di GIROLAMO DE MICHELE.

Relazione al Corso di aggiornamento CESP: “Alternanza scuola lavoro. Spunti analitici e riflessioni pratiche”, Padova, martedì 21 novembre 2017

Mi è stato chiesto di parlare delle narrazioni dell’alternanza scuola lavoro: dunque procederò per citazioni in qualche modo esemplari, che diano il senso della questione da parte dei diversi soggetti.
Eccone una, che esemplifica bene quello che si legge e si sente dire sull’alternanza:

I ragazzi che studiano nei licei sostengono che spesso i loro periodi di alternanza avvengono in luoghi che nulla hanno a che fare con l’indirizzo del loro attuale corso di studi. Cosa che, invece, la legge espressamente prevede. Per supportare retoricamente l’argomentazione si fa anche l’esempio di qualcuno che ha svolto lo “stage” addirittura da McDonald! In relazione ad argomentazioni di questo tipo sarà il caso di smetterla di prenderci in giro e cominciare a parlarsi chiaro! Oggi chi sceglie di frequentare scuole “non professionalizzanti” cioè totalmente scollegate dal mercato del lavoro, è bene che si prepari, non solo ad effettuare stage da McDonald ma anche a lavorarci lungamente nel corso della propria vita. Chi sceglie il proprio percorso scolastico sulla base delle sue attuali predilezioni senza curarsi delle possibilità occupazionali effettive future si prepari, quindi, a svolgere lavori anche molto diversi rispetto al suo attuale corso di studio. Troppo comodo percorrere strade agevoli (che non portano in alcun posto!) o coltivare l’illusione di arrivare a “posizioni qualificate” attraverso un percorso istituzionale garantito e poi assumere il ruolo di vittima e protestare perché nessuno è in grado di offrirti un lavoro (o uno stage!) adatto alle tue grandi qualità! In Italia servono operai e artigiani specializzati, tecnici qualificati e ingegneri competenti. I nostri ragazzi continuano ad affollare scuole ed università che producono letterati, avvocati, esperti di comunicazione e di pubbliche relazioni, giornalisti freelance, web masters, blogger e inutilità simili [corsivo mio].

Non è secondario sottolineare che l’autore non è un qualunquista destrorso – o meglio, lo è: ma è anche un dirigente locale del PD (ferrarese), nonché persona (perdonatemi l’uso del latino) di scuola – dirigente scolastico, per l’esattezza. Ex dirigente, per fortuna della scuola. Che, nel conflitto fra lavoratori e McDonald (sarà bene ricordare che gli studenti in ASL sono equiparati dalla legge ai lavoratori, come recita il TU sulla sicurezza – dlgs. 81/08 all’art. 2), non ha dubbi su chi difendere: il padrone. E poco gli importa se, in barba al protocollo d’intesa fra MIUR e McDonald, oltre il 70% dei McDonald in Italia è in franchising – dunque non in grado di assicurare la formazione prevista nel protocollo: non si tratta di ironizzare sullo spazzolone in mano per pulire i cessi o la paletta per girare gli hamburger, ma del fatto che non sono stati svolti i moduli teorici formativi sul modello aziendale e sulle norme di igiene e di sicurezza alimentare previsti dal protocollo.

Lo stesso vale per i 576 studenti impegnati, in base al protocollo fra ministero e Zara, a nient’altro che piegare i vestiti di un’azienda finita sotto inchiesta per sfruttamento del lavoro minorile dei rifugiati siriani
Né meglio andrà col protocollo d’intesa firmato con un noto imprenditore dai troppi denti che mostra troppo spesso tutti insieme, molto abile a vendere la propria immagine; ma che, come denunciato da un libro d’inchiesta (Wolf Bukowski, La danza delle mozzarelle), dietro allo storytelling dell’innovazione si cela «la valorizzazione di una merce per una nicchia di ricchi, a scapito dello sfruttamento di una classe di poveri. Poveri costretti a lavorare con tutele sempre più decrescenti nelle boutique del cibo, dove i denti del padrone manducano diritti. Diritti operai che si deterioravano con la stessa velocità di una crudité lasciata a languire sotto il sole spietato di ferragosto» (Alberto Prunetti, I denti di #Farinetti e il sorriso di Marta Fana). Un protocollo che non può non richiamare le partecipazioni estatiche delle scuole all’Expo2015, dove agli studenti veniva ammannita, senza alcun pensiero critico, una narrazione dell’alimentare che ignorava lo sfruttamento della forza lavoro a titolo gratuito, la devastazione ambientale attuata per costruire i padiglioni, e persino ai bilanci economici, che facevano segno alla devastazione ambientale e allo sfruttamento indiscriminato che i giganti dell’alimentare praticano nel mondo.

