Recensione a Sandro Mezzadra, Brett Neilson, Operazioni del capitale. Il capitalismo contemporaneo tra sfruttamento ed estrazione, manifestolibri, Roma, 2021 (tr. it. di Tania Rispoli)

Di GISO AMENDOLA

Già il titolo del libro dice qualcosa della sfida, teorica e politica, affrontata nel nuovo libro di Sandro Mezzadra e Brett Neilson, disponibile ora in italiano grazie alla manifestolibri e alla traduzione di Tania Rispoli (che ha condotto in porto un compito non certo facile per un libro concettualmente molto denso e composto su vari registri linguistici, dalla teoria politica all’inchiesta, in presa diretta con il divenire di molte significative lotte di rilevanza globale): l’accostamento del plurale “operazioni” al singolare del “capitale” esprime bene, infatti, il tentativo di pensare insieme la molteplicità dei modi in cui il capitale organizza il suo sviluppo (le “operazioni”, appunto), ei regimi globali in cui quelle operazioni si inseriscono, e che richiedono di pensare ancora la logica del capitale come unitaria. Un tentativo non facile, ma politicamente urgente, poiché, a fronte delle trasformazioni della globalizzazione finanziaria, la raffigurazione del capitale ha oscillato tra due retoriche opposte. Da un lato, una rappresentazione nel segno della totalizzazione assoluta del capitale, disegnato come una sorta di Moloch che colonizza integralmente lo spazio della vita, e che non trova più alcun fuori che lo ostacoli, e neppure con cui sia costretto realmente a entrare realmente in relazione: molte analisi contemporanee del neoliberalismo, pur estremamente utili per comprenderne la pervasività e per imparare a pensare il neoliberalismo stesso come una razionalità complessiva, hanno spesso veicolato questa costruzione, attorno all’immagine del capitale come totalità, della sua onnipotenza, senza più alcuna relazione con spazi specifici, soggetti, forze sociali. Dall’altro lato, si è talvolta semplicemente rinunciato a individuarne la logica complessiva, anzi si è archiviata la stessa possibilità che una logica in qualche modo unitaria fosse individuabile, preferendo dissolvere l’unità del capitale nelle sue frammentate relazioni di potere, in una serie di differenze non articolabili e non riconducibili ad alcuna razionalità complessiva. Una totalizzazione completa e pervasiva, nel segno di un’integrale penetrazione del capitale in ogni sfera dell’esistenza, oppure un abbandono del concetto stesso di capitale, a favore di una semplice mappatura delle singole relazioni strategiche di dominio: Operazioni del capitale cerca di oltrepassare questo doppio blocco.

Evidentemente, questi atteggiamenti teorici sono stati anche modi di reagire alle sconfitte, allo spiazzamento complessivo delle forze del movimento operaio davanti al capitalismo finanziario globale e alla trasformazione neoliberale. Allo stesso tempo, finiscono per perpetuare la paralisi. La conseguenza politica di questi atteggiamenti è infatti di consolidare il sentimento di impotenza davanti all’autoreferenzialità del capitale, producendo il ripiegamento sull’accettazione malinconica del presente o sull’elogio del margine. Una volta liquidata la capacità di pensare complessivamente il capitale, e le relazioni tra soggetti e capitale, diventa impossibile, evidentemente, anche pensare lo sfruttamento. Resta certo la possibilità di ribellarsi all’oppressione in quanto tale: diventa però molto difficile ragionare sulla relazione tra le varie figure dell’oppressione, metterne in luce il comune denominatore, ed elaborare strategie politiche di connessione e di coalizione adeguate.

