Di BENEDETTO VECCHI.

Con la sua morte scompare uno dei nomi più noti di un ristretto ma agguerrito gruppo di studiosi compositi – economisti, etnografi, sociologi, antropologi – che tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta del Novecento innovarono profondamente l’analisi marxiana del capitalismo mondiale. Oltre a lui, c’erano Giovanni Arrighi, André Gunder-Frank, Samir Amin. Ma Immanuel Wallerstein aveva già alle spalle analisi e riflessioni su un mondo uscito dalla seconda guerra mondiale profondamente trasformato.

CAMBIATE ERANO le geografie del potere mondiale. L’impero britannico era già diventato un ricordo del passato e l’egemonia era ormai prerogativa degli Stati Uniti, paese dove Wallerstein viveva e lavorava. C’era poi stata l’indipendenza dell’India, una nazione che voleva intraprendere una via allo sviluppo economico diversa sia da quella capitalista che da quello sovietico. L’India indipendente era uno spazio economico e politico grande come un continente. Popoloso certo, con una struttura sociale più comparabile a quella del vicino cinese che non a un paese europeo o agli Stati Uniti. E con molte materie prime.
In uno scritto agli inizi del Duemila Wallerstein ha indicato proprio l’indipendenza indiana come un «evento» che determinò la prima, significativa variazione nella traiettoria accademica e intellettuale di un giovane antropologo, studioso di economia.
Ce ne saranno altre, ma per il momento Wallerstein si concentra su cosa sia cambiato nel mondo. L’oggetto sul quale applica la sua riflessione è sempre l’imperialismo. Legge ovviamente Lenin, ma soprattutto fa sue le analisi sulle dinamiche definite nel capitalismo finanziario di Rudolf Hilferding. Si convince che ciò che sta accadendo è una ridefinizione su scala planetaria dei meccanismi che possono garantire uno sviluppo capitalistico in una realtà sempre più interdipendente ma scossa e messa in discussione dai movimenti di liberazione nazionale.

Per Wallerstein, la decolonizzazione offre la possibilità concreta di un superamento delle aporie e delle contraddizioni paralizzanti del socialismo made in Urss. Ed è in questo frangente che entra in rapporto con Giovanni Arrighi e André Gunter Frank. Il primo è un economista marxista italiano che usa le analisi di Antonio Gramsci per spiegare la complessa trama dell’egemonia capitalista nel mondo. L’altro è un marxista tedesco in odore di ortodossia ma che contribuirà non poco alla teoria della scambio ineguale nell’economia mondo.
Wallerstein racconterà l’incontro con Arrighi, ma anche con gli altri marxisti del sottosviluppo, come verranno sbrigativamente liquidati, in un lungo saggio autobiografico contenuto nel volume Alla scoperta del sistema-mondo(manifestolibri, 2003). Già in quel frangente – siamo negli anni Settanta – rintraccia tutti gli elementi che comporranno il suo affresco sull’economia mondiale.

L’IMPERIALISMO, ovviamente, che ha cambiato la mappa dell’economia mondiale, producendo una realtà non sempre controllabile dei paesi egemoni; l’emergere di una composizione delle classi sociali difficile da ricondurre alla stratificazione dei paesi sviluppati; i contadini e i non salariati «subalterni» sono maggioranza nei paesi impegnanti nella decolonizzazione e nei paesi che hanno intrapreso politiche di sviluppo non industriale; il consolidarsi di un «sistema di relazioni interstatali» che prefigura una divisione internazionale e funzionale del lavoro.
Wallerstein comincerà a parlare di sistema-mondo, espressione che segnala la formalizzazione concettuale della forma assunta dall’economia mondiale nonché l’incontro con la teoria dei sistemi e soprattutto le tesi di Fernand Braudel, uno storico dell’economia che da quel momento in poi sarà fondamentale per Immanuel Wallerstein. In questo contesto Fernand Braudel può essere considerato lo storico della prima globalizzazione, quella che nel sedicesimo secolo coinvolge il Mediterraneo. Nel Novecento della decolonizzazione significa la stratificazione dell’economia mondiale in paesi centrali, semiperiferici e periferici. E se per Braudel è fondamentale il concetto di economia-mondo, per Wallerstein è essenziale affiancargli il concetto di sistema-mondo, indicando così gli stati nazionali come soggetto politico fondamentale nel definire le strategie locali e internazionali di ogni singolo paese.

Il lavoro di ricerca di Wallerstein si consoliderà in tre volumi pubblicati da Il Mulino in Italia, salutati come una sorta di appendice del Capitale di Marx o dell’Imperialismo di Lenin. Giustamente Wallerstein sosterrà che i tre tomi de Il sistema mondiale dell’economia moderna – pubblicati tra il 1978 e il 1995 – non sono una appendice né dell’uno né dell’altro. Semmai, sono da leggere come materiali preparatori, preliminari di una critica dell’economia politica che richiede un contributo collettivo di studiosi provenienti da campi disciplinari differenti. Ed è in questa direzione che negli anni Novanta prende la direzione del Fernand Braudel Center, dove chiama a lavorare e a discutere decine, centinaia di studiosi nel corso del tempo.