Mi è capitato di sentire, in un incontro sull’ASL, da parte di un ispettore, che «l’alternanza scuola lavoro è l’incontro del mondo dei giovani col mondo degli adulti». Un secolo e passa di psicoanalisi, di studi sui conflitti generazionali, si stemperavano, nelle parole del cantore dell’ASL, in questa visione pacificata, dove i conflitti trovano un punto d’incontro e una risoluzione armonica. Poveri Freud e Lacan, verrebbe da dire. O povero ispettore Giancarlo Cerini, cui nessuno ha mai detto che il mondo del lavoro non è un luogo neutro, ma un luogo di conflitti e di violenze, di sfruttamento e di occultamento dei meccanismi strutturali che determinano le relazioni fra individui. Uno dei quali è il divario informativo fra i soggetti. Catapultare uno studente, che per definizione, non avendo completato il curricolo di studi, è privo del pieno patrimonio di conoscenze e pensiero critico, in un confronto con chi quelle conoscenze le ha, e le usa in modo non neutro, significa introdurlo non alla dimensione del lavoro, ma a quella della subalternità culturale prima ancora che occupazionale. «La riconversione», cantava 40 anni fa Alberto Radius, «non mi sembra una ragione per confondere lo schiavo col padrone». Oggi assistiamo al tentativo di nascondere le ragioni di quella differenza: c’è un gran bisogno di ritornare a quella musica, e anche alle buone pratiche di autonomia che Radius, e non solo lui, suggeriva.

Quello stesso ispettore, all’avvio del percorso di approvazione della legge 107/2015, presentava l’ASL in un testo intitolato La Buona Scuola al tempo dei gufi, come «un sogno inseguito da tanti anni nel nostro Paese: rendere la scuola un sicuro veicolo di mobilità sociale, possibile solo se risponde anche al fabbisogno di competenze per il sistema produttivo, che lamenta la vetustà e la debolezza dei profili formativi in uscita dal sistema scolastico». Continuava Cerini:

C’è un’emergenza sociale, legata alla percentuale impressionante di NEET (cioè di giovani che non si trovano né in condizione lavorativa, né in apprendistato, né a scuola) che testimonia la crisi economica di questi anni, ma anche la difficoltà della scuola a fornire una spinta esistenziale decisiva alle nuove generazioni. È sempre più difficile motivare verso la cultura, lo studio disinteressato, l’apprendimento. Dipende da quello che succede durante l’ora di lezione: è troppo spesso è l’erogazione amministrativa di un sapere già codificato [è una citazione da M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento] che non lascia più margini alla scoperta, alle domande, alla voglia di capire dei ragazzi. Ma dipende anche dal rinchiudersi della scuola nella sua torre eburnea, senza gettare ponti levatoi verso la cultura diffusa che le sta intorno. Una ipotesi presente nel documento [La Buona Scuola] è quella di costruire contatti espliciti tra la cultura della scuola e la cultura del fuori-scuola, del mondo delle imprese e dei servizi, trasformando anche le istituzioni scolastiche in organismi che producono (e vendono) tecnologie e prodotti innovativi.