Con un’immagine molto efficace, Mezzadra e Neilson ricordano il progetto interrotto di Sergej Einsenstein, negli anni ’20, di portare sullo schermo Il Capitale di Marx: occorre – annota il regista – superare completamente la logica dell’inquadratura, per procedere, invece, come l’Ulisse di Joyce, alla “formazione di associazioni”. Dal pepe della cucina della moglie dell’operaio, si trascorre alla Caienna, allo sciovinismo francese, alla guerra e così via (pp.83-84). Lungo la traccia di queste associazioni operative di differenze, il libro di Mezzadra e Nielsen prova a reagire a questa incapacità teorica di pensare – insieme – l’unità del capitale e le differenze che ne animano le forme contemporanee: le operazioni del capitale, per l’appunto, permettono di individuare le logiche di connessioni capaci di funzionare attraverso le differenze. Allo stesso tempo, come il sottotitolo scelto per l’edizione italiana chiarisce bene, comprendere la modalità di funzionamento del capitalismo contemporaneo – individuata dagli autori nella prevalenza delle diverse forme di estrazione – aiuta appunto a rileggere il concetto di sfruttamento, senza abbandonarlo come è costretto a fare chi pensa di poter liquidare la ricerca sulla logica unitaria di funzionamento del capitale e sulla stessa valorizzazione capitalistica. Ora, è evidente come le modalità e le condizioni dello sfruttamento siano radicalmente cambiate rispetto a quelle proprie del capitalismo industriale. Mezzadra e Neilson sottolineano opportunamente come sia diventato impossibile pensare lo sfruttamento in chiave semplicemente economicistica: lo sfruttamento nel capitalismo contemporaneo coinvolge evidentemente l’intera sfera della soggettività, tanto da revocare in dubbio la possibilità stessa di tracciare una distinzione netta tra discorsi sullo sfruttamento e discorsi sull’alienazione. Soprattutto, le modalità dello sfruttamento sono caratterizzate oggi da un’eterogeneità tale, da rendere impossibile la riconduzione a qualsiasi figura standard, come poteva essere quella del lavoratore salariato.

Per Mezzadra e Neilson, riconquistare il concetto di sfruttamento (pur trasformandolo radicalmente), è un passaggio insieme teorico e politico irrinunciabile, per poter tenere insieme i due lati lungo cui opera il capitale contemporaneo: la tensione continua a mettere al lavoro le singole vite, le differenze, le specificità, e, insieme, la capacità di catturare la cooperazione sociale in quanto tale, la rete di relazioni sociali complessive. Se l’organizzazione tradizionale del capitalismo industriale, nell’organizzazione di fabbrica, componeva la dimensione dello sfruttamento del tempo di lavoro del singolo operaio con lo sfruttamento della cooperazione sociale nel suo complesso, organizzando tecnicamente e comandando politicamente la cooperazione, nel capitalismo contemporaneo le operazioni del capitale consentono l’estrazione di valore direttamente dalla cooperazione sociale: più che organizzare completamente la cooperazione, il capitale la “incontra”, così come, in diversi modi e nei differenti contesti, incontra le differenti risorse di cui cattura il valore. La centralità di queste operazioni di estrazione non significa, però, che il capitale assuma un ruolo parassitario: le operazioni del capitale articolano continuamente questa estrazione di valore con l’organizzazione – tecnologica e politica – dello sfruttamento delle variegate figure che compongono la forza lavoro. Estrazione, finanza e logistica raffigurano bene le principali operazioni del capitale, che mostrano tutte questa logica: congiungono lo sfruttamento della forza lavoro con la capacità del capitale di estrarre valore direttamente dalla cooperazione. In termini marxiani, le operazioni del capitale articolano continuamente sussunzione formale e sussunzione reale, provandone ad assicurare di volta in volta e in modi diversi la difficile combinazione.

Questo combinarsi di sfruttamento ed estrazione avviene senza necessariamente produrre una unità di tipo tradizionale, una sintesi superiore, ma più propriamente assicurandosi che le differenze funzionino insieme, siano di volta in volta connesse operativamente, secondo quella “assiomatica” che Deleuze e Guattari avevano individuato in Millepiani come logica complessiva che regola i concatenamenti sia dei meccanismi operativi del capitale contemporaneo, sia delle macchine da guerra che continuamento si sottraggono a quei meccanismi e li eccedono. L’essenziale, però, è che queste connessioni operative mostrano come sia completamente inadeguata l’immagine di una “autoreferenzialità” del capitalismo finanziario. L’assiomatica delle operazioni del capitale, infatti, riproduce continuamente incontri del capitale con i suoi “fuori”. La connessione tra le operazioni ha sempre una relazione con ciò che lo eccede. Il capitale articola la sua differenza (interna) ma al tempo stesso quest’articolazione “esonda”, per captare ciò che non è nella piena disponibilità del capitale, ciò che il capitale “incontra”. Riprendendo evidentemente un tipo di riflessione che origina dalle analisi di Rosa Luxemburg sull’accumulazione, e che funziona ottimamente da antidoto rispetto a quelle rappresentazioni che insistono sulla perfetta e solitaria autoreferenzialità del capitale di cui parlavamo in apertura, il testo segue questo movimento di connessione lungo tutte le catene cui danno vita le operazioni estrattive, logistiche e finanziarie: un movimento di continuo attrito del capitale con ciò che non è direttamente organizzato e predisposto dal capitale stesso, ma funziona come suo “fuori”. Per Mezzadra e Neilson, però, i “fuori” del capitale non sono mai fuori assoluti, zone astrattamente esterne rispetto alla sussunzione capitalistica. La logistica, la finanza e l’estrazione funzionano certamente con modalità che fanno riemergere la marxiana sussunzione formale, l’incontro appunto con un valore catturato più che direttamente prodotto dal capitale. Le operazioni del capitale da un lato, i movimenti e le resistenze dall’altro, intervengono continuamente a ridefinire le linee di confine, i modi e i filtri attraverso i quali il capitale incontra i nuovi terreni dell’accumulazione, che non sono mai luoghi di immacolata purezza “precapitalistica”, ma sempre terreno di conflitto.

