Di GISO AMENDOLA
La pubblicazione delle motivazioni della sentenza sul femminicidio di Giulia Cecchettin hanno suscitato forti reazioni, un importante flusso di indignazione, emozioni, riflessioni, risposte che hanno attraversato social e giornali. Non è il corpo centrale della motivazione ad aver suscitato questo dibattito: lì si motiva la premeditazione agghiacciante e meticolosa dell’uccisione di Giulia, e i giudici ricostruiscono la storia, e le conseguenze normative, di un disegno lucido e voluto. In queste motivazioni non abita più il troppo consueto “impeto”, non c’è spazio per quei ritrattini “passionali” che purtroppo hanno fatto la storia di questo maledetto genere “letterario”: sembra che cominci a passare, anche nelle motivazioni delle sentenze, che siamo di fronte, senza quasi eccezioni, ad omicidi commessi non da spiriti dannati in balia delle Furie, ma, in maniera terribilmente normale, da noi maschi; non da malati, ma da figli sani del patriarcato. Dalle piazze comincia a filtrare alle motivazioni: non è per niente il giudizio “sotto la pressione delle piazze”, come invocherà qualche machista disorientato travestito da garantista nel vedere così ben descritta una terrificante tranquilla premeditazione. È invece il frutto della trasformazione sociale prodotta dalla potenza della mobilitazione femminista, che comincia ad entrare anche nei tribunali e a ripulire la non edificante storia dei processi per femmicidio. È questa, precisamente, la “lotta per il diritto”: Jhering manifesta senza dubbio con NUDM.
Dicevamo però che la reazione si è accesa non sull’asse principale, ma sulla questione della negazione dell’aggravante della crudeltà. È stata per prima Elena Cecchettin, la sempre formidabile e coraggiosa sorella di Giulia, ad attirare l’attenzione su un passo (sono quattro paginette su circa 150) delle motivazioni: dove si dice che le 75 coltellate non sono un segno di crudeltà ma piuttosto di imperizia. Il femminicida era inesperto, non crudele: perciò ha continuato a colpire a mano bassa e disordinatamente, tra calci e pugni. Elena protesta: tutto quello che abbiamo detto con Giulia e per Giulia è inutile, se continuiamo a non riconoscere la crudeltà sistemica che precede e circonda l’atto, se l’isoliamo dal suo contesto, se ritorniamo ad abitudini giustificative.
Sull’affermazione dell’imperizia, monta l’indignazione. In risposta, si richiama al rischio giustizialista. E, soprattutto, si ripete, contro le proteste indignate, che ci sono le regole del diritto, il suo linguaggio, che deve essere compreso nella sua specificità: altrimenti si scivola verso il populismo penale.
Ci si barrica, insomma, contro le voci, soprattutto femministe, che protestano (e questa volta protestano anche voci che è difficile ritenere giustizialiste: militanti contro l’ergastolo, femministe antipunizioniste, abolizioniste): la folla è in tumulto, ripetono in molti, perché non conosce la “specificità” del linguaggio giuridico. Può anche essere: effettivamente siamo spesso alle prese con “folle” (per la verità si tratta più spesso di forze culturali, politiche e di classe reazionarie e consapevoli, piuttosto che di disperse moltitudini per definizioni depravate…) che chiedono carcere, diritto penale, punizione. Ma queste “sedicenti folle” chiedono carcere non perché “ignoranti” o perché non conoscano il diritto, ma perché ne conoscono fin troppo bene un’anima, quella punitiva, e chiedono esattamente quello che il diritto promette e non si stanca di dare.
Comunque, vale la pena di andare a indagare questa famosa specificità del linguaggio giuridico che le folle – indignate perché hanno visto scritto che infliggere settantacinque coltellate in un turbinio di mazzate non è crudele – linguaggio che le folle, dicevo, ignorerebbero nella sua augusta -e va da sé garantistica – “neutralità” e tecnicità. Perché se magari le “folle” sono giustizialiste, ma è tutto da vedere che le indignate in questione lo siano, è d’altro canto certissimo che questa solenne “specificità” e neutralità tecnica del diritto, che vanificherebbe la nostra indignazione per l’inaccettabilità di quel che abbiamo letto, è una pretesa potente quanto infondata: il mito della neutralità tecnica del diritto è, quello sì, un pericoloso motore dell’autoritarismo penale.