A distanza di tre anni, la narrazione dell’ASL come risposta alla crisi del NEET viene reiterata senza alcuna variazione. Si badi bene: nessuna di queste narrazioni ha mai mostrato un nesso di causa-effetto fra la presunta autoreferenzialità del la scuola e la disoccupazione giovanile. L’ipotesi che l’assenza di preparazione al mondo del lavoro – quella che viene chiamata “occupabilità” – sia una delle cause di un alto tasso di disoccupazione giovanile che oscilla fra il 35 e il 40% resta un’ipotesi astratta – con buona pace di noi insegnanti, che ci ostiniamo a credere e insegnare che sulle ipotesi debbano prevalere i criteri scientifici, quali ad esempio leggi di Newton. In ottemperanza al principio enunciato da Lewis Carroll – «Questo ve l’ho detto tre volte, e perciò è vero» – la semplice ripetizione del principio che si dovrebbe dimostrare diventa la dimostrazione della sua validità. Si prenda, a titolo esemplare, un passaggio del Rapporto ISFOL sulla Garanzia Giovani in Italia (2016), più volte parafrasato:

Avvicinare il mondo della formazione al mondo del lavoro è infatti un obiettivo costante delle politiche pubbliche degli ultimi decenni nella prospettiva di promuovere la qualità del sistema educativo e il successo formativo degli individui, facilitare i percorsi di transizione, accrescere il capitale umano disponibile e la competitività del sistema-Paese. Per superare almeno alcune delle criticità segnalate, il Governo ha messo in campo due proposte di riforma, che sono in realtà provvedimenti di ampio respiro che rimandano a una pluralità di interventi: la L. 107/2015 di riforma del sistema di istruzione, meglio nota come la “Buona Scuola”, e la L. 183/2014 di riforma del mercato del lavoro, nota come “Jobs Act”. Nella complementarietà fra le due norme e nei rispettivi decreti attuativi si legge la linea strategica con cui si intende affrontare il problema della bassa occupazione dei giovani, agendo sia sul sistema della formazione che sul mondo del lavoro» [p. 101].

In verità, lo stesso Rapporto ISFOL riconosceva che «Il marcato incremento dei nuovi contratti a tempo indeterminato appare quindi riconducibile solo in parte all’uscita dalla fase recessiva e la reazione dei datori di lavoro sembra dovuta all’incentivo economico e all’introduzione del contratto a tutele crescenti». In altri termini, non si registravano tendenze strutturali, ma processi dopati da agevolazioni legislative e finanziarie. Quanto alla chiave di volta del sistema, e cioè «l’apprendistato che guarda ai percorsi del ciclo secondario del sistema di istruzione e formazione», esso era stato già introdotto con il D.Lgs. 276/2003, e poi esteso nel 2011 a una platea molto più ampia (D.Lgs. 167/2011).

Torniamo all’apprendistato: come riconosce il Rapporto, «nei vari anni di operatività l’apprendistato di primo livello non è riuscito a riscuotere grande successo presso le imprese; anzi, la contrazione continua e progressiva dell’utenza dei minori assunti in apprendistato ha progressivamente ridimensionato la diffusione dell’istituto» [p. 105]. Dunque si amplia uno strumento che si è dimostrato inefficace nei fatti, trasformando l’intera platea studentesca in apprendisti e sdoganando nei fatti l’utilità del lavoro minorile [aggiunta: come sottolinea con forza il Piano prodotto da Non Una Di Meno: «l’introduzione massiccia dei programmi obbligatori di alternanza scuola-lavoro si traduce in forme di lavoro minorile gratuito, che nulla hanno a che vedere con un progetto formativo, ma che di fatto vanno a sostituire il lavoro salariato», p. 14].

