Di SANDRO CHIGNOLA

Sulla figura di Toni a Padova pesa una pesante damnatio memoriae, che è difficile restituire a chi a Padova non viva. Il suo nome è pubblicamente pressoché impronunciabile. Questo deriva indubbiamente dall’incapacità di elaborare la storia politica cittadina e nazionale. Credo, però, ci sia di più. E cioè qualcosa di molto particolare e che riguarda la storia dell’Università e le peculiari caratteristiche della socialità padovana. Toni è stato, a Padova, un brillante professore dalla carriera precocissima, cooptato sin da giovane nei principali circuiti accademici e notabiliari della città, la cui figura spicca tra quelle della sua generazione e di quelle successive e che, per l’etica del lavoro intellettuale e politico che lo lavora, non si è mai acquietata nel successo che pure gli arrideva. Un vocazionale «traditore» del miserabilismo universitario e dell’autocompiacimento cittadino. Un uomo che ha conosciuto e che ha irriso il dispositivo di inclusione neutralizzante proprio al familismo e al provincialismo veneto e al quale, anche dopo che ha saldato i conti con la giustizia, bisogna, per questo e per il rancore indomito che questo suscita, continuare a farla pagare. Anche questo è stato Toni. E non gli hanno mai chiesto scusa.

Il suo primo libro, la tesi con la quale si laurea esce, rielaborata, per Feltrinelli nel 1959 [A. Negri, Saggi sullo storicismo tedesco. Dilthey e Meinecke, Milano, Feltrinelli, 1959]. Toni vi elabora un passaggio decisivo per la sua formazione intellettuale e politica. Anche se in seguito sarà davvero poco indulgente con sé stesso e su questa sua fase che si compendia in quelli che chiamava – e sorrido – i suoi «scritti precritici», quelli dei quali parlerò in questa occasione attenendomi agli anni 1958-1964. I saggi sullo storicismo di Toni sono importanti. Nello storicismo tedesco la storicità gli si rivela come «unità intensiva» di pensiero, azione e passione; il metodo gli si dimostra indistinguibile dalla prassi (a Napoli forte è l’influenza di Chabod); la realtà vissuta mantiene la sua irriducibilità al sistema. Dilthey agisce su Toni come antidoto all’allora incipiente fascinazione italiana per Heidegger e offre la possibilità di aggredire quelle «modalità reali dell’esperienza» sulle quali costruire «una critica positiva» delle scienze umane. Lo storicismo è per il giovane Toni l’iniziazione all’immanenza della praxis intenzionante e costituente dell’uomo, la rivelazione del carattere progressivo dell’illuminismo come concreta iniziativa storica di riforma e, per il tramite della «Jugendgeschichte Hegels», «il più compiuto e perfetto» dei lavori storiografici di Dilthey, apertura del nesso tra evento e struttura al suo sviluppo dialettico.

Politicamente impegnato – prima in campo cattolico, poi socialista, anche muovendo dalle formule argomentative che incontra studiando lo storicismo – Toni sviluppa un’etica della religiosità che rompe con l’ortodossia e con il dogmatismo a partire da Troeltsch, che studia appunto nel libro del 1959, e un’idea di libertà, la «Wertfreiheit», come «umanesimo realizzato» e come cuore pulsante di un’analitica del concreto vivente della storicità nel quale si condensa il comune produttivo delle azioni e delle relazioni tra gli uomini. Da un lato il religioso come intensità e decisione, il tema della profezia e dell’eresia come lo squarcio attraverso il quale fa irruzione, nella temporalità omogenea distesa dalla storia della Chiesa, l’autentica «Geschichtlickeit» collettiva (qui, centrale è l’influenza di Cantimori); dall’altro Max Weber, studiato proprio in riferimento a Troeltsch e contro la lettura nietzscheana introdotta da Marianne Weber, sul quale Negri tornerà, anche sfruttando i materiali preparatori della tesi, in un importante saggio pubblicato qualche anno più tardi, nel 1965.

Si tratta di un saggio importante [A. Negri, Studi su Max Weber (1956-1965), «Annuario bibliografico di filosofia del diritto», 1965, Milano, Giuffrè, pp. 427-459, p. 438]. Contro le riduzioni sociologiche di Weber allora in voga – la «Wertfreiheit» come correlato e come sostegno di una metodologia positivista e puramente formale di ricerca – Negri accoglie la tensione che si determina in Weber tra analisi razionale e impegno etico, tra l’apertura del sistema all’infinita produttività del reale e la «presa di posizione ontologica» necessaria per poterlo interpretare. La «Wertfreiheit», il nome del realismo politico, non comporta né relativismo, né nichilismo e in essa viene abolito il dualismo neokantiano. Essa valorizza il punto di vista che permette di fissare l’agire al valore, la prassi alla decisione e di elaborare, sul piano del metodo, un «formalismo» in grado di esprimere la potenza morfogenetica della storicità mantenendo il senso delle alternative e delle tensioni che materialmente la percorrono. Lo Weber di Toni è lo storicismo portato all’estremo; lo «Historismus» che si rinserra sul margine che esso non è in grado di oltrepassare e che pure perviene a toccare.