Entriamo nel caso in questione a verificare il mito nascosto questa “tecnicità”. Si è replicato alle indignate che “crudeltà” non significherebbe nel linguaggio giuridico – un linguaggio semitecnico: cioè quando gli pare è linguaggio naturale, quasi comune, quando non gli pare è invece algebra, matematica, logica – crudeltà. “Crudeltà”, in diritto, significherebbe un’altra cosa. Significherebbe che l’atto è stato commesso con un quid pluris, un qualcosa in più, che eccede la “normalità causale”. Cerchiamo di capire: la crudeltà dell’aggravante significherebbe che c’è un atto – che è quello che secondo il decorso causale uccide – poi lì “accanto” ci sarebbe un’altra cosa, forse un altro atto, forse un’altra intenzione, ma un’intenzione che è comunque un quid, che si “aggiunge” a quell’atto che – secondo il decorso delle cause – uccide. Uno uccide, la crudeltà poi è un quid, una cosa, che sta lì accanto e che si aggiunge a quello che fai per uccidere. Le folle ignoranti, che ingenuamente pensano che la crudeltà sia solo un modo in cui uno fa le cose, non conoscono il “giuridico”: per il “giuridico”, tu fai una cosa, c’è un decorso causale, poi c’è un “quid”, pluris, ovviamente, come ogni quid che si rispetti.
Uno pensa: ma appunto è discorso giuridico. È cioè un discorso che starà nel diritto “positivo” da qualche parte, vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare. Ma la parte bella e da preservare del diritto è che va impertinentemente a domandare proprio lì “dove si puote”, e quindi continuiamo a indagare. La risposta è che questa misteriosa, “tecnica”, ridefinizione della crudeltà sta e non sta nel diritto: nel codice, all’aggravante di crudeltà ovviamente non si delira di quid pluris e di deragliamenti misteriosi dai decorsi casuali, di angioletti crudeli che aggiungono misteriosamente la loro spada al naturale decorso delle cose. Il codice dice solo e semplicemente che se uno non solo ammazza ma lo fa con crudeltà, c’è aggravante. Ma evidentemente neanche il codice… conosce la specificità del linguaggio giuridico! E infatti il quid pluris non è nel codice ma lo ha inventato la Cassazione, poi si è rafforzato precedente dopo precedente e così via. È insomma solo giurisprudenza, e quindi starebbe lì proprio per cambiare ed essere contestata: magari arriva un giorno che, a seguire questa giurisprudenza, arrivi a dire che settantacinque coltellate e calci e pugni non sono crudeli. Quel giorno lì, magari, ti dovrebbe venire il dubbio che, più che nel volgo indignato, ci sia invece un problemino proprio nella giurisprudenza, e che magari sarebbe questa da cambiare: e invece: boom!, è Giurisprudenza, è Cassazione, è Tavola della Legge. Resta il fatto che la giurisprudenza non sarebbe per niente Legge Immutabile: al contrario, è una cosa il cui bello è proprio che è discutibile, modificabile, vivente molto più della legge. E invece qui ci dicono che la giurisprudenza così ha ridefinito la “crudeltà”, e allora stop!, è giurisprudenza e ce la dobbiamo tenere, anche se non capiamo più bene ormai cosa sia questa giuridica crudeltà.
Di giurisprudenza in giurisprudenza, arriva infine la spiegazione definitiva del quid pluris: il quid pluris significherebbe, si svela alla fine, “sadismo”. L’aggravante della crudeltà significa evidentemente che bisogna agire, per “meritare” l’aggravante, sadicamente… Dobbiamo andare a cercare, come ci ricorda anche la nostra motivazione a caccia di precedenti, l’“espressione autonoma di ferocia belluina”. Ricordate: sarebbe sempre questo il famoso linguaggio tecnico, che ci spiega quel che il volgo indignato ignora. È un ben strano linguaggio tecnico un linguaggio che evoca rituali sadici e ferocia belluina per spiegare l’agire con crudeltà. Eppure, è in nome di questa “neutralità tecnica”, abitata da mostri e fantasmi, che dovremmo imporre, a chi è indignato perché ha letto cose che fanno indignare, di tacere perché non conosce lo “specifico” del diritto. Ma apri lo “specifico tecnico” e ci trovi… sadici e belve feroci, parti malati della fantasia ben poco tecnica e neutrale della giurisprudenza.
Bene, recapitoliamo: il linguaggio “tecnico” ha trovato nel codice che se uno uccide con crudeltà, c’è l’aggravante. Ha spiegato che la crudeltà è un quid pluris rispetto al “decorso delle cause”; infine, ha spiegato che crudeltà uguale quid pluris uguale sadismo. Cosa a questo punto sia mai il sadismo, quali rituali presupporrebbe la nostra aggravante crudeltà, quali tanto precisi quanto reconditi recessi psicopatologici presupporrebbe… La crudeltà diventata quid pluris diventata “sadismo”, ha ormai perso ogni significato individuabile, è un’aggravante inservibile e aperta perciò a qualsiasi discrezionalità.