Facciamo una fotografia del mondo del lavoro oggi, dopo il Jobs Act. I dati ci parlano di una «sproporzione colossale tra i tempi indeterminati e i tempi determinati attesta l’unico processo strutturale in corso sul mercato del lavoro, da una generazione: il tempo determinato sta sostituendo il tempo indeterminato a velocità sostenuta. La crescita, drogata dal “quantitative easing” di Draghi e dai bonus di Renzi alle imprese, precarizza tutta l’occupazione esistente e la trasforma in maniera irreversibile» [Roberto Ciccarelli, “il manifesto”, 1/11/17]. In questo quadro, cresce l’occupazione degli over 50, ma grazie alla riforma Fornero che li mantiene al lavoro; ma non l’occupazione giovanile. In altri termini, il Jobs Act si rivela uno strumento per ri-subordinare e precarizzare il poco lavoro disponibile nel nostro paese.
Quanto alla cosiddetta ripresa cui staremmo assistendo, due diversi rapporti sulla povertà in Italia – il report dell’ISTAT La povertà in Italia, e il Rapporto Futuro anteriore su povertà giovanili ed esclusione sociale in Italia della Caritas (e proprio oggi si annuncia il rapporto di Save the Children sulla povertà educativa) ci parlano di una crescente povertà assoluta fra i minori, i membri delle famiglie miste e, soprattutto, gli «operai e assimilati», tra i quali « si può leggere con chiarezza l’effetto-Renzi e l’impatto del Jobs Act sul potere d’acquisto e sulla stabilità del lavoro». In questo quadro, «economia e società hanno imboccato strade diverse, e per molti versi opposte. I miglioramenti dell’una (o l’attenuazione della crisi sul versante economico) non significano affatto un simmetrico rimbalzo per l’altra (una risalita sul versante della condizione sociale). Anzi. I ritocchini al rialzo delle previsioni sul Pil sono in effetti perfettamente compatibili col parallelo degrado dei tassi di povertà e delle condizioni di vita delle famiglie. Convivono nell’ambito di un paradigma, come quello vigente, nel quale la crescita redistribuisce la ricchezza dal basso verso l’alto, dal lavoro all’impresa (e soprattutto alla finanza), dai many ai few (all’1% che possiede il 20% di tutto). E in cui il Pil, appunto, s’arricchisce (in termini economici) impoverendo (in termini sociali)» [Marco Revelli, A che punto è la notte, “il manifesto”, 16/07/17].

Il tutto, come sottolinea Bruno Scuotto, vicepresidente della Piccola Industria di Confindustria con delega a Education e Formazione (“Scuola7” n. 56, 2017), tenendo presente che «l’alternanza scuola-lavoro è un modello didattico che poco ha a che fare con l’occupazione, essendo un veicolo importante di occupabilità».
Ma come stanno insieme, occupabilità ed effetto Jobs Act? Nella retorica dell’ASL, «da una parte si tratta di monitorare se e come la maggiore flessibilità nei contratti di lavoro, la presenza di incentivi per le imprese, gli aiuti all’autoimprenditorialità favoriscano l’incontro con il mondo della formazione, e dall’altra se e come gli strumenti adottati nell’avvicinamento per tappe siano efficaci» (Nilde Maloni, Alternanza Scuola Lavoro – Risultati e prospettive a un anno dall’obbligatorietà, “Scuola7” n. 19, 2016).

Nella pratica concreta, ne vediamo un esempio lampante in un corso di formazione on line di Google, Crescere in Digitale, agganciato al Piano europeo per la lotta alla disoccupazione giovanile “Garanzia giovani”, «per migliorare le competenze digitali. Superato il corso ed il test con “Crescere in digitale” sarà possibile accedere a migliaia di tirocini in azienda rimborsati 500€ al mese per supportare la digitalizzazione delle imprese italiane». È scritto nero su bianco: un corso di formazione (che è attività lavorativa a tutti gli effetti) gratuito, dopo il quale il lavoratore già formato e selezionato svolgerà un’attività lavorativa retribuita in base a un contratto di tirocinio. Come si legittima un tirocinio per un lavoratore già formato, se non con la ricerca, fra le diverse possibilità contrattuali, di quella meno costosa per il datore di lavoro? In questo modo si educa alla precarizzazione come condizione “naturale” del mercato, e alla sottoretribuzione come correlato del fatto che essere pagato è un privilegio. E alla naturalità dell’alternativa fra un lavoro estemporaneo e malpagato, e quella condizione di NEET che si dice di voler superare, e che invece, attraverso la precarizzazione, viene allargata a dismisura.

