Di MARCO ASSENNATO

Le lotte che hanno attraversato la Francia tra il novembre del 2018 e il marzo del 2020 brillano «come un fragile bagliore nella notte» dentro ad un ciclo politico segnato dalla crisi del neoliberismo moderato e dal frantumarsi dell’Europa. In controtendenza rispetto al quadro continentale, il lunghissimo sciopero dei trasporti contro la riforma delle pensioni è sembrato per un momento sciamare nelle scuole, nelle università, negli ospedali, incrociando le lotte femministe e le proteste contro la repressione poliziesca, rilanciando quella potenza collettiva che già si era espressa, in Francia, nelle piazze della Nuit Debout e poi contro la riforma del mercato del lavoro. Tuttavia, nulla di tutto ciò sarebbe avvenuto senza quel fondamentale evento democratico rappresentato dal 17 novembre del 2018, primo atto dei Gilets Jaunes. È questa la tesi espressa nell’ultimo libro che Barbara Stiegler, una delle più interessanti filosofe contemporanee, ha pubblicato per Verdier con il titolo Du cap aux grèves. 17 novembre 2018 – 17 mars 2020.

Si tratta di un diario che racconta l’apprendistato politico alla scuola dei Gilets Jaunes, di un’intellettuale di solito assai riservata: la storia, dice l’autrice, di un «brutale passaggio all’azione». Ma è anche un contributo prezioso per chiunque volesse liberarsi dalle «idee che paralizzano» il nostro immaginario. Secondo la Stiegler, infatti, dai Gilets Jaunes, «questi cosiddetti populisti che – cosa insensata! Illogica! – non vogliono avere capi», questi insorti che non formano partiti, non corrono alle elezioni, e che «non smettono di decapitare tutti coloro che cercano di guidare il movimento dall’alto», possiamo tutti imparare a trasformare i codici e le forme della nostra militanza ed a riorientare il modo in cui costruiamo le nostre analisi.

Il movimento dei Gilets Jaunes ha infatti spezzato la credenza secondo la quale la storia è distesa su una linea retta e inflessibile e dunque in politica si debba conoscere in anticipo la fine del percorso: faranno un partito? Si presenteranno alle elezioni? Altrimenti cui prodest ? All’ossessione per la previsione teleologica, il movimento ha sostituito una cronologia diversa, nella quale il presente si costruisce in comune. D’altra parte, continua la Stiegler, di fronte alle «impasse dell’orizzontalità», ed al dubbio che attraversa ogni esperimento di «democrazia radicale», i Gilets Jaunes ci hanno mostrato che «il campo politico non è né orizzontale, né verticale, né obliquo», ma si costruisce lontano dal potere, nella prossimità di coloro che trovano la forza di sperimentare il futuro, accumulando sapere, potenza e intelligenza collettiva. Dai Ronds Points del 2018 agli scioperi del 2019-2020 non vi è alcuna soluzione di continuità, dunque: e del resto neppure il più triste dei cronisti ha potuto fare a meno di contare i moltissimi Gilets che davano forza e vigore ai cortei sindacali, facendo tremare i maldestri capitani che cercano di imporre al mondo la rotta neoliberale.

In un libro assai prezioso, pubblicato per Gallimard nel 2019 con il titolo Il faut s’adapter. Sur un nouvel impératif politique, la Stiegler ha costruito una genealogia critica del neoliberismo, fondamentale oggi per misurare la distanza che ci separa dalle prime grandi lotte altermondialiste. Nel suo saggio, il pensiero neoliberale viene inteso come un insieme di strategie volte a rieducare la specie umana per adattarla al «gran gioco della competizione mondiale». Seguendo le tesi darwiniste elaborate dopo la crisi del 1929 da Walter Lippmann, il neoliberismo tenta insomma di imporre una narrazione sul senso della storia che «mobilita il lessico biologico dell’evoluzione e dell’adattamento per trasformare lo svolgimento intimo delle nostre vite». Ora è proprio questa ingiunzione biopolitica – adattatevi o sparite – che il movimento dei Gilets Jaunes ha rifiutato. E lo ha fatto, dice Stiegler, «sulla base di tre argomenti razionali» : innanzitutto perché essa incrementa la forbice tra la massa dei perdenti e una minoranza di vincenti; poi perché così facendo si trasforma lo Stato nell’«organizzatore officiale della disuguaglianza e dell’ingiustizia»; ed infine perché la sistematica espulsione del conflitto dalla politica istituzionale «trasforma la democrazia elettiva in un regime autoritario», come mostra il diffondersi esponenziale della repressione poliziesca.

