Presentiamo qui gli articoli che compongono il Quaderno di EuroNomade dedicato al Contropotere. Il Quaderno può essere scaricato cliccando qui o sull’immagine di copertina in calce.


Di SANDRO CHIGNOLA e SANDRO MEZZADRA

1. È bene dichiarare fin dall’inizio lo sfondo e l’obiettivo di questo articolo. Siamo convinti che il concetto di contropotere risulti oggi particolarmente attuale per comprendere le poste in palio nell’azione politica dei più significativi movimenti sociali e nello sviluppo delle lotte più innovative. Questo vale sia a livello globale (nel grande ciclo di sollevazioni che, pur profondamente diverse tra loro, nel 2019 hanno infiammato Hong Kong e l’America Latina, l’Algeria, il Libano e l’Iraq), sia in Europa (in particolare nella nuova stagione delle lotte di classe in Francia) e in Italia. La formazione e l’esercizio di un altro potere costituiscono ad esempio tema fondamentale tanto nelle mobilitazioni femministe quanto in quelle ecologiste. I movimenti e le lotte dei e delle migranti alludono pervicacemente all’affermazione di un potere collettivo che consenta di restare, di abitare spazi in cui la legittimità della loro presenza è messa in discussione. Per venire più specificamente all’Italia, gli spazi sociali, intesi nel senso più ampio del termine, sono eterogenee manifestazioni di un potere altro nel cuore delle città, parte di più ampi movimenti per il “diritto alla città” che riescono non di rado a condizionare lo stesso agire amministrativo. Nelle scuole e più in generale nei servizi pubblici, processi di auto-organizzazione affermano istanze di reale autonomia, collegate a un “sapere e potere fare” che ricade sulla società nel suo complesso. Le lotte sul lavoro, nella crisi dei modelli consolidati di relazioni sindacali, pongono immediatamente il problema del potere – nella logistica come in agricoltura, nell’auto-organizzazione dei rider come nei servizi.

Quelle appena proposte sono certo esemplificazioni eterogenee e disparate, apparentemente difficili da ricondurre alla sintesi di un concetto impegnativo, come quello di contropotere. Nella nostra tradizione, del resto, quel concetto è strettamente legato all’azione dei movimenti autonomi degli anni Settanta in Italia e in Europa (ma anche altrove: si pensi alle Pantere nere negli Stati Uniti, o alla guerriglia di fabbrica in Argentina in quello stesso periodo, per fare soltanto due esempi particolarmente significativi). In quel contesto il contropotere assumeva caratteri specifici, era in particolare immediatamente associato all’uso della forza. Non crediamo che quella storia non abbia più nulla da dirci: ma il concetto di contropotere di cui abbiamo bisogno oggi non può neppure essere ricalcato unilateralmente su di essa. Deve fare tesoro della molteplicità di significati e di usi che contraddistinguono il concetto stesso, deve articolarsi sul ritmo delle lotte e dei movimenti che abbiamo sinteticamente richiamato – fino a conquistare quell’efficacia che gli consente di coglierne alcuni tratti salienti e di rilanciarli politicamente in avanti.

Una cosa è certa. Per noi il concetto di contropotere acquisisce il suo pieno significato nella misura in cui si riferisce a una divisione del potere. Nella misura in cui, cioè, contesta il “monopolio della forza fisica legittima” e ci invita a pensare la politica oltre lo Stato e oltre la sovranità. Come cercheremo di mostrare nella parte conclusiva dell’articolo, questo richiede un ripensamento complessivo della stessa nozione di potere – nonché di questioni politicamente decisive come ad esempio la distinzione tra riforma e rivoluzione. Prima di affrontare, sia pure in modo necessariamente preliminare, questo compito, è tuttavia necessario ripercorrere, con piglio genealogico, la storia del concetto di contropotere, o meglio della sua problematica, al di là dell’uso esplicito del termine, per fare emergere almeno i più significativi tra i suoi molteplici significati.  