È ORMAI UN DOCENTE affermato, ha insegnato nelle maggiori università statunitensi e il suo nome spicca tra quelli della Columbia e di altri atenei della Ivy League (i circoli dell’eccellenza), ma è sempre un intellettuale militante che mantiene una stretta corrispondenza con altri militanti di base e leader politici nazionali (cubani, cinesi, africani, asiatici) in odore di eresia rispetto al punto di vista dominante. In questo periodo, intensifica i suoi rapporti con Giovanni Arrighi che, nel frattempo, si è trasferito definitivamente a New York negli Stati Uniti, città dove Wallerstein insegna. Mantiene forti rapporti con Samir Amin, anche se i percorsi di ricerca tenderanno a inoltrarsi su sentieri differenti e si rafforza il legame intellettuale con Terence Hopkins, marxista ispiratore di un programma di ricerca che avrà un primo (e purtroppo unico) appuntamento nel volume sui movimenti antisistema (in Italia è stato pubblicato da manifestolibri con il titolo Antisystemic movements, 2000).
Nel volume Wallerstein, Arrighi e Hopkins sostengono che nell’economia del mondo capitalista agiscono movimenti sociali che hanno la capacità e il potere di condizionare, modificare, contrastare le strategie imperialiste. Dalle rivoluzioni nazionali del 1848 al Sessantotto vi sono movimenti che hanno avuto un riflesso nazionale ma che sono da considerare delle rivoluzioni mondiali più o meno di successo. Una tesi che Wallerstein continuerà a proporre e approfondire dopo la deflagrazione del socialismo reale, verso il quale non nutrirà mai nessun tipo di nostalgia, e durante la stagione del movimento noglobal.

Ma accanto al ruolo dei movimenti antisistema, Wallerstein sviluppa una importante riflessione sulla natura storica del capitalismo che condenserà nel breve ma denso saggio Il capitalismo storico (Einaudi, 1985), dove sviluppa il concetto di catena del valore per indicare come le imprese di un settore debbano attivare una rete produttiva sovranazionale, coinvolgendo in un rapporto di subalternità e gerarchico altre imprese di altri paesi. Sembra di leggere un manuale della seconda globalizzazione, quella che con la crisi del keynesismo prende forma nella sua veste neoliberista.
Immanuel Wallerstein continua a macerare testi per affinare, precisare, mettere a fuoco nodi irrisolti e tendenze in atto nel capitalismo mondiale. Rilevante è, ad esempio, il libro scritto con Etienne Balibar su Razza, Nazione, Classe. Le identità ambigue (edizioni Associate, 1991), nel quale i due studiosi affrontano il tema del razzismo e dell’identità di classe in un mondo che prevede la permanente scomposizione e ricomposizione delle classi sociali. Affronta certo il tema del neoliberismo, ma respinge con forza le tesi di Impero sviluppate da Toni Negri e Michael Hardt perché respinge con forza l’idea della fine dello stato-nazione. Una posizione di contrasto che sarà articolata e precisata allorquando è evidente di una riconfigurazione della sovranità nazionale come elemento subordinato a sovranità sovrananzionali.

DURANTE L’ESPERIENZA dei Forum sociale di Porto Alegre e di quelli continentali, l’opera di Wallerstein viene letta con rinnovata curiosità. Ne viene valorizzata la parte relativa alla possibilità di modelli di sviluppo non obbligati, più corrispondenti alle specificità locali, anche se sarà lo stesso Wallerstein a invitare alla cautela sulla possibilità di una «deglobalizzazione», perché lo «sganciamento» dall’economia mondiale di un paese può essere perseguito solo all’interno di un progetto comune teso a costruire un altro sistema-mondo.
Spende parole generose verso il cosiddetto «rinascimento latinoamericano», ma non nasconde i limiti di alcune esperienze nazionali come quelle argentine, cilene e ecuadoriane del primo decennio degli anni duemila. Continua a tessere la sua rete intellettuale attraverso il Fernand Braudel Center, invitando teorici e militanti europei, statunitensi e asiatici, come ad esempio Walden Bello, Naomi Klein, David Harvey e Yann Moulier Boutang.
Immanuel Wallerstein è stata una figura importante del pensiero critico mondiale. Ha scritto cose rilevanti nella critica dell’economia politica mondiale. Figlio del Novecento, certo, ma con la curiosità di misurarsi sempre con ciò che era inatteso, imprevisto. La sua è una eredità che va ripresa. E messa a valore, cioè al lavoro dentro una prassi teorico-politica non addomesticata e piegata solipsisticamente sul presente.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 3 settembre 2019.

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