che se li tengano loro, che ne facciano quello che vogliono, basta che non arrivino”

Il sequestro della Iuventa non arriva dunque a caso. Mentre emerge un’inquietante linea nera tra le fonti adoperate per l’indagine e le attività della nave C-Star dei fascisti di Defend Europe, viene da chiedersi perché sia stata fermata proprio la Iuventa. L’accusa (politica) mossa dalla Procura di Trapani ai volontari della nave è quella di essere troppo no border, ovvero di essere convinti che i migranti debbano essere liberi di muoversi. Scrivono i pm: “E’ chiaro infatti che, rispetto all’associazione finalizzata al traffico operante sul territorio libico avente lo scopo di sfruttare la posizione di debolezza dei soggetti che aspirano a lasciare quel territorio per indurli alla dazione di cospicue somme di denaro, le attività della ONG si pongono in una posizione diametralmente opposta, nella prospettiva di agevolare l’aspirazione a lasciare il territorio africano, tutta a favore ed a tutela dei migranti ed a prescindere dalla posizione degli stessi che, nella maggioranza dei casi, sono migranti mossi da motivi economici e solo in casi numericamente più limitati possono aspirare ad una protezione internazionale”. A giudicare dai commenti sui social, quello che più ha scatenato gli hate speeches è il fatto di non avere visto migranti affogare nelle immagini diffuse dalla Procura ma un “semplice” trasbordo in mare. Che le attività SAR siano cosa ben più articolata del salvataggio del barcone ribaltato dovrebbe essere chiaro; la pratica concreta è ben spiegata in questo articolo di Fulvio Vassallo Paleologo. Quello che dovrebbe colpire invece è l’efficacia di questa modalità di estrapolare immagini dal proprio contesto per costruire una narrazione dello scandalo. In molti casi ci riconosciamo nell’altro solo davanti a situazioni di dolore. Le tonalità emotive della sofferenza e della violenza sembrano diventate le uniche su cui ancora riusciamo a costruire canali di empatia. Non c’è spazio per desideri e aspirazioni. Le reazioni alle foto della Iuventa ci parlano della miseria del nostro presente.

Quali indicazioni possiamo quindi ricavare da questi ultimi sviluppi?

In primis, sembra che la limitazione alle attività SAR rientri all’interno di una progressiva militarizzazione del Mar Mediterraneo. L’obiettivo è quello di spostare i punti di attrito – i luoghi in cui il regime dei confini si scontra con l’autonomia dei flussi migratori – dalla terra al mare, fino all’altra sponda del Mediterraneo. È attraverso questa chiave di lettura che possono essere lette le diverse proposte di chiudere i porti europei, di trasformare Lampedusa in un gigantesco hotspot, di istituire campi di accoglienza direttamente in Libia. Le ONG si trovano chiaramente nel mezzo di questo spazio che è quello prescelto non per l’accoglienza ma per i respingimenti e per la ridefinizione di un regime mobile e multiplo di confini.

In seconda battuta, il fallimento di un piano europeo. L’Austria minaccia costantemente di militarizzare la frontiera, la Francia già presidia il Frejus, gli altri paesi con affaccio sul mare hanno escluso la messa a disposizione dei porti e nessuno ha rispettato il piano di ricollocamento dei richiedenti asilo. Qualsiasi aspirazione di unione o cooperazione si sgretola davanti all’assunzione di responsabilità di fronte ad un fenomeno strutturale del nostro tempo. Il corpo migrante, piuttosto, è usato come strumento di contrattazione nei rapporti fra Stati in un’Europa frammentata dai diversi interessi nazionali.

Infine sembra sempre più chiaro che la posta in gioco è la gestione dei flussi. Di fronte ad un capitalismo (logistico, finanziario, digitale) che scompone e ricompone, che deterritorializza e riterritorializza, la sovranità sembra riconfigurarsi come governance degli effetti di un mondo globalizzato ma attraversato da profonde diseguaglianze e tensioni. La solidarietà, la cooperazione sociale, l’accoglienza autogestita vengono a costituire forme di mobilità autonome che vanno spezzate o irreggimentate. Come scriveva alcuni mesi fa la Commissione Difesa del Senato, “in nessun modo può ritenersi consentita dal diritto interno ed internazionale la creazione di corridoi umanitari da parte di soggetti privati, trattandosi di un compito che compete esclusivamente agli Stati”.

Eppure in questi mesi alcuni segnali incoraggianti erano emersi. Dopo l’approvazione della Minniti/Orlando due importanti manifestazioni a Milano e Bologna avevano invece dato la cifra di rifiuto netto di politiche securitarie e, al contempo, un sostegno pieno alle pratiche di accoglienza. Lo stesso no di alcune ONG al codice di condotta che si voleva imporre loro è un segnale forte che ci spinge a ripensare la potenza del rifiuto e della disobbedienza. Come scrive Alessandro Metz, “è un no che contribuisce a rafforzare quella resistenza quotidiana alla barbarie fatta da migliaia di persone che operano nel produrre accoglienza, attivisti, operatori sociali, volontari, uomini e donne che pensano che “rimanere umani” non riguarda gli altri ma in primis sé stessi”. In tutti questi casi emerge una potenza sociale alternativa al potere statuale e alle sue necro-politiche in base alla quale una parte della società di dimostra in grado di auto-organizzarsi e fare meglio nonostante gli Stati. È fondamentale dare visibilità e corpo a questa solidarietà silenziosa. L’appuntamento di Sconfinamenti – percorso di confronto fra tante realtà locali impegnate nell’accoglienza – previsto per il 23 settembre a Bologna sembra dunque essere l’occasione utile per provare a elaborare percorsi di mobilitazione condivisa sempre più necessari.

 

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