Toni avrebbe dovuto laurearsi su Hegel. Grazie a una borsa di studio della Normale segue a Parigi i corsi di Hyppolite. Opta poi per la tesi sullo storicismo, ma ad Hegel dedica un secondo libro[A. Negri, Stato e diritto nel giovane Hegel. Studio sulla genesi illuministica della filosofia giuridica e politica di Hegel, Padova, CEDAM, 1958]e più tardi, nel 1962, tradurrà di Hegel, per Laterza, gli scritti di filosofia del diritto. [G. W. F. Hegel, Scritti di filosofia del diritto (1802-1803), a cura di Antonio Negri, Bari, Laterza, 1962]. Toni studia il giovane Hegel – e a questo si limita, quasi gli fosse già insostenibile il concetto di dialettica – come repubblicano e come illuminista; studia la risemantizzazione hegeliana delle caratteristiche progressive del «Volk» nelle funzioni storiogenetiche e rivoluzionarie della «Arbeit». Assegna in particolare rilevanza agli anni di formazione di Hegel, Schelling e Hölderlin allo Stift di Tübingen. Il giovane Hegel ed i suoi sodali lavorano sulla traccia della Rivoluzione francese come rottura con l’idea metafisica della filosofia: il compito del pensiero è l’interpretazione del presente e accettare, portandola avanti, la scommessa politica dell’Illuminismo; quello che Negri chiama il rinnovamento dell’ideale umanistico «in forma attuale e giuridica». In questione, nel democraticismo radicale del giovane Hegel, sono la plasticità e la creatività degli affetti: «libertà e amore» come spinte disindividualizzanti e come forze comunitarie coesive. È all’interno di questa serie argomentativa che va collocata la reiterata messa in rilievo, da parte di Negri (lo farà ancora in Fabbriche del soggetto, il libro del 1987) dello Ältestes Systemprogramm des deutschen Idealismus. Non soltanto per ciò che egli avrà modo di dirne retrospettivamente – la rivelazione della natura esclusivamente macchinica dello Stato e la necessità del suo superamento come motore della sua intera indagine sul diritto e sulla costituzione –, ma anche per la conquista del campo di immanenza all’interno del quale scommettere sull’esaurirsi dell’opposizione tra storia e ragione, essere e dover essere, teoria e prassi. È su questo terreno, che non indicizza allo Stato l’organizzazione costituzionale della libertà, che Hegel e i suoi sodali installano l’esigenza di una «nuova mitologia rivoluzionaria» in grado di tradurre l’istanza etico-politica che li muove.

Nel 1962 esce per Laterza la traduzione degli hegeliani Scritti di filosofia del diritto e Negri dà alle stampe il suo studio sul formalismo giuridico [A. Negri, Alle origini del formalismo giuridico. Studio sul problema della forma in Kant e nei giuristi kantiani tra il 1789 e il 1802, Padova, CEDAM, 1962]. Per redarre quest’ultimo si avvale delle schede e dei volumi lasciati da Adolfo Ravà presso l’Istituto di Filosofia del diritto dell’Università di Padova dove da tempo ha iniziato a lavorare e dei libri presenti nel fondo Martinetti di Torino. I frequenti viaggi a Torino per completare la sua ricerca sono anche l’occasione per stringere le relazioni con Raniero Panzieri e Renato Solmi che lo coinvolgeranno nella redazione dei «Quaderni Rossi» e che lo porteranno al primo studio sistematico di Marx. Potrebbe dirsi allora, che il libro sui giuristi kantiani, per svariati motivi, segna un autentico «point break» della prima fase del lavoro accademico di Negri.

