Di MARCO CODEBO

È il 29 novembre 1914 a Berlino. Al Reichstag si riunisce il gruppo parlamentare dell’SPD. All’ordine del giorno il voto dei socialdemocratici nella prossima seduta del parlamento, quando il governo tornerà a chiedere l’approvazione dei crediti di guerra. Si alza e ripete quello che ha già scritto nelle Tesi di novembre. Che il governo mente quando afferma che la Germania è in guerra per combattere lo zarismo, regime abietto e retrogrado. Che la guerra la vogliono i padroni dell’industria pesante, interessati alle risorse del Belgio e della Lorena francese, i signori della grande finanza e i sostenitori dell’espansione coloniale in Africa. Che la guerra è un attacco al movimento operaio.

Si va ai voti, 78 sì ai crediti di guerra, 14 no.

Tre giorni dopo, seduta del Reichstag. Si discutono i provvedimenti finanziari proposti dal governo per sostenere lo sforzo bellico. Alla conclusione del dibattito, Johannes Kaempf, presidente dell’Assemblea, chiede ai parlamentari di alzarsi in piedi per approvare il secondo disegno di legge governativo per l’anno fiscale 1914. Lo fanno in trecentonovantasei. Lui no. Per quel che vedo – proclama Kaempf – i crediti di guerra proposti del Ministro delle Finanze sono approvati all’unanimità con l’eccezione di un unico deputato.

Non parla, il regolamento del Reichstag non lo permette. Ma non importa. Tutto quello che sa sulla guerra l’ha già detto e scritto. Ma molto, anzi quasi tutto, non lo sa ancora.

Non sa che gli restano quattro anni di vita.

Non sa della Somme, di Gallipoli, dell’Isonzo.

Non sa che fra tre mesi lo chiamano alle armi.

Non sa che gli faranno una foto dove mostra una certa somiglianza con Buster Keaton. È il 1915 e sta andando al Reichstag in divisa da coscritto.

Non sa di in un romanzo pubblicato in Francia nel 1916, Le feu di Henri Barbusse. Lì c’è un personaggio, il caporale Bertrand, che impone un’implacabile disciplina ai fanti e crede che la guerra alla Germania sia giusta e necessaria. Tradotto in italiano sarebbe un interventista. Ma a un certo punto, in una pausa della carneficina, tira fuori questa cosa qui: “c’è una figura che si è innalzata al di sopra della guerra e brillerà per la bellezza e l’importanza del suo coraggio”. Poi ne fa il nome. Ed è il suo, quello dell’unico deputato del Reichstag a rimanere seduto il 2 dicembre del ‘14.

Non sa della prima dimostrazione di massa in Germania contro la guerra, 10.000 manifestanti il Primo Maggio del ‘16 a Berlino. Fa in tempo a gridare “Abbasso la guerra! Abbasso il governo!”, prima che gli saltino addosso ad arrestarlo e impedirgli il comizio.

Non sa che lo condanneranno per alto tradimento: due anni e mezzo in primo grado, quattro e un mese in appello. Quella volta dirà ai giudici che nessun generale aveva mai vestito l’uniforme con tanto onore quanto lui lo farà con quella da carcerato.

Non sa che uscirà per amnistia il 23 ottobre del ’18. Saranno in 20.000 a sfidare la legge marziale per aspettarlo alla stazione berlinese di Anhalter.

Non sa che ci sarà anche lui a fondare il KPD, il Partito comunista tedesco, negli ultimi giorni del 1918.

Non sa di Käthe Kollwitz, che prima gli fa un ritratto a matita, steso sul tavolo della morgue di Berlino, e poi lo racconta circondato dal dolore delle compagne e dei compagni. È una xilografia: “I vivi al morto. In ricordo del 15 gennaio 1919”.

Non sa che gli faranno un monumento, a Rosa, a lui e alla Rivoluzione di novembre: costruito nel 1926 su progetto di Mies Van de Rohe, distrutto dai nazisti nel ‘33.

Non sa di noi. E meno male. Nemmeno nel pessimismo più nero potrebbe immaginarsi che di lì a cent’anni, la speranza l’avremmo cercata nel suo discorso del 29 novembre 1914.


[*] Purg. III, 135

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