2. Abbiamo appena richiamato il tema della divisione del potere. È chiaro che con questo non intendiamo porre la questione nel quadro che tradizionalmente la dà per risolta nel sistema degli equilibri costituzionali. Per noi, la stessa nozione di “costituzione” risulta quantomeno problematica una volta esauritasi, con il compromesso fordista novecentesco, la spinta propulsiva che ha trainato il processo di riconoscimento e di giuridificazione dei diritti sociali e del lavoro. Il moderno costituzionalismo borghese la lavorato a lungo, e conseguendo risultati significativi sul piano della sua realizzazione concreta, a una transazione tra poteri basati sulla forza e procedure del diritto. Sin dagli esordi della storia costituzionale occidentale il problema che si è posto è stato infatti quello dell’imbrigliamento e della reciproca neutralizzazione, in un sistema di rapporti volti all’equilibrio, dei vettori in cui si scompone il fatto di dominio. Charles McIlwain Costituzionalismo antico e moderno), del resto, ebbe modo di scrivere come la storia costituzionale sia stata sempre la registrazione di un’“oscillazione”: talvolta il processo di rivendicazione e di successivo riconoscimento di diritti, talvolta il processo di consolidamento del potere di fronte alla crisi o al rischio di anarchia. 

La costituzione è stata il mezzo in cui bilanciare quell’oscillazione realizzando la reciproca neutralizzazione di poteri e contropoteri per mezzo della scomposizione delle tecnologie di esercizio e delle aree di competenza di ciascuno di essi. È così che il potere di fare la legge, quello che la rende esecutiva e quello che dei primi due riconosce legittimità e limiti di espansione sono stati messi in reciproco equilibrio. Il movimento meccanico della costituzione, come quello di un orologio, lavora al contenimento giurisdizionale delle prerogative del sovrano e all’integrazione delle spinte sociali nella dinamica dell’ordinamento. Il potere arresta il potere. E, nel quadro complessivo della moderna organizzazione costituzionale dei poteri, il movimento di tutti e di ciascuno di essi porta all’atto, come sintesi effettuale della stessa, l’unità della sovrana volontà del popolo.

3. È un passaggio, questo, che non riteniamo si possa dare per scontato. Prima, durante e oltre la moderna configurazione giuridico-costituzionale dei poteri, altri processi si sono materialmente determinati come eccedenti la risposta che essa intende offrire al problema politico. Agli albori della storia costituzionale è il dualismo tra principi e ceti – e in particolare: la irriducibile resistenza che i secondi, come materiali rappresentati di città, universitates e territori, offrono ai primi – a trainare i processi di codificazione delle prime “carte” costituzionali.  Machiavelli, e con lui la tradizione repubblicana che rilegge le fonti storiche romane, assegna un particolare valore al dualismo: i “tumulti” tra i patrizi e la plebe sono la prima “cagione” della libertà di Roma e producono “buoni effetti” proprio perché mantengono in presenza i differenti “umori” – e cioè: il diagramma di forze – che esprime la tensione costituente dello spazio cittadino. La Rivoluzione francese, il cui processo costituzionale lavora pressoché da subito all’esorcismo del potere costituente che pure la mette in movimento, conosce nella fase giacobina lo sforzo consapevole di rinunciare al principio della separazione dei poteri, dato che la volontà del popolo non può essere divisa, e di ingranare un virtuoso dispositivo di politicizzazione di istituzioni e società popolari in grado di contrapporsi alle comunque sempre possibili degenerazioni del governo. Per questo, nella parte di documentazione che abbiamo realizzato per questo quaderno, abbiamo deciso di antologizzare anche un testo di Saint Just. Moltiplicare le istituzioni e riconoscere, anche a livello costituzionale, il diritto all’insurrezione, significa per i giacobini porre in atto rimedi contro la corruzione e sancire la necessità politica di una rete di contropoteri diffusa nel corpo sociale, che si sforzi di conservare virtuosamente, nell’immanenza del rapporto politico, l’energia costituente – e cioè: la costante soggettivazione – dei governati, senza darla per esaurita nel sistema dei poteri costituiti.­ Non si tratta di una storia minoritaria o perdente. L’altra modernità, quella di cui è qui questione, quella non esaurita nella fictio rappresentativa di un popolo sovrano astratto e dematerializzato nell’incantamento della propria unità, unità che è anche e soprattutto quella dello Stato, torna del resto come progetto di democrazia assoluta all’altezza della Comune parigina o delle prime fasi della Rivoluzione bolscevica.

