di MARCO BASCETTA.

Che il «reddito di cittadinanza» pensato dai Cinque Stelle si trovasse agli antipodi da ogni ragionamento che, prendendo atto delle trasformazioni produttive, dell’intermittenza e della contrazione del lavoro intendeva fronteggiarne razionalmente le conseguenze sociali, era evidente fin da subito. Ma che alla fine si rivelasse un puro e semplice strumento di assoggettamento disciplinare, un vero e proprio «reddito di sudditanza», non era del tutto scontato. Senza risparmiarci neanche la puntigliosa e paradossale messa a punto delle sanzioni da applicare a chi infrangesse le regole di un sistema ancora ampiamente indefinito. Lo Stato insomma si arroga il diritto di dettare regole di vita e di comportamento in modo del tutto arbitrario, seguendo una antica tradizione che impone ai poveri umiltà, obbedienza e riconoscenza.

Su quattro conseguenze inquietanti converrà, tuttavia, porre ulteriore attenzione. La prima è che una volta introdotto il principio che una prestazione sociale debba essere subordinata alla patente di moralità rilasciata dalla burocrazia, allora, per fare l’esempio più diretto, anche il servizio sanitario potrebbe essere negato a chi giudicato colpevole di una vita sregolata. E così una borsa di studio (magari lo studente ci compra anche il tabacco) o una qualunque altra sovvenzione. La seconda è l’ulteriore legittimazione del lavoro gratuito che già ha raggiunto nel nostro paese (spesso in sostituzione di quello retribuito) una indecente estensione. È noto fin dai tempi degli Ateliers nationaux, passando per i «lavori socialmente utili», quanto le corvées imposte dal potere costituito siano state improduttive, costose e umilianti. Lo scopo a cui mirano non è infatti generare ricchezza o competenza, ma impedire che si scelga la propria attività liberamente e su base volontaria.

La terza è una superfetazione degli apparati di controllo, ben più onerosi delle infrazioni che sono incaricati di perseguire. Una caricatura scalcinata della Stasi alle prese con Le vite degli altri interpretata dalla Guardia di finanza a caccia di consumatori «immorali».
La quarta è l’annuncio per cui, una volta trovato un lavoro, il beneficiario del sussidio di povertà chiamato «di cittadinanza» dovrà cederlo all’impresa che l’ha assunto. Non è un «reddito», ma un incentivo ai padroni. Di questa impostazione poliziesca del «rinnovamento» il reddito di sudditanza è solo un tassello. Proviamo allora ad affiancargli altre scelte politiche che muovono nella stessa direzione. Aver affidato a un fondamentalista cattolico come Fontana il ministero della famiglia è certamente un passo verso l’imposizione dall’alto di una regola morale. Stesso segno la proposta di reintrodurre il voto di condotta nelle scuole elementari o la leva obbligatoria per abituare i giovani alla disciplina. Lo stato si fa custode e promotore della virtù e fustigatore del vizio come l’omonimo corpo di polizia iraniano. Ed è non a caso per le forze dell’ordine, non per la sanità, l’istruzione, la protezione civile o i beni culturali, che il governo annuncia diecimila assunzioni. Con coerenza la politica del «rinnovamento» muove verso una trasformazione autoritaria dello stato. Per chi non lo avesse capito la macchina della repressione si è già messa in moto. A partire dalla persecuzione di quanti agiscono per la protezione dei migranti.

Forse solo un movimento antiautoritario consapevole della posta oggi in gioco potrebbe costituire un anticorpo contro queste politiche. Le migliaia di giovani che si sono spontaneamente radunati nelle università e nelle piazze di molte città d’Italia per assistere al film sugli ultimi giorni di Stefano Cucchi, costituiscono più che un indizio delle dimensioni che il rifiuto dell’arbitrio e della violenza di stato potrebbe raggiungere. Il rifiuto di un potere che anche contro ogni evidenza esige di far prevalere sempre e comunque la propria ragione e l’impunità dei suoi «servitori». Da qui converrebbe cominciare, da dove i partiti, tutti i partiti, non possono mettere mano perché in un modo o nell’altro compromessi con i tratti autoritari che abbiamo cercato di mettere in luce. Perché tutti ideologicamente avvinghiati al proprio modello di virtù. Gli uni preoccupati delle implicazioni «borghesi» della libertà, gli altri di quelle «anarchiche».

All’antiautoritarismo si è spesso imputato di trascurare i diritti collettivi a favore delle libertà individuali. Si tratta di una calunnia bipartisan: la contestazione dell’autorità e del suo impianto disciplinare ha sempre investito meglio e prima di partiti e sindacati le gerarchie del lavoro, gli strumenti di ricatto, la riconversione aziendalistica di ogni dimensione sociale, l’imperativo della competitività.

questo testo è stato pubblicato sul manifesto del 13 ottobre 2018

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