Gli autori ritornano più volte, a proposito di questo incontro tesissimo tra il capitale contemporaneo e i suoi molteplici “fuori”, su un passo dei Grundrisse in cui Marx descrive il processo di espansione del mercato mondiale: in tale processo, scrive Marx, ogni limite è per il capitale “un ostacolo da superare”. Di questo incontro continuo con i suoi “limiti”, gli autori sottolineano insieme il momento dell’apertura del capitale aggregato (traduzione di Gesamtkapital che gli autori preferiscono rispetto a quella più usuale in inglese di capitale “totale”, o alla trduzione italiana come capitale “complessivo” proprio per sottolineare il movimento interno a un’unità del capitale per niente “totalizzabile”) a ciò che non è direttamente organizzato dal capitale stesso e, contemporaneamente, la molteplicità e la densità delle operazioni attraverso le quali il capitale attraversa questi limiti e prova continuamente a superarli. Molto chiaro – e centrale – è a questo proposito l’esempio della riproduzione sociale: da un lato, il capitalismo contemporaneo incrocia continuamente un’enorme rete di affetti, di cura e di reciprocità, un lavoro riproduttivo verso il quale continuamente spinge i suoi limiti. Di certo, la riproduzione sociale è largamente autonoma e altra rispetto ai processi di mercificazione e di monetizzazione: è un esempio decisivo di “fuori” del capitale, anche se evidentemente non l’unico. Ma – insistono Mezzadra e Nielsen – “i fuori del capitale non devono essere intesi come territori sociali o fisici intatti” (p. 126). Il capitale è in relazione continua con i suoi fuori, ha un rapporto tesissimo con le risorse naturali che consuma, così come  con la sfera della riproduzione sociale, con le soggettività, conoscenze e affetti che compongono il lavoro vivo: da un lato ne dipende, e ne incontra l’autonomia; dall’altro lato, attraversa i suoi fuori continuamente colonizzandoli, nella sua carica di dominio e di espansione, incidendo attraverso un’azione contemporaneamente tecnica e politica sulla produzione di soggettività. Il significato del genitivo qui è doppio, e chiarisce bene il rapporto tra soggettività e capitale: insieme, il capitale produce soggettività, organizza la cooperazione “astraendola” dalla composizione del lavoro vivo; dall’altro, lungi dall’essere autoreferenzialmente chiuso, è attraversato continuamente dalla cooperazione.

Tra lavoro vivo e cooperazione, c’è il continuo lavoro delle operazioni del capitale, e, dall’altro lato, delle resistenze e degli attriti su cui queste operazioni si innestano. Gli autori insistono molto su questo punto: la cooperazione e la forza lavoro non coincidono. Il capitale organizza la cooperazione attraversando continuamente le eterogenee soggettività che compongono la forza lavoro. Dal canto suo, la forza lavoro, proprio quanto più diventa fondamentale il produrre cooperativamente, quanto più emerge l’aspetto direttamente sociale e relazionale della produttività, tanto più si ritrova in condizione di frammentazione e di isolamento, se si guarda alla condizione delle singole soggettività che la compongono. Un esempio molto indicativo: l’importanza del lavoro dei riders sta tutta nella capacità algoritmica di astrarre, coordinare e mettere al lavoro la cooperazione in quanto tale, eppure la distanza tra la percezione soggettiva del proprio lavoro come isolato e la forza produttiva di quella cooperazione non è mai stata maggiore.