4. In quest’altra modernità il contropotere è stato spesso inteso come arma dei dominati e degli sfruttati. Volendo seguire le tracce di questa accezione del contropotere, non è bene del resto rimanere sul suolo europeo. Vale piuttosto la pena di seguire anche a questo proposito l’indicazione di W.E.B. Du Bois, che nel 1946 (in The World and Africa) scriveva: «le rivolte degli schiavi rappresentano l’inizio della lotta rivoluzionaria per l’emancipazione delle masse lavoratrici nel mondo moderno». Spostando lo sguardo verso la storia della schiavitù atlantica, proprio le rivolte degli schiavi appaiono particolarmente importanti dal nostro punto di vista perché danno espressione a quel potere degli schiavi che, esercitato in forma autonoma, disvela la minaccia sotto cui si è sviluppato l’intero regime schiavistico. Il rifiuto della schiavitù ha del resto assunto molte forme – dal sabotaggio del sistema di piantagione alla fuga. E nelle Americhe (nelle “Indie occidentali” e in Paesi come la Colombia e il Brasile, in particolare) la fuga ha nutrito la formazione di comunità di schiavi fuggiaschi (i maroons) che si sono organizzate attraverso vere e proprie istituzioni indipendenti e autonome, a loro volta capaci di esercitare una minaccia per la continuità del sistema schiavistico nonché per specifici regimi coloniali e postcoloniali di dominazione (tema al centro delle pagine di C.L.R. James che abbiamo inserito tra i materiali di questo quaderno).

Più in generale, la storia dell’espansione coloniale europea è punteggiata da pratiche di resistenza e di insorgenza che assumono la forma della costruzione delle basi e di un esercizio del contropotere. Dal Messico alle regioni andine, la dominazione spagnola ha dovuto fare i conti con la continuità di un processo di auto-organizzazione comunarda delle popolazioni indigene che non ha mai cessato di affermare la propria alterità e irriducibilità alle istituzioni coloniali. Se questo processo è talvolta sfociato in grandi movimenti insurrezionali (come quelli guidati da Túpac Amaru e da Túpaj Katari negli anni Ottanta del Settecento), quel che qui ci interessa mettere in evidenza è da una parte la forma della comune come principio organizzativo della resistenza, dall’altra il consolidamento nel tempo di un potere “altro”, che anche in questo caso costituisce un’essenziale minaccia per la stabilità del dominio. In questi termini, il contropotere appare un elemento che contraddistingue la resistenza anticoloniale nel suo complesso. Come hanno in particolare sottolineato i primi volumi dei Subaltern studies, la stessa storia dell’“India britannica” ha registrato la continua presenza di uno “spazio autonomo” della “politica subalterna” che ha costruito le basi di un potere in grado di influenzare in profondità, attraverso la latenza della sua minaccia, gli stessi sviluppi istituzionali del dominio coloniale.

5. Resta da considerare, per concludere questa rapida esplorazione genealogica del campo del contropotere, il modo in cui questa categoria è stata messa a tema all’interno del marxismo. Le opere di Marx sono da questo punto di vista estremamente ricche, e varrebbe la pena di passare in rassegna i diversi registri della sua riflessione che incrociano la nostra problematica – dalla descrizione “anatomo-politica” delle condizioni di formazione del potere proletario negli scritti sul ’48 e sulla Comune di Parigi all’analisi del modo in cui l’“operaio collettivo” accumula ed esercita un potere contrapposto al comando di fabbrica nel Capitale. Per i nostri fini, tuttavia, è essenziale segnalare la grande innovazione determinata nella teoria politica (e nella pratica rivoluzionaria) marxista dalla formulazione da parte di Lenin del tema del “dualismo del potere”. È noto che Lenin, nell’aprile del 1917, vedeva nell’aver creato un essenziale “dualismo del potere” un aspetto “particolarmente originale” della Rivoluzione russa. Accanto al Governo provvisorio (il “potere della borghesia”) si era infatti costituito «un altro governo, ancora debole, embrionale, ma in via di sviluppo: i Soviet dei deputati degli operai e dei soldati». Direttamente fondato sull’«iniziativa immediata, dal basso, delle masse popolari, e non sulla legge emanata dal potere statale centralizzato» (Sul dualismo del potere), questo secondo potere si distingueva dal primo per la sua origine e per la sua legittimazione, per la sua composizione di classe e per la sua peculiare forma istituzionale – il soviet.