Quella che Negri viene realizzando su Kant e sui giuristi kantiani è una manovra integralmente rivolta contro il neokantismo allora egemonico nella filosofia del diritto italiana. Il Kant prima del kantismo giuridico è il Kant rivoluzionario, il Kant per il quale la volontà è progetto costruttivo finalisticamente tradotto in vettore organizzativo e in dispositivo trascendentale per la futurizzazione dell’esperienza. La «forma» agisce come operatore attivo della mediazione tra teoria e prassi, tra agentività della ragione e costituzione materiale. Questo, almeno, per il Kant illuminista e apologeta della Rivoluzione francese. Perché l’altra faccia di Kant, quella che esprime la «testa di giano del criticismo» [cito] sbalzata dal progressivo ripiegamento sul giusnaturalismo e dalla separazione tra morale e diritto definitivamente approfondita dai giuristi kantiani, già nella Rechtslehre usa del concetto di forma – si esplicita così un autentico «conformismo kantiano», come Toni lo chiama – per ricalcare la materia giuridica e per svolgere una semplice funzione ordinatrice dei nessi storici e delle categorie (indipendenza, proprietà, coazione esterna) che vi si esprimono come effetto dell’imporsi dei processi borghesi di sociazione.

Negri legge Kant e il kantismo giuridico come filosofie della crisi. La Rivoluzione francese rompe la metafisica dell’ordine naturale e manda in pezzi l’antica costituzione europea separando il potere costituente dalle strutture d’antico regime. È questa scissione che Kant cerca di comporre. In una prima fase, quella dell’entusiasmo rivoluzionario, sottolineando il potere «formante» della ragione e la sua anticipazione rispetto alla prassi; nella seconda, cercando di adeguare la positività del diritto agli schemi formali disposti per sussumerli all’ordine razionale. Questa oscillazione, presente nello stesso Kant, caratterizza le differenti sfumature – i molti «fasci problematici», come li chiama Toni, che discendono dalla posizione kantiana del problema – che marcano impiego e significato del termine forma giuridica nella vasta serie di autori che Negri viene studiando nel libro. Se in una prima fase l’istanza razionale dà luogo a direttrici che ne sviluppano il tema in senso liberale o democratico – da un lato lo stato di diritto come forma della libertà borghese, dall’altro il formalismo come anima di un processo di costituzionalizzazione espansiva – è, in una seconda fase, l’«autoconsistenza dell’universo formale del diritto» quella si che viene definendo come categoria di riferimento per sussumere e per rendere coerente, sterilizzandola nella sua potenza istituente, la densa materia degli usi, dei costumi, delle forme di vita.

Dicevo, poco fa, che questo libro, e gli anni che ne accompagnano la stesura, marcano un «point break» nella vita di Negri. Sono, questi, gli anni nei quali egli inizia, nei «Quaderni Rossi», il lavoro di inchiesta operaia e di conricerca nei grandi distretti industriali del Nord. Sono anche gli anni nei quali inizia a studiare «seriamente» Marx. Sono Panzieri e Tronti che gli mostrano la possibilità di ricondurre Marx dalla dogmatica al «punto di vista operaio». Pur non pubblicandoli immediatamente, continua comunque a lavorare ad alcuni saggi nei quali radicalizza alcune delle posizioni espresse nelle conclusioni del libro del 1962. Da un lato il ripiegarsi della modernità giuridica sulla «ragionevole ideologia» dello Stato-macchina [Problemi di storia dello Stato moderno. Francia (1610-1650), «Rivista critica di storia della filosofia», XXII, 1967, fasc. 2, pp. 182-220; Descartes politico o della ragionevole ideologia, Milano, Feltrinelli, 1970], dall’altro le trasformazioni che investono significato e funzione del diritto una volta che l’evoluzione del rapporto di capitale abbia di fatto obliterato le tradizionali formule di garanzia del sistema giuridico.

L’analisi dei dispositivi di statizzazione e di centralizzazione amministrativa e politica posti in essere dalla monarchia mette in rilievo per Toni, contrariamente a quanto si determina nella storiografia, anche la più avvertita, allora in voga, non già la potenza di unificazione dello Stato, quanto la scissione che internamente lo lavora. È in questo senso che diventa possibile a Toni dire, con una felice formula che si troverà a ripetere, che il Discours de la Méthode è l’opera di un secolo. In esso si compendiano le aspirazioni liberate dalla crisi d’ordine rinascimentale e dal seno della borghesia in ascesa, la consapevole autolimitazione della soggettività che consegue dalla sua progressiva disillusione politica, il rifiuto dell’umanesimo e dei suoi valori, un’idea di scientificità prestata allo Stato come titolo per l’impresa di neutralizzazione politica della quale esso dovrà farsi carico. Sovrapporre produttività dell’ideologia e inerzia meccanicistica è il programma del razionalismo cartesiano; la cifra del dualismo tra società e Stato al quale la borghesia affida il proprio successo come classe economica e la propria rinuncia come classe politica. Toni ne ricava non soltanto la tesi qui esposta attraverso la rassegna di una davvero notevole quantità di letteratura filosofica e storiografica, ma anche una precisa indicazione metodologica da farsi valere, oltre il caso di specie, in direzione della storia costituzionale. Non è possibile fare la storia dello Stato moderno senza fare anche la storia della società civile – qui intesa come processo di formazione delle classi sociali, dello scontro degli interessi e del tessersi delle tensioni che lo Stato è chiamato a regolare – così come non è possibile fare la storia della società civile – e cioè: storia della filosofia o storia del diritto – senza riferirla al rapporto permanente che essa mantiene con lo Stato.

