di CHRISTIAN MARAZZI.

È di questi giorni l’allarme lanciato dall’OCSE  sui rischi sociali e politici dell’aumento delle disuguaglianze, cioè della distanza tra ricchi e poveri, come effetto della crisi finanziaria globale e delle misure di austerità perseguite dai governi per ridurre i deficit.

Nei primi tre anni della crisi, dal 2008 al 2010, le disuguaglianze sono infatti cresciute più che nei 12 anni precedenti la crisi. José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, lo scorso mese si era espresso anch’egli in tal senso, dicendo che le politiche d’austerità avevano ormai raggiunto il loro limite di sopportazione e che quindi è necessario fare tutto il possibile per promuovere la creazione di posti di lavoro e ridurre le disuguaglianze. Indubbiamente qualcosa sta cambiando nella percezione politica dell’inefficacia delle politiche neo-liberali, se è vero che gli economisti dello stesso FMI da qualche mese stanno mettendo in discussione la strategia del contenimento della spesa pubblica per rilanciare le economie dei paesi sviluppati. Una svolta di non poco conto, se è vero che per quarant’anni il FMI questa strategia l’ha imposta sistematicamente a tutti i paesi in via di sviluppo indebitati.

Per il momento, la via scelta dai paesi sviluppati per uscire dalla crisi è quella di stampare moneta a più non posso, ma ancora non si vedono i risultati di tale strategia monetaria, se è vero che tutta la liquidità iniettata in circolazione non “sgocciola” sull’economia reale, non arriva cioè alle imprese né tantomeno alle famiglie, restando invece nei circuiti finanziari, alimentando in tal modo il rischio di una nuova bolla che secondo alcuni analisti potrebbe scoppiare tra non molto.

A subire le conseguenze di questo stato di crisi permanente sono in molti: non solo i salariati alle prese con la disoccupazione e la precarietà del lavoro, ma anche i piccoli e medi imprenditori strozzati dal costo del denaro e dalla mancanza di sbocchi di mercato. La disperazione è tale che il numero di suicidi nei paesi più colpiti dalla crisi è aumentato in modo spaventoso. C’è anche un’altra categoria di lavoratori che si trova in crescente difficoltà. Si tratta dei lavoratori indipendenti, o lavoratori autonomi, che negli ultimi trent’anni sono aumentati ovunque in modo sensibile a causa dei nuovi modelli di organizzazione aziendale, cioè dell’esternalizzazione o outsourcing.

In Svizzera gli indipendenti rappresentano ormai il 14% della popolazione attiva, in Germania l’11,2%, in Italia il 24% e in Grecia il 31%. Ad aggravare la situazione dei lavoratori autonomi, oltre la crisi economica e la concorrenza “tra poveri”, si aggiunge la mancanza di tutele sindacali e il cumulo di lacune assicurative (in Svizzera un quarto degli indipendenti non è coperto né dal secondo né dal terzo pilastro, e in Ticino addirittura un terzo!). Dei lavoratori autonomi non si parla mai, li si considera superficialmente dei “liberi professionisti”, mentre sono a tutti gli effetti dei lavoratori eterodiretti, cioè lavoratori dipendenti dalle grandi e medie imprese che per primi subiscono gli effetti della crisi, senza però essere sindacalmente e politicamente rappresentati. Non ci si stupisca, quindi, se il rancore, la rabbia e la disperazione vanno ad alimentare il cosiddetto “populismo”. I motivi ci sono, e sono decisamente strutturali.

* Pubblicato su tysm literary review.

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