Questa teoria del “dualismo del potere” (che è a tutti gli effetti una teoria del contropotere) costituisce un’arma forgiata da Lenin nel pieno della rivoluzione. Quel che la caratterizza è l’enfasi sul fatto che il dualismo del potere costituisce un’anomalia, indica una situazione di crisi che deve essere risolta. Anche Trotzky, che nella sua Storia della Rivoluzione russa propose una generalizzazione del dualismo come chiave intendere la dinamica rivoluzionaria ben al di là della peculiare situazione russa, scriveva che «il frazionamento del potere non è che un preannuncio di guerra civile». Nella politica di Lenin, nel 1917, il dualismo del potere rinviava immediatamente alla necessità dell’insurrezione, che vi avrebbe dovuto porre fine. Il dualismo ebbe così vita brevissima, e l’Ottobre inaugurò un nuovo scenario, in cui semmai il problema (violentemente liquidato con l’ascesa di Stalin) sarebbe stato quello di come mantenere spazi di autonomia e di contropotere all’interno dell’assetto istituzionale sovietico. La problematica del dualismo del potere, in ogni caso, rimane aperta anche al di là della soluzione insurrezionale che si determinò in Russia. In altre condizioni e in altri processi rivoluzionari ci troviamo di fronte a esperienze diverse – ad esempio in Messico, dove le pratiche di autogoverno e riforma agraria dal basso convissero a lungo in modo più o meno conflittuale con le diverse ipotesi di stabilizzazione istituzionale, oppure in Cina, dove il dualismo di “potere bianco” e “potere rosso” caratterizzò per almeno un ventennio la “guerra di lunga durata” (le pagine di Mao inserite tra i materiali di questo quaderno documentano questa fondamentale esperienza rivoluzionaria). In un’esperienza che potremmo definire di riformismo radicale, ovvero nell’“austromarxismo” all’indomani della Prima guerra mondiale, si può d’altra parte vedere il tentativo di governare il dualismo del potere attraverso sofisticate architetture sociali e istituzionali a fronte di quello che era definito uno «stato di equilibrio delle forze di classe».

6. Sono certo assai disparate le storie e le prospettive teoriche attraverso cui si è mossa la nostra rapida ricostruzione. Più che di un concetto – raro è l’uso del termine contropotere – abbiamo cercato di delineare la formazione di un campo e di una problematica. Muovendo dalla registrazione della centralità della nozione di contropotere nell’orizzonte del costituzionalismo (“il potere arresta il potere”), abbiamo fatto emergere alcuni caratteri fondamentali di un diverso modo di intendere il contropotere. Riassumiamoli rapidamente. Dall’interno di quella che chiamiamo l’altra modernità, il contropotere si mostra strettamente legato a una politica dei tumulti, mentre nella prima fase della Rivoluzione francese incalza il governo all’interno di processi di politicizzazione che aprono continuamente nuovi spazi per l’azione (che già i sanculotti qualificano come azione dei dominati e degli sfruttati). Nella storia della schiavitù atlantica e del colonialismo, il contropotere ha prima di tutto il carattere di una continua minaccia, e si collega alla forma della comune rivendicando la propria autonomia. Nel marxismo, il dualismo del potere emerge come teoria della rottura dell’unità sovrana e pone il problema dei caratteri distintivi del “secondo potere” su cui si incardina politicamente l’“arte dell’insurrezione”.

Gli elementi che abbiamo raccolto sono quelli che ci sembrano rilevanti per impostare il problema del contropotere all’altezza delle sfide del presente. Imponenti processi di decostituzionalizzazione e di desovranizzazione del comando hanno risposto al contropotere effettuale che altrettanto imponenti processi di soggettivazione di classe erano riusciti a imporre su scala globale nella prima metà degli anni ’70 del secolo scorso.  Di un Potere è difficile poter parlare perché molteplici e singolari dispositivi di potere si sono disseminati su altrettanto differenziati e singolari (giuridici, amministrativi, economici) livelli e campi di esercizio. Al loro interno, ed è qui che quei dispositivi dispiegano la loro efficacia, si è contemporaneamente determinata la scomposizione e la frammentazione dei quadri della cittadinanza e, con esse, la possibilità di adire o di attraversare soggettivamente lo spazio di tensione che essi avevano tradizionalmente determinato. Con il Sovrano, è il Popolo che scompare. L’Uno – il popolo sovrano che si autodetermina nella Costituzione – si è di nuovo diviso in Due. Ed è per questo che la figura di un contropotere dei governati, un contropotere tumultuoso, differenziato e molteplice, che minaccia e che incalza il potere inceppandolo e costringendo a una continua riconfigurazione all’interno dei molteplici, stratificati e singolari alvei del suo scorrimento, torna di attualità.

Come già si è detto, sono molte le esemplificazioni contemporanee di questo contropotere che si potrebbero richiamare – dal “potere di veto” esercitato dai movimenti sociali in America Latina dentro e oltre il ciclo dei “governi progressisti” alla convergenza di attori istituzionali ed eterogenee coalizioni sociali (sostenute dal protagonismo migrante) che sostiene le “città santuario” in Nord America; dalla continua mobilitazione dei Gilets jaunes in Francia, che giunge a investire e a rinnovare radicalmente la stessa azione sindacale all’esercizio diretto di un autonomo potere da parte del movimento femminista laddove assume oggi caratteri di massa (come in Argentina, in Cile, in Spagna e in Italia). Nessuno di questi esempi si presta ad essere assunto come “modello”, ma ciascuno di essi (e dei molti altri che si potrebbero menzionare) contribuisce a determinare e ad arricchire la nozione di contropotere. Accanto a esempi di contropotere “istituito” (le “città santuario”), la fenomenologia contemporanea delle lotte ci presenta molteplici casi in cui il contropotere è esercitato nella dimensione sociale, secondo una scala di intensità e di organizzazione dei movimenti che andrebbe ulteriormente precisata.

Alcune linee generali di lavoro teorico attorno alla categoria di contropotere possono comunque essere indicate. Assumendo il quadro di divisione del potere che abbiamo sinteticamente richiamato, occorre in primo luogo sottolineare che il “dualismo del potere” mantiene certo oggi la propria validità ma sembra essere tramontata la prospettiva dell’insurrezione che a esso era collegata nella formulazione di Lenin. Si tratta piuttosto di lavorare attorno all’ipotesi di una stabilizzazione del dualismo di potere. Ed è all’interno di questa ipotesi che si riapre tanto il problema (in fondo costituzionale) del riconoscimento di questo dualismo (e dunque della regolazione del rapporto tra i due poteri), quanto quello dell’interna articolazione dell’eterogeneo insieme delle istanze in cui trova espressione il contropotere. Dal primo punto di vista, il dialogo con le correnti più avanzate del costituzionalismo democratico e  “societario” risulta particolarmente importante, nella prospettiva di consolidare all’interno degli stessi spazi costituzionali istanze di autonomia e indipendenza. Dal secondo punto di vista, occorre riprendere la riflessione sulle “istituzioni del comune” e avanzare verso la definizione dei tratti fondamentali di un potere che deve essere “altro” non solo in quanto indipendente dal potere che fronteggia ma anche in quanto qualitativamente diverso. La riflessione femminista sul potere è qui particolarmente importante.

Si vede bene quanto complesso e articolato sia il lavoro teorico e di inchiesta politica necessario per definire una teoria del contropotere all’altezza del nostro presente. Siamo in ogni caso convinti che valga la pena di raccogliere la sfida, anche perché il tema del contropotere ci permette di riformulare in una nuova prospettiva l’intera problematica della “transizione”, del superamento del capitalismo. Se si assume l’ipotesi di una stabilizzazione del contropotere, la stessa opposizione tra riforma e rivoluzione, che ha a lungo strutturato la discussione attorno a quella tematica, perde molto del suo rilievo. E la rivoluzione diventa un criterio operativo all’interno di un processo di accumulazione di contropotere scandito tanto da rotture quanto da compromessi e accordi, in cui il superamento del capitalismo definisce l’orizzonte complessivo (e il cruciale obiettivo strategico) dell’azione politica.

Traduction en français: https://acta.zone/pour-une-theorie-du-contre-pouvoir/?fbclid=IwAR1goAuiSylMrm8jX6r8Yc3FSYv16BikZW8JRB8jUbYIo5wOsItVnDJSn8w

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