Toni redige nel 1964, ma lo pubblicherà solo nel 1977 in La forma stato, l’importante saggio su Il lavoro nella costituzione. Esso sviluppa, credo si possa dire, il secondo aspetto delle conclusioni raggiunte nel libro sul formalismo giuridico.  Ciò che Toni discute in questo saggio è il fondamento laborista della Costituzione del 1948. Esso registra contemporaneamente logica e crisi del positivismo giuridico: da un lato, il fatto che l’unità formale dell’ordinamento prefiguri il proprio sostrato materiale e ne trattenga lo sviluppo negli schemi presupposti dal sistema – di nuovo Hegel e Kant come «numi tutelari» del positivismo giuridico –; dall’altro, la trasformazione che esso subisce nell’ambito della costituzione dello Stato sociale: la trasformazione che impone forme di regolazione che impongono il deformarsi dello schema ordinamentale classico, il debordamento del pubblico sul privato, schemi di gestione–integrazione della forza lavoro nelle quali si esprime l’unificazione del processo di produzione capitalistico.

Ciò che emerge da questa trasformazione è il fatto che la validità del diritto, non più sintetizzata dalla legalità formale dell’ordinamento, si svolge come composizione dinamica di comando e di consenso e come ininterrotta mediazione con le esigenze dello sviluppo: l’organizzazione giuridica esce dal suo assetto tradizionale e tende a ricoprire produttivamente l’intero spazio sociale, integrando e subordinando i rapporti di classe. Assumendo il conflitto a propulsore e traino del proprio movimento, il processo di giuridificazione dello Stato-piano, nel quale la distinzione tra pubblico e privato, costituzione politica e costituzione economica, viene di fatto decostruendosi, si trova però anche costretto a riconoscere, esattamente sul punto di giunzione tra l’estensione dei propri apparati di comando e il conflitto sociale, che è propriamente quest’ultimo, che sono la diffusione e lo sviluppo delle lotte che percorrono e che tengono in costante tensione il rapporto di capitale, ad esercitare il ruolo trainante. Il costituzionalismo si rivela pertanto essere pura «transazione» esattamente nella misura in cui rivela la sua impossibilità di eccepire il ciclo che ne garantisce l’espansione sul terreno sociale, mentre la sua natura transattiva tradisce il contenuto politico del suo lavoro di organizzazione: ribadire il limite al quale la soggettività operaia deve essere trattenuta.

È noto che per Toni, da tempo pervenuto a riconoscere, marxianamente, la potenza soggettiva del lavoro vivo e la sua incontenibilità negli schemi dell’imbrigliamento giuridico e formale del compromesso fordista, il recinto della costituzione, così come l’intera tradizione giusfilosofica che lo utilizza come fondamento normativo, vadano eccepiti e trattati come forme ideologiche volte a celare il dominio. 

Lo Stato-piano, che corrisponde alla fase di piena sussunzione formale del lavoro al capitale, svolge il compito transattivo che gli compete fissando da un lato tutta l’integrazione, dall’altro tutta la subordinazione, finendo con il dispiegare sino in fondo l’antinomia che esso cerca di risolvere. E questo implica la non saturabilità dell’antagonismo in termini transazionali, la caduta dell’illusione di riassorbire il politico nel giuridico e, con questo, la fine del progetto di fare del diritto la vera scienza politica. Quanto più l’illusione formale costruisce modelli atti a inglobare, a integrare e mediare, e si ridetermina in modo processuale, tanto più per Toni [cito] il «politico si libera di ogni impedimento giuridico e alla totalità del diritto risponde con la totalità della forza». Costituzione e democrazia, qui intesa come democrazia radicale, come potere costituente, come immediata, autonoma normatività, si scindono in modo irrecuperabile e Negri si vedrà costretto a inaugurare tutt’altra fase della sua vita e della sua ricerca. L’extraterritorialità della forza, della «Gewalt», rispetto al terreno giuridico è un fatto acclarato nella tradizione degli oppressi.

I pubblici ministeri non lo terranno, però, in conto.

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