Ma è poi vero che l’occupabilità è una condizione preliminare, e quindi ineluttabile, della futura occupazione, per quanto precaria? In tutta franchezza, per chi ha cognizione di causa e conosce per davvero il mondo del lavoro attuale, no. Mi limito qui a citare almeno due testi – gli atti del convegno padovano sulle reti logistiche dello scorso anno, curati da Devi Sacchetto e Sandro Chignola Le reti del valore, e il libro di Benedetto Vecchi Il capitalismo delle piattaforme – che descrivono una scenario nel quale coesiste un capitalismo basato su intelligenze e linguaggi artificiali, algoritmi, messa a valore di stili di vita e relazioni umane, creazione di reti e piattaforme connettive, e un capitalismo che trae valore da forme sempre più sofisticate e violente di controllo sociale, di frammentazione dei tempi lavorativi, di catene sempre più lunghe della logistica. Attenzione: non si tratta di due modelli concorrenti, ma di due aspetti che coesistono e si appoggiano l’uno sull’altro, come due facce della stessa moneta. Due mondi solo in apparenza distanti, ma correlati fra loro, come il sottosopra di Stranger Things.

Per il mondo di sotto non è necessaria alcuna occupabilità, alcuna formazione, alcun apprendistato in entrata: è un mondo per il quale l’ASL non ha alcuna funzione formativa, se non per l’educazione all’assoggettamento. Per il mondo di sopra è invece richiesta quella fantasia, creatività, capacità critica che la scuola dovrebbe contribuire a sviluppare. Con un solo apparente paradosso, lo ha detto lo stesso presidente di Confindustria Boccia all’Orientagiovani di Bolzano: «Siate sempre innovativi e illogici, non morite di esperienza, mettete la ragione al servizio della passione e accelerate sempre!». Una malcelata parafrasi del celebre Stay hungry, stay foolish!, col quale Steve Jobs esortava una platea di figli della upper class statunitense a essere ancora più rapaci e obesi verso il 99% del resto del mondo. Ma come sviluppare le logiche divergenti in luogo di esperienze ripetitive, in una scuola che sottrae tempo alla formazione di una testa ben fatta per dedicare lo spazio di una o due materie a esperienze che di formativo non hanno alcunché, se non il riempire di nozioni prefatte una testa piena, ma non ben fatta?

E allora – è l’ultimo esempio che vi cito – torna in mente l’episodio di quello studente che doveva frequentare un’azienda agricola rinomata per la mungitura robotizzata, e si è ritrovato a spalare letame 7 ore al giorno per due settimane. È un episodio dal valore simbolico altissimo, per chi abbia a mente una pagina della Lettera a una professoressa che vi leggo:

Non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica. Nessuno di noi se ne dava gran pensiero perché il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che capitava a visitarci faceva una polemica su questo punto. Un professorone disse: “Lei reverendo non ha studiato pedagogia. Polianski dice che lo sport è per il ragazzo una necessità fisiopsico…”. Parlava senza guardarci. Chi insegna pedagogia all’Università, i ragazzi non ha bisogno di guardarli. Li sa tutti a mente come noi si sa le tabelline. Finalmente andò via e Lucio che aveva 36 mucche nella stalla disse: “La scuola sarà sempre meglio della merda”. Questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole.

Sarà il caso di ricordare che Matteo Renzi, presentando un libro di Paola Mastrocola, aveva liquidato don Milani e Gianni Rodari come «modelli da mettere in discussione». Tracciare una netta distinzione fra il nostro campo e quello nemico, diceva un filosofo tedesco citando ne uno cinese: l’accostamento, altrimenti blasfemo di Renzi a don Milani e Rodari serve per l’appunto a questo. A ricordarci che la scuola è sempre in relazione con la merda: o è uno strumento per sortirne, o diventa essa stessa merda da spalare.

Permettetemi ora di citare un vero insegnante, il maestro bolognese Mirco Pieralisi:

La nostra scuola dovrà essere una scuola militante, una scuola che cerca di cambiare l’esistente mentre cerca di apportare conoscenza, che cerca di insegnare non a fare le dighe ma a capire che mentre fai una diga puoi affamare 200.000 persone. O noi riusciamo a fare questo oppure noi stessi abbiamo perso.

Una scuola che non insegna a riflettere su come, attraverso quali pratiche di sfruttamento del lavoro, quali violazioni dei diritti, quali conseguenze per il futuro viene creata ricchezza – che non insegna che la ricchezza non si crea ex abrupto, ma viene estratta da un potenziale preesistere espropriato con più o meno violenza – è una scuola che ha perso il proprio senso e la propria funzione.

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