Il tema dell’organizzazione politica si colloca esattamente in questo “scarto”, tra grande isolamento e frammentazione della forza lavoro e altrettanto formidabile capacità di sviluppare cooperazione, poi captata e messa al lavoro dal capitale. Aver seguito le operazioni del capitale lungo le modalità di connessione che compongono il capitale aggregato, ma insieme anche attraverso le continue e conflittuali modalità attraverso le quali queste operazioni “toccano terra” nei molteplici fuori del capitale, permette di ripensare l’agire politico collocandolo nel punto di contatto tra eterogeneità e frammentazione della forza lavoro e composizione/astrazione della cooperazione sociale. Le operazioni del capitale si sono rilevate esse stesse politiche e non meramente economiche, o tecnologiche: il modo con cui incontrano, captano, organizzano la cooperazione costituisce una vera e propria politica del capitale. Ancora una volta, i pur fondamentali dibattiti sulla pervasività della razionalità neoliberale rischiano di trascurare questo punto, indulgendo ad una rappresentazione del neoliberalismo come consumazione della politica e trionfo della razionalità economica. Il punto è invece che il capitale sviluppa una sua politica, anzi reiscrive il senso dell’azione politica attraverso le operazioni di connessione e incontro che fanno funzionare estrazione, logistica e finanza. Inutile immaginare quindi un qualche “ritorno” della politica o dello Stato che “rimetta al suo posto” l’economia neoliberale, ritrovando decisione politica e capacità programmatoria. Lo Stato, da canto suo, non è certo esaurito o estinto, ma è reinserito nelle catene globali, trasformato e rimodulato dalle operazioni del capitale, in modo che diventa completamente utopico pensare a una politica di conflitto che si incardini sulla sua riconquista.

In pagine finali molto tese, Mezzadra e Neilson cercano di trasportare il concetto di operazione dall’analisi del funzionamento del capitale ad un ripensamento più generale del senso e della temporalità dello stesso agire politico: l’operazione è insieme attività di intervento e trasformazione, in una parola performatività, e incrocio con il fuori, incontro con l’evento, o, in altri termini, con la trama dei suoi effetti che si stratifica e si consolida. L’agire politico ha da ricostruire questo ritmo: da un lato, si tratta di consolidare le istituzioni della cooperazione, dare capacità di durare nel tempo e di strutturarsi alle potenzialità cooperative, affettive, di conoscenza e di cura che costituiscono quei fuori che il capitale continuamente incrocia ma che ad esso non appartengono; dall’altro, a partire da esperienze organizzative che sappiano progressivamente chiudere lo iato tra lavoro vivo e cooperazione, occorre sviluppare connessioni e traduzioni in grado di sperimentare “una politica in grado di affrontare le operazioni del capitale al livello del loro impatto sui variegati tessuti della vita quotidiana” (p. 350). La politica qui si tiene lontana da ogni reductio ad unum: l’unità precaria e aperta del capitale aggregato globale va affrontata creando istituzioni per rendere stabile il darsi di un potere diviso, tra contropoteri almeno parzialmente autonomi e istituzioni del potere dominante: non a caso, il libro si chiude sul discorso del leader dei Ciompi, “inventato” da Machiavelli nelle Istorie fiorentine, una rivolta in cui una giovane Simone Weil, ancora vicina al sindacalismo rivoluzionario, aveva scorto appunto l’emergere del dualismo di potere come “fenomeno essenziale delle grandi insurrezioni operaie” (p. 351).

Questa indagine di Mezzadra e Neilson è capace di farci intravvedere come nel cuore delle operazioni simultanee di astrazione e di estrazione del capitale si diano anche, quasi in controluce, le condizioni per una politica della composizione del comune, e per consolidare attraverso una tale politica esperimenti istituzionali di contropoteri duraturi, che allarghino gli spazi sottratti allo sfruttamento e amplifichino, contemporaneamente, le possibilità per un’azione politica realisticamente efficace. Il successo di questo doppio movimento, sarà legato alla capacità di strappare l’esclusiva della capacità di astrazione alle operazioni del capitale, e di riuscire a pensare una reinstallazione delle capacità di astrazione e di “operazionalità” nel cuore degli spazi e dei tempi della cooperazione sociale: il tentativo, nella conclusione del libro, di ripensare la performatività dello stesso agire politico, e la sua relazione con il tessuto di tempi, soggetti ed eventi entro cui quella performatività si produce, di reinventare il nesso tra tempo della performatività e tempo dell’evento, mi pare l’indicazione, per il lavoro futuro, di un orizzonte di ricerca e di trasformazione politica urgente per farla finita con l’interiorizzazione di troppi elementi di stasi e di ripiegamento.

Questa recensione è stata pubblicata nell’ultimo numero di Alternative per il socialismo (n. 61, luglio-settembre 2021)

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