SI dice a questo punto: beh, ma il giudice intanto si è trovato davanti tutto questo garbuglio giurisprudenziale, e in base a questo ha deciso e ha motivato. Risposta: così e così. Come ha (hanno) deciso, vai a capire: come diceva uno che ne capiva, la decisione giudiziaria in tutta probabilità dipende dal pranzo e dalla digestione dei giudici… In quanto alla motivazione, però, magari leggiamola davvero. Sul punto in questione, la negata aggravante, i giudici mostrano subito di aver letto tutto il materiale medico-legale, a cominciare dall’autopsia. La perizia, diceva Foucault, è il grottesco: è il momento in cui il giudice formula in linguaggio medico un quesito a cui un medico risponderà in linguaggio giuridico (a proposito di “specificità” di linguaggio). Qui i giudici (hanno motivato finora bene, è una buona sentenza, sulla predeterminazione scrivono cose che le donne sanno bene, ma che è bene che comincino a esser scritte bene in sentenza, e qui ci sono scritte: non è matto, non è furioso, non è esasperato, sa far di conto, è razionale, progetta, predetermina e sa sempre qual che fa) hanno un colpo di sonno. E così improvvisamente non parlano più in punta di diritto, ma in quel mix di descrizione medico-legale, osservazione blandamente psicologica, giudizi di valore impliciti e mal controllati, e a volte pregiudizi, che è il linguaggio “peritale”, altro che la presunta nobile, neutrale autonomia del linguaggio “tecnico” del diritto. Anche tutta la prima parte del punto, in cui i giudici hanno ricostruito il guazzabuglio giurisprudenziale sulla crudeltà, cessa di colpo e si dà ora la stura a un discorrere libero di colpi “puliti” o sporchi, di coltellate mirate o non mirate, di imbavagliamenti strettamente funzionali al delitto o “eccedenti”. I giudici mescolano così informazioni tecnico-legali, numero e posizione delle coltellate, valutazioni di fatto del tutto in libertà; formulano poi ipotesi più o meno plausibili per dar senso a colpi, ferite, movimenti. In sintesi: prendi tutto il macello giurisprudenziale di cui sopra (quid pluris, sadismi, etc.) e frullali in linguaggio “peritale”… altro che specificità tecnica e neutra del linguaggio giuridico da rispettare! È da questo immondo guazzabuglio di formule misteriose della giurisprudenza, quid pluris, sadismi, perizia medico-legale, che viene fuori poi l’inesperto che molla 75 coltellate ma non è crudele, perché appunto non è sadico, non c’è il quid pluris, e che, pur sapendo perfettamente quel che fa, non sa come farlo! Ma quale linguaggio tecnico! Questa parte della motivazione non è “tecnica”, è un esercizio impropriamente peritale su un’aggravante ormai resa inservibile da una giurisprudenza che l’ha trasformata da aggravante della crudeltà in aggravante “sadica”!
Vogliamo dire con questo che non c’è pericolo di populismo penale nelle reazioni social indignate etc? Certo che no. Il populismo penale, il giustizialismo, sono onnipresenti, e anche questa volta hanno gridato la loro scomposta voglia di “ultraergastolo”. Ma che quelle parole in motivazione abbiano sollevato l’ira di persone che dal giustizialismo sono completamente immuni, che anzi sarebbero contrarie ad eseguire anche l’ergastolo comminato, è più che comprensibile, perché non sono parole “tecniche”, o meglio sono parole tecniche come abracadabra e bim bum bam: il diritto vi ricorre spesso.
Non si fa diritto con l’indignazione: ma neanche con il richiamo al linguaggio “tecnico” e alla sua autonomia. Si fa battendosi per aprire sempre il linguaggio giuridico alla critica: e distinguendo, dentro la critica, le diverse forme dell’indignatio. L’indignatio femminista non è quella giustizialista, e non è difficile separarle anche quando sembrano sovrapporsi.
Piuttosto: al di là dell’aggravante crudeltà, andrebbe discussa l’altrettanto grave, e forse anche più significativa, motivazione dell’esclusione dello stalking. I giudici qui dicono che non ci sono atti persecutori perché manca l’elemento della capacità di indurre paura o stato di grave ansia. Ma questa incapacità di indurre paura del persecutore è dedotta dal fatto… che Giulia timore non ne manifestava! Insomma: c’è stalking se… fai la vittima convincente, come si deve, non se rispondi e attacchi. Magari anche questo preferire le buone tremolanti e docili vittime deve essere la conseguenza di qualche “concetto” neutralmente tecnico, che non abbiamo ben capito…
Colpi di sonno gravi in una motivazione in cui la premeditazione emerge però forte e ben descritta: ma se le sentenze cominciano a migliorare, è perché molte femministe non si sono fatte incantare in passato dalla presunta neutralità del diritto, e lo hanno fatto rivivere grazie alla loro indignazione. Non sarà mai – lo ricordava anche Xenia Chiaramonte in una sua recente recensione su questo blog – quella presunta neutralità a difenderci dal populismo penale, anzi ne è sempre stata la vera premessa. Così come non sarà mai l’indignazione femminista a produrlo: ne è un potente anticorpo.
Questo articolo è stato pubblicato in Studi sulla questione criminale il 12 aprile 2025.