di MARCO BASCETTA. Madrid sta giocando alla guerra civile. Si comporta incredibilmente come se avesse avuto luogo un’insurrezione armata. Barcellona, invece, mantiene la calma e non valica il limite della protesta pacifica e del discorso democratico. Ciò che accade in Spagna è assolutamente inaudito. La destra spagnola sta sfruttando la crisi catalana per spostare in senso autoritario e repressivo gli equilibri politici del paese. Un governo democraticamente eletto viene incarcerato in blocco in seguito a una iniziativa politica rimasta, in buona sostanza, sul piano simbolico-comunicativo e già neutralizzata dall’esautorazione delle istituzioni catalane.

Nessuna violenza, discriminazione o negazione di qualsivoglia diritto può essere imputata agli indipendentisti catalani, organizzati del resto in associazioni e partiti legalmente riconosciuti, per motivarne la criminalizzazione.

L’arresto dei ministri rimasti in Spagna e l’incriminazione di quelli riparati all’estero rappresentano a tutti gli effetti una persecuzione politica e una indegna manifestazione di vendetta.

Il trucco della «legalità» che si sostituisce politicamente alla politica ha condotto a tutto questo, mettendo nelle mani di una magistratura notoriamente orientata a destra e forte di una Costituzione scesa a patti con l’eredità del fascismo, il futuro della convivenza civile in Catalogna e, probabilmente, anche in altre regioni di Spagna. Quale clima possa instaurarsi in un paese nel quale la rappresentanza della metà dei cittadini è dichiarata criminale e trattata di conseguenza è facile immaginare. Fino ad ora non ci sono che da ammirare i nervi saldi dei catalani, trascinati in una guerra intestina immaginaria da una politica che, nascosta dietro la magistratura, ha sistematicamente boicottato qualsiasi possibilità di dialogo. Giunto all’ultimo atto Puigdemont aveva di fatto ceduto accettando di congelare la dichiarazione d’indipendenza e di indire elezioni anticipate. Chiedeva in cambio la salvaguardia dell’autonomia catalana e la rinuncia a misure repressive nei confronti degli indipendentisti. Ma proprio questi erano, fin dall’inizio, gli obiettivi del governo di Madrid, guidato da una forza politica, il Partito popolare, da sempre impegnato nell’impedire ogni approfondimento delle autonomie per non parlare dell’evoluzione della Spagna in senso federalista. Ha dunque dell’incredibile l’appoggio offerto dal Partito socialista spagnolo alla crociata di Mariano Rajoy in cambio di una chimerica riforma federale. I socialisti spagnoli hanno di fatto indegnamente votato i crediti di guerra contro la Catalogna la cui distanza dal resto della Spagna è stata sancita assai più dalla linea di condotta del governo di Madrid che non dal referendum del primo di ottobre.

Fino ad oggi le aspirazioni indipendentiste catalane avevano ragioni assai discutibili, per non dire errate. Ma come atteggiarsi nel momento in cui dovessero assumere natura difensiva nei confronti di un nazionalismo unionista dal volto repressivo e violento? L’Unione europea si è mostrata finora complice di quest’ultimo, a conferma di quanto sovranismo nazionale scorra nelle sue vene. Il feticcio della «legalità» non servirà certo a fare i conti con quelle speciose «interpretazioni» della democrazia che da Budapest a Varsavia, oggi a Madrid e domani a Vienna, avvelenano e avveleneranno il Vecchio continente. L’affermarsi di politiche discriminatorie, l’applicazione arbitrariamente distorta di articoli di legge previsti per fronteggiare un rovesciamento violento dell’ordine istituzionale, mai avvenuto, costituiscono un problema che oltrepassa i confini della Catalogna e della stessa Spagna. Il causidico opportunismo di Bruxelles rappresenta l’ennesimo interessato fallimento dell’Unione europea. Si può dissentire radicalmente dalle scelte di Puigdemont e dei suoi ministri, ma sul fatto che costoro siano oggi dei perseguitati politici non c’è discussione. L’Europa dovrebbe rendersi rapidamente conto delle catastrofiche conseguenze del gioco condotto dal governo di Madrid.

articolo pubblicato da il manifesto il 4 novembre 2017

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