D’altra parte, nella contro-proposta democratica, sperimentata nella miriade di capanne e Ronds-Points, nei cortei, nelle case del popolo e nelle grandi assemblee nazionali organizzate dai Gilets Jaunes, Stiegler vede una eco della lezione di John Dewey, il quale opponeva a Lippmann una diversa lettura di Darwin, proprio sul tema dell’adattamento: «nel laboratorio sperimentale della vita – scrive Stiegler – i valori e i fini dell’evoluzione sono sempre multipli, locali e provvisori». Ed è proprio in questa polemica con Lippmann che trova fondamento il pensiero democratico radicale di Dewey, con il quale è possibile pensare una forma aperta di democrazia che riarticola il rapporto tra sapere e potere, tecnica e politica, dentro alla coppia «sperimentazione e coeducazione». Da questo punto di vista è chiaro come la lezione politica dell’evoluzionismo comporti la necessità di adattarsi alla molteplicità delle pratiche di intelligenza collettiva che permettono di reinventare costantemente la democrazia: «alla divisione funesta tra esperti e masse – scrive dunque la Stiegler – bisogna opporre la democrazia come processo continuo di coeducazione, nel quale ciascuno si forma e si educa reciprocamente grazie alla resistenza materiale del reale e ai suoi conflitti». Qui la ricerca si apre su undici tesi per reinventare lo sciopero, marcate dalla potenza della sesta, che recita: «non c’è alcuna relazione logica tra lo sciopero e la violenza, e neppure tra la lotta e la sofferenza». Le lotte sono spazi comuni di costruzione gioiosa e desiderante, momenti di coevoluzione aperti e costruttivi. Con l’eleganza delle «ipotesi fragili di una novizia», allora, questo prezioso libretto si offre al ragionamento, alla critica e alla discussione collettive.

Ma non basta. Innanzitutto perché tra le idee che paralizzano le nostre pratiche, ve ne sono alcune che abbiamo forgiato noi stessi. Nella parte finale del libro allora la Stiegler abbozza una formidabile critica delle «regole delle assemblee generali» del movimento, fatte «a immagine e somiglianza di questo mondo, nel quale al posto di applaudire facciamo girare i polsi in silenzio come tanti piccoli mulini a vento. Un mondo nel quale non si parla mai troppo forte né troppo vivacemente. Nel quale si deve essere benevoli. Nel quale si espongono i reciproci punti di vista come tanti atomi  che si schivano a vicenda». Si tratta, dice Stiegler, di forme dell’azione collettiva elaborate «nel deserto della spoliticizzazione»: introiezioni della morale neoliberale, vere e proprie «macchine per distruggere il potere e la potenza» degli spazi di azione collettiva. Da qui l’invito, anche dentro alle nostre pratiche, a riscoprire la necessità dei «conflitti» dialettici per costruire luoghi di discussione che «al posto di paralizzare nell’atonia mobilitino immense aule», perché consapevoli «che il mondo reale è pieno di asimmetrie, tanto necessarie quanto pericolose. L’importante è che sia sempre possibile complicarle, perturbarle e capovolgerle».

E poi non basta, per una seconda ragione. L’esplosione della pandemia globale ha, evidentemente, cambiato lo scenario. Tutti i grandi flussi del mercato globale hanno dovuto subire un deciso rallentamento. Il virus è, insomma, sembrato ad alcuni un formidabile alleato nella lotta contro la distruzione del pianeta. Lecito dubitarne. Piuttosto è certo, avverte Stiegler, che se lasciamo «cospirare» il virus con l’oligarchia neoliberale, il domani rischia di essere segnato dalla dissoluzione definitiva di «tutte le agorà, di tutti i consigli e i gruppi a partire dai quali la democrazia tentava di riprender vita». Si tratta allora di affrontare il rischio, sperimentando collettivamente delle forme di «sciopero in confino» o, in altri termini, inventando le lotte necessarie dentro e contro la pandemia globale.

Questo articolo è stato pubblicato in una versione ridotta su il manifesto l’11 